domenica 29 luglio 2018

Immigrazione: buonismi, stime contraffatte e dati reali




Quando si parla di immigrazione, sarebbe il caso di partire dai dati, invece di affidarsi a mozioni dei sentimenti, che lasciano il tempo che trovano.
I dati ufficiali del Ministero dell’Interno ci dicono, che nel periodo 1 gennaio-26 luglio 2016, gli sbarchi in Italia sono stati 88.360. Nel corrispondente periodo del 2017, sono saliti a 94.448, per poi crollare, nel 2018, a 18.130, l’81% in meno rispetto all’anno precedente. Perché tale repentino crollo? Non certo per un altrettanto repentino miglioramento della situazione nei Paesi di origine dei flussi (cfr. in un prossimo articolo per una analisi di sintesi della situazione politica e sociale dei Paesi di partenza). Ma per un semplice motivo. Il Ministro Minniti, in prima battuta, e il Ministro Salvini, in modo molto più efficace, hanno iniziato a contrastare il fenomeno, a stringere accordi specifici con la Libia (che da sola assorbe il 95% delle partenze nel 2017), ad armare la sua Guardia Costiera, ad istituire hotspot nelle aree di imbarco. Salvini, a partire da giugno, cioè all’inizio del periodo estivo di picco delle partenze, ha chiuso i porti, ha dissuaso l’attività delle ONG, soprattutto ha lanciato chiaramente un messaggio di chiusura agli arrivi, dopo l’insensata politica delle porte aperte varata dal 2011 in poi e poi ripresa ed amplificata da Renzi.
Questo dato non significa, come furbescamente prova a dire D’Alema, che non c’è una emergenza migratoria. Quella c’è eccome. In due anni e mezzo sono sbarcati da noi circa 319.000 migranti, una popolazione non molto lontana da quella di una città medio-grande come Firenze. Senza contare gli anni pre-2016. Si stima che i soli immigrati irregolari che si aggirano nel nostro Paese siano circa 570.000. Gli stranieri non comunitari presenti in forma regolare, a fine 2017, sono 3,16 milioni. Stiamo parlando, fra regolari ed irregolari, di quasi 4 milioni di persone. I ricollocamenti in altri Paesi della Ue, al 16 luglio 2018, riguardano meno di 13.000 unità, una goccia nell’oceano. Sono numeri tipici di una popolazione di un piccolo Stato. E’ come se ci fossimo messi in casa, in un decennio, un altro Paese.
I costi economici e sociali, presenti ma soprattutto futuri, di questa popolazione aggiuntiva, povera e destinata ad occupare i ranghi inferiori del mercato del lavoro, in termini di servizi welfaristici, sicurezza, interventi di accoglienza ed integrazione, pressione al ribasso sui salari (soprattutto quelli già più bassi, poiché la competizione avviene sulle professioni meno qualificate) sono inimmaginabili. Il loro apporto al sistema previdenziale è irrisorio, stanti i modesti livelli retributivi medi sui quali sono calcolati i contributi, e, spingendo verso il basso anche i salari degli autoctoni, come conseguenza di ovvi meccanismi concorrenziali dal lato dell’offerta sul mercato del lavoro, tendono ad impoverire anche il gettito pensionistico degli italiani. Nel frattempo, essi pesano sui servizi pubblici a costo unitario fisso finanziati dalla fiscalità generale (sanità, trasporti, scuola, ecc.) e sulle politiche di contrasto alla povertà ed al disagio socio-abitativo (soltanto le pensioni sociali erogate a migranti sono cresciute di oltre il 100% in circa un decennio) senza al contempo, ancora una volta a causa dei modesti livelli retributivi, contribuire al loro finanziamento (è lo stesso Inps a dichiarare nel suo Rapporto Annuale che i salari dei lavoratori immigrati oscillano, a seconda dei settori, dal 66% al 91% dei loro omologhi italiani). La forbice si aggraverà sempre più nei prossimi anni.
I conti sono presto fatti: la spesa pubblica al netto del pagamento degli interessi per il debito pubblico è di 9.332 euro ad abitante all’anno. Il gettito fiscale e contributivo è di  8.916 euro ad abitante (Ragioneria Generale dello Stato, anno 2017). Siamo già in situazione di squilibrio, ed evidentemente l’ingresso di una popolazione aggiuntiva di poveri, che guadagna poco e paga poche imposte (e quindi contribuisce ad abbassare il dato medio di entrate per abitante) ma che pesa finanziariamente esattamente quanto gli italiani sui servizi welfaristici (perché curare o far studiare un immigrato costa esattamente quanto un italiano) non potrà che allargare il disavanzo pubblico. Altro che immigrati che ci pagano le pensioni! Se moltiplichiamo le spese di comparti a costo rigido unitario (sanità, scuola, sicurezza e giustizia) per il numero di extracomunitari, regolari e non, residenti nel nostro Paese, otteniamo una spesa aggiuntiva di 4,2 miliardi all’anno, soltanto per questi servizi.
E rispetto ai dati di Boeri per le pensioni, occorre una precisazione: l’INPS stesso, nel suo trionfalistico Rapporto Annuale in cui magnifica l’apporto dei lavoratori extracomunitari al sistema previdenziale, lascia passare informazioni piuttosto discordanti. In particolare, l’apporto contributivo dei lavoratori extracomunitari già iscritti all’INPS non sembra molto brillante: l’INPS stima un contributo positivo per 36,5 miliardi, fra contributi e prestazioni, ma lo stesso Rapporto, in una noticina scritta in carattere minuscolo e inchiostro simpatico, specifica che dal conto delle prestazioni sono stati esclusi 40,3 miliardi di prestazioni già maturate ma non ancora erogate, a favore di lavoratori extracomunitari che non hanno ancora l’anzianità contributiva necessaria per accedere alla pensione di anzianità. Ma evidentemente, quando essi potranno accedervi, il saldo positivo fra contributi e prestazioni diverrà leggermente negativo.
Non parliamo poi delle stime sull’apporto al sistema previdenziale degli immigrati futuri: la dinamica retributiva reale di tali lavoratori viene posta pari ad una crescita dell’1,5% annuo. Troppa grazia Sant’Antonio! Nell’ultimo decennio, le retribuzioni medie degli italiani sono cresciute di solo l’1,1% annuo in termini nominali, e sono state negative in termini reali. E’ ovvio che se si sopravvaluta la dinamica retributiva, si sopravvaluta il gettito contributivo, e quindi il saldo netto degli apporti pensionistici degli immigrati diventa artificiosamente positivo. Inoltre, dal calcolo delle prestazioni stimate per il futuro l’INPS esclude le pensioni assistenziali, che però costituiscono il segmento in cui è più rapido l’incremento di beneficiari stranieri. Infatti, le pensioni assistenziali (che come è noto non richiedono il versamento di contributi), che nel 2007 venivano erogate a 28.516 beneficiari extracomunitari, per un valore medio annuo dell’indennità pari a 6.330,58 euro, nel 2016 sono erogate a 88.860 beneficiari extracomunitari (+211,6%) per un importo medio annuo di 7.068,93 euro (+11,7%). Di fatto, nel 2016, il 61,2% dei cittadini extracomunitari titolari di una pensione erogata dall’Inps hanno una pensione assistenziale. E’ evidente che eliminare dal calcolo tali pensioni, che sono così diffuse e così in crescita fra gli extracomunitari, significa sottovalutare il flusso di spesa previdenziale. L’imbroglio è presto fatto: entrate contributive sovrastimate, uscite contributive sottostimate, ed ecco che l’apporto dei lavoratori extracomunitari futuri al sistema previdenziale diventa positivo!!!
In sostanza: i dati ci mostrano che già oggi, se le frontiere fossero, per ipotesi, completamente chiuse, l’immigrazione extracomunitaria E’ una emergenza sul versante della tenuta dei conti pubblici e di quelli previdenziali. Lo è sul versante della percezione di insicurezza della popolazione, su quello dell’accesso ai servizi welfaristici, su quello dell’identità culturale ed etnica di un popolo. I numeri mostrano come, con un po’ di determinazione, i flussi in ingresso possono essere largamente contenuti, e forse anche fermati. La retorica dell’immigrazione non frenabile e benefica non ha quindi alcun riscontro empirico. Se anziché spendere circa 4,3 miliardi all’anno per l’accoglienza (per i quali, bontà sua, la Ue ci rimborsa soltanto 80 milioni) spendessimo di più per cooperazione con i Paesi di partenza e di transito (per il 2017, si stima una spesa di soli 200 milioni per il dialogo con i Paesi nordafricani di transito, e solo 256 milioni per iniziative di promozione della pace, oltre agli inutili 950 milioni dati in cooperazione allo sviluppo, cioè in donazioni a regimi spesso non molto democratici o distributivi) probabilmente otterremmo molto di più, e daremmo prospettive reali anche a chi oggi si imbarca.

domenica 22 luglio 2018

LIVORNO - PD E SOCIETA' CIVILE ED INCIVILE.

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 Il riferimento di questo post è l'articolo odierno sul Fatto Quotidiano rinvenibile al seguente link: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/07/22/livorno-da-qui-il-pd-prova-a-rinascere-strategia-unire-centrosinistra-e-puntare-su-societa-civile-per-nascondere-il-partito/4501285/. Livorno, come è noto, è stato il laboratorio della disgregazione del partito demcoratico. Quattro anni fa, proprio mentre Renzi si crogiolava nel 41% alle Europee, il M5S conquistava il successo in quella che sarebbe stata la seconda città più grande da esso amministrata, dopo Parma e prima di Roma.
In una analisi del voto quartiere per quartiere (http://bentornatabandierarossa.blogspot.com/2014/06/una-analisi-un-po-piu-strutturata-del.html) evidenziavo come il voto operaio tradizionalmente "rosso" fosse ancora rimasto al Pd, seppur con consistenti emorragie confluite essenzialmente nell'astensionismo, mentre Nogarin vinceva sulla base di un voto trasversale, interclassista e cementato da un risentimento per la paralisi sociale ed economica lasciata in eredità dal Pd, aggravata dalla crisi economica generale.
In questi quattro anni, la deriva sociale è andata avanti. Il risultato delle politiche dimostra che anche il voto operaio si è consegnato in parte cospicua alla Lega, balzata oltre il 15%. Il Pd galleggia, vincendo all'uninominale della Camera, soprattutto in virtù di un certo calo registrato nel M5S, come conseguenza di una gestione amministrativa della città non brillante, e comunque non in grado di aggredire strutturalmente i grandi nodi critici della crisi urbana.
Di fronte a questa situazione, con una buona certezza che, andando al ballottaggio, il voto gialloverde si riaggregherebbe, persino il debole Nogarin ha possibilità concrete di ottenere un secondo mandato, e non è da escludere un boom del centrodestra a trazione leghista, come verificatosi nella vicina Pisa, per molti versi coinvolta negli stessi processi di degrado sociale, economico e civile di Livorno, appartenendo a quel quadrante tirrenico che è il cuore della crisi da deindustrializzazione della regione.
Con tali prospettive, il Pd livornese, che oramai costituisce uno dei capisaldi del residuo potere renziano, con il suo coordinatore cittadino (Andrea Romano) che è un uomo dell'inner circle del rignanese, si presenterebbe, secondo un articolo odierno del Fatto Quotidiano, con una mano tesa verso LeU (che riesce ancora, presidiando alcuni segmenti storici della sinistra radicale, a stare attorno al 5-6%) "ingoiando" il presuntuoso atteggiamento di Renzi, aprendo a candidati sindaci non targati sotto il profilo partitocratico e liste "rappresentative della società civile".
Ora, questa storia della società civile dura da sin troppo tempo per non capire che è una enorme finzione. In una città colonizzata da un establishment politico, economico ed amministrativo monolitico da più di 50 anni, la società civile non è altro che un trucco. Essa è costituita dal funzionariato e dal proletariato lavorante in quei gangli economici che sostengono detto establishment (cooperative rosse del commercio e dell'edilizia, Compagnia Lavoratori Portuali, imprenditori logistici e spedizionieri legati da sempre in un rapporto concertativo con la sinistra degli affari) e, in una città che invecchia, da quella militanza storica oramai in pensione, legata da un vincolo affettivo al "partitone".
La società "incivile", ovvero il sottoproletariato urbano senza prospettive, il precariato giovanile costretto a tassi di emigrazione da città meridionale o ad umilianti e sottopagati "mini job" rimanendo agganciato alla famiglia di origine, è oramai insanabilmente ostile a tale blocco di potere e, se non vota più per il M5S con le stesse percentuali del 2014, causa la scarsa efficacia di Nogarin, si volge verso la Lega, vero fenomeno politico emergente nel panorama labronico, anche complice una immigrazione assolutamente fuori controllo, che ha finito per devastare, con microcriminalità e conflitti per l'accesso alle risorse sempre più scarse del welfare, quartieri popolari già estremamente problematici. Tale fascia di sofferenza sociale acuta si salda con la piccola borghesia del commercio e delle professioni, nell otesso patto fra protezione e rivolta fiscale che ha consentito il successo nazionale della coalizione dei gialloverdi. Si tratta di un blocco sociale molto forte, lo stesso blocco sociale che da sempre garantisce, con modalità diverse e trasformistiche, il successo della destra sociale e corporativa italiana.
Il mantra della società civile, a ben vedere, è una testimonianza del degrado culturale della sinistra che, dimentica delle lezioni leniniste e gramsciane, non capisce più che non esiste un "popolo" autonomo rispetto alla politica, che la gens diventa popolo grazie alla direzione politica che gli imprime il partito, che non ci sono, là fuori, società civili e virtuose che aspettano di essere rappresentate da una politica virtuosa, che è compito della politica costruirle, o ricostruirle dopo lo tsunami devastante della crisi.
I piddini e, ne sono certo, i "leuisti" e le frange sinsitrorse come Buongiorno Livorno che ad idiozia politica non sono secondi a nessuno (basti pensare che a Buongiorno Livorno, una specie di emanazione da sentina di Rc, basterebbe che il Pd rinunciasse al simbolo in campagna elettorale per allearvisi, come se, rinunciando al simbolo, il Pd magicamente tornasse ad essere un partito di sinistra), inseguiranno una società civile che altro non è che il blocco sociale relativamente meno colpito dalla durissima ristrutturazione sociale subita dal Paese. E così facendo, non faranno che inseguire chi già oggi li vota, contorcendosi su sé stessi, incapaci di guardare oltre i tremebondi confini del proprio cortile sempre più assediato.
E perderanno, perderanno male, ancora una volta. Saranno purgati malamente, e non capiranno la lezione, perché non la vogliono capire. Oramai la loro casa è quella: una piccola, pulita ed ordinata casetta di coloni benpensanti e individualisti, nella prateria piena di indiani e comancheros incazzati e disperati.
Ma guardate: questo bipolarismo sociale non può durare, una società democratica non può basarsi su questi steccati, prima o poi muore e lascia lo spazio ad un regime, che farà sintesi con le buone o con le cattive.

giovedì 12 luglio 2018

Il punto di non ritorno, di Riccardo Achilli




La domanda centrale se vi sia un futuro per una sinistra autonoma ed influente è, in un orizzonte temporale ragionevole per poter fare previsioni (diciamo 5-10 anni), a parere di chi scrive, a riposta negativa. Ho già scritto in relazione alle condizioni necessarie per riavviare sin da subito un percorso di ripartenza della sinistra in un recente articolo ("Sinistra: estinzione o rinascita?" su L'Interferenza) ma, diciamoci la verità, tali condizioni non sono realisticamente praticabili. I gruppuscoli dirigenti attuali, responsabili in massima misura della catastrofe, non hanno alcuna intenzione di mollare, se non celandosi dietro qualche uomo/donna di paglia manovrato/a alle spalle in un simulacro di rinnovamento. Anzi, il governo gialloverde fornisce a questi scellerati l’occasione di ricompattare le loro scarne truppe in una battaglia di sopravvivenza contro immaginifici pericoli razzisti e fascisti artatamente agitati e patologicamente interiorizzati in una sorta di coazione a ripetere ideologica da parte dei propri seguaci. E’ una acquisizione clinica il fatto che alcune delle peggiori psicosi, come ad esempio la paranoia, siano disturbi della funzione del “dare senso” alle immagini, ai simboli ed alle rappresentazioni (Hillmann ha scritto un saggio sulla paranoia molto utile per identificare alcuni sintomi indicativi del morbo mentale che affligge la sinistra radicaloide italiana).
Non essendovi alcun ricambio significativo di ceto politico, non vi sarà alcun ricambio di messaggio e di parole d’ordine e, di conseguenza, non vi sarà alcuna espansione rispetto ai residuali presidi sociali della sinistra (il Pd non fa parte della definizione di “sinistra”, ovviamente) consistenti in segmenti minoritari di ceto medio riflessivo e di militanza tradizionale. Nell’incapacità di dare senso alla fase storica, e quindi di immaginare un posizionamento ed una linea politica attualizzati al contesto reale e non a quello fantasmato, la sinistra terminerà la sua agonia (che dura sin dagli anni Novanta, con il tracollo dei riferimenti ideologici e culturali principali, nelle macerie del muro di Berlino) nella morte definitiva. Non è un fenomeno insolito: altri casi nazionali dimostrano che, laddove si sviluppano populismi egemoni (che si sviluppano, in genere, per inanità della sinistra nazionale) i pascoli sociali tradizionali si consumano definitivamente, e cambiano natura, divenendo strutturalmente inadatti a nutrire un progetto socialista autonomo. E’ il caso dell’Argentina, dove una socialdemocrazia in grado di fare egemonia ha potuto svilupparsi soltanto all’interno del corpaccione del populismo peronista (il kirchnerismo nasce dalla matrice giustizialista) o, in Europa, è il caso dell’Ungheria, dove due populismi di destra (quello di Orban e quello di Jobbick) si contendono la pastura sociale ed elettorale di una sinistra che si è semplicemente estinta.
Gli spazi di potenziale espansione sociale della sinistra italiana si stanno irrimediabilmente chiudendo. E’ puramente utopistico pensare di recuperare elettorato progressista confluito nel M5S o ceti popolari entrati strutturalmente nell’area leghista. Chi si culla nella beata illusione di una sorta di “big bang” pentastellato o in una “riconduzione a sinistra” del M5S non capisce la portata, per certi versi storica, dell’avvento del governo gialloverde. La formazione di tale governo è stata infatti l’espressione della saldatura di un blocco sociale, differenziato al suo interno, ma estremamente coeso in termini di obiettivi ed interessi. Un blocco sociale la cui ricostruzione, dopo la distruzione per via giudiziaria della sua precedente versione all’ombra della Prima Repubblica, è stata avviata dal berlusconismo (che infatti presenta aspetti, nella fluidità del partito egemone, ricondotto a mero comitato elettorale, e nel cesarismo del suo leader/padrone, aspetti in nuce tipici di un nascente populismo). Tale blocco sociale, costituito da piccola borghesia, sottoproletariato urbano, segmenti di proletariato maggiormente esposti alle ondate distruttive della globalizzazione su un apparato produttivo sempre meno competitivo, con la novità dell’ingresso di quote rilevanti di quelle classi emergenti del precariato cognitivo e della new economy semplicemente rimosse e disprezzate dalla sinistra, è unito da paure ed interessi che hanno a che vedere con il degrado della funzione protettrice della identità nazionale e dello Stato-nazione che ne è l’espressione istituzionale, con una domanda sociale di individualismo fiscale e di protezione pseudo-corporativa, mediata da una figura forte, e quindi tranquillizzante, di leadership.
Ad un dipresso, ed al netto dei ceti emergenti del post-capitalismo citati in precedenza, che ha comunque catturato, tale blocco sociale è quello che ha sostenuto ogni periodo di potere di una delle due destre italiane, quella di natura popolare-sociale, dal fascismo ai lunghi periodi di governo della destra della Dc e dei suoi alleati (con l’eccezione, non lunghissima, del primo centrosinistra degli anni Sessanta e della fase di compromesso storico) fino al berlusconismo e, per l’appunto, all’attuale maggioranza. Detto blocco sociale ha sempre trovato forme diverse ed adatte ai tempi di manifestarsi. La fine delle specifiche formule politiche legate alle diverse fasi storiche gli hanno consentito sempre di riproporsi come polo dominante, grazie al suo trasformismo, lungo la storia del nostro Paese. 
Solo in particolari periodi (per l’appunto, negli anni Sessanta del primo centrosinistra, o nella fase costituente dell’immediato dopoguerra) la sinistra ha avuto la forza di piegare questo blocco, incuneandovisi, e realizzando gli unici avanzamenti civili e sociali sperimentati dal nostro Paese (la fine della monarchia e la Carta Costituzionale, il welfarismo degli anni gloriosi del boom economico, la politica estera euromediterranea e di equilibrio fra Est ed Occidente della migliore fase del craxismo).
Ma, per l’appunto, stiamo parlando di una sinistra forte e radicata nel profondo del Paese, con la forza di penetrare dentro le contraddizioni del blocco sociale dominante, ottenendo, oltretutto per periodi tutto sommato brevi ed in forma episodica e non continuativa, la possibilità di innestarvi le proprie proposte. La ridotta testimoniale, supportata da posizioni politico-culturali grottesche e surreali, in cui si è ridotta attualmente, non consente di pensare che vi sarà la forza di incunearsi dentro le contraddizioni del blocco sociale dominante. Se anche il M5S dovesse tracollare, il blocco sociale sottostante non si spezzerà, non ci saranno fuoriuscite di materiale elettorale da un immaginario big bang, ma esso transumerà tranquillamente ed integralmente dentro la Lega. Lo stiamo vedendo già dalle prime elezioni amministrative post-formazione del Governo Salvini-Di Maio e dai sondaggi: il calo elettorale dei pentastellati va a gonfiare i numeri dei leghisti. Il blocco sociale non si dissolve, non tracima verso l’esterno, ha semplicemente dei movimenti interni di assestamento legati al suo eterno trasformismo, che lo porta ad aggiustare costantemente le formule politiche in cui si esprime. Ma non esce, nemmeno in piccole quote, dal recinto in cui si è chiuso, perché non conviene a nessuno dei suoi attori avventurarsi oltre il grasso campo di pascolo che presidia. Di conseguenza, le bestie che si trovano fuori dal recinto della fattoria degli zii Salvini e Di Maio, ovvero il Pd, Fi e i micro-partitini di sinistra, continuano a dissanguarsi ed a deperire per mancanza di nutrimento sociale. Le poche specie animali che, all’interno del M5S hanno ancora una postura vagamente sinistroide, come Fico o i piccoli cacicchi provenienti dalla disgregazione della sinistra, sono poco più che automi, che saranno rapidamente destinati al macello (oggi Fico viene preso a mazzate dal suo amico Di Maio persino per aver realizzato una delle battaglie storiche del M5S, ovvero la cancellazione dei vitalizi) ed in parte utili idioti collocati a presidio del lato sinistro della tenuta agricola della premiata Ditta.
L’estinzione finale della sinistra politico-sindacale italiana, intesa come forza in grado di influenzare la direzione di marcia del Paese, sia pur minimamente e residualmente, e da posizioni politiche ed organizzative autonome, è un destino ineluttabile. E’ quasi una necessità storica: per rinascere occorre prima morire. E’ una evidenza profonda e segnalata da una simbologia universale: dal simbolo della Fenice, al significato della Morte nei tarocchi come carta di rinascita, alla potentissima simbologia cristiana del Dio che, per rinascere fortificato nella sua comunità di fedeli, deve prima passare dalla crocifissione, ai miti greco-egizio di Osiride Niente potrà evitare la morte, nessun artificio. Il neo-municipalismo rappresentato da De Magistris altro non è che una versione povera, localistica e miope dei bias ideologici di cui soffre la sinistra a livello nazionale: internazionalismo d’accatto, buonismo acritico, dirittocivilismo, ambientalismo di maniera ed incapace di intaccare i rapporti sociali di produzione. In aggiunta a tali lacune, il neomunicipalismo aggiunge le sue tare specifiche: l’invischiamento dentro le pastoie del micro-territorio impedisce di portare su un livello più alto la domanda sociale, e resta ingabbiato dentro un rivendicazionismo di micro-interessi mediato, per necessità (legata all’impossibilità di dotarsi di strutture organizzative complesse, data l’eccessiva prossimità con il livello territoriale) da un caudillo vernacolare, una specie di Cola di Rienzo, o di Masaniello. Questa strada è solo un espediente per prolungare il coma.
Dalle macerie non si uscirà malconci ma indenni, come i sopravvissuti di un bombardamento che escono dal rifugio antiaereo grati di essere ancora in vita e pronti a ricostruire. Non si potrà più sopravvivere all’ombra di un capetto nella protezione di una setta. Non ci saranno più centri studi o riviste cui affidare, come messaggi in bottiglia di naufraghi, i propri messaggi. La destra di potere risolverà i problemi con la sua visione del mondo, e non avrà nessuna pietà di chi ha lungo ha creduto di difendersene sbeffeggiandola. Le pulsioni autoritarie che le sono proprie si sfogheranno su ciò che resta della sinistra, mettendola in condizioni di non esprimersi più. Occorrerà una lunghissima fase di rielaborazione teorica dell’analisi sociale e della linea politica e programmatica.
Ed accanto alla teoria, occorrerà anche una immersione molto pratica nel cuore sofferente del Paese, quel cuore abbandonato da una sinistra parolaia e di potere, ricostruendo il senso della “commozione”, ovvero del muoversi insieme agli interessi sociali subalterni, entrando nelle loro paure, nelle loro sconfitte, non bollandole come manifestazioni di analfabetismo, ma sapendo comparteciparvi. E qui dirò esattamente come la penso: in assenza di una capacità di tenuta politico-organizzativa autonoma, che l’estinzione prossima ventura evidenzierà, sarà necessaria una soluzione “kirchneriana”: forme di entrismo intelligente e critico dentro il corpaccione del populismo di potere, per lavorarlo dall’interno, cercando di piegarne a sinistra, per quanto possibile, le enormi potenzialità di consenso che presidia. Possiamo anche baloccarci, con lo stesso spirito di quelli che brindavano sul ponte del Titanic un attimo prima della collisione, con giochetti organizzativi: con De Magistris si o no, con PaP si o no, Possibile si o no, e vediamo cosa fanno quelli di Mdp, e vediamo come e con chi riaggregare SI dopo l’inevitabile esplosione di LeU, e rimettiamo insieme cocci disparati. Sono soltanto forme di ricomporre una polpetta sfragnata, sono divertissement astratti, che non poggiano più su nessuna base di consenso, che non hanno più nessun margine di manovra nel mondo reale.
Il consenso sta altrove. Non c’è la forza e la credibilità per portarlo fuori dal recinto della fattoria degli zii Salvini e Di Maio. Ed allora occorrerà chinare la testa ed abbassare le orecchie, come è giusto facciano i perdenti, e cercare di entrare nel recinto portando dietro una posizione propria, e cercando di farla valere per quanto possibile. E l’unico modo per farlo, prima che sia troppo tardi ed i guardiani della fattoria ci abbattano, occorrerà iniziare a dialogare con le bestie che popolano la fattoria, oltre il recinto. Non continuando ad insultarli, a trattarli da fascio-razzisti, ma comprendendo a fondo le istanze sociali che rappresentano e mostrando rispetto. Cercando di sostenere le istanze interne al M5S che intendono contrastare gli aspetti più belluini delle politiche di questo Governo, aiutando tal istanze a non essere del tutto schiacciate. Prima che l’onda lunga della deriva di destra del Paese non ci cancelli del tutto, rendendoci inutili anche per questo ruolo residuale.