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sabato 1 ottobre 2016

Donne di mafia: il ruolo femminile nella ‘Ndrangheta




Le mafie, la ‘Ndrangheta in particolare, sono da sempre custodi gelose della tradizione. La tradizione serve infatti per imporre codici di comportamento interno improntati alla disciplina, particolarmente importante in una organizzazione, come quella delle ‘Ndrine, a fortissima base di consanguineità, dove quindi aspetti relazionali di tipo familiare si confondono e si mescolano con quelli legati all’attività criminale. Serve anche per creare un alone di “rispettabilità”, di prestigio, per attrarre nuovi adepti, affascinati dall’idea di entrare in una setta dove vigono dei solidi principi, specie nel degrado sociale e di prospettive tipico del nostro Mezzogiorno.
E d’altra parte la tradizione è importante per un motivo molto più pratico. La ‘Ndrangheta nasce nella società contadina calabrese, parallelamente al processo unitario tardo ottocentesco, come evoluzione del fenomeno della picciotteria esistente nel Regno delle Sue Sicilie, a metà fra una sorta di bravi al servizio dei latifondisti per sedare le rivolte contadine, di gruppi di autodifesa basati sulla violenza, e in alcuni casi di capipopolo che amministravano la giustizia in quelle plaghe semi-abbandonate dal potere borbonico. Con l’unità nazionale, si assisté alla formazione di “società di mutuo soccorso” segrete fra famiglie di braccianti, pastori, piccoli proprietari e piccoli artigiani, aventi una chiara connotazione di società parallele anti-Stato, che assorbirono rapidamente gli elementi criminali della preesistente picciotteria, divenendo quindi organizzazioni mafiose. Il tradizionalismo viene sintetizzato efficacemente dal verso di una canzone di ‘Ndrangheta: “lavuraru trint'anni sutta terra, pi fondari li reguli sociali, leggi d'onori di sangu e di guerra leggi maggiori, minori e criminali”.
Dedite, inizialmente, ad estorsioni ed al pizzo, ad abigeati, o al caporalato agrario, all’organizzazione del gioco d’azzardo, le ‘Ndrine riflettono il carattere patriarcale e tradizionale della campagna calabrese. Dove la donna non ha un ruolo di potere, ed infatti non può affiliarsi formalmente alla ‘Ndrina: il rito di iniziazione formale, carico di simbolismi religiosi e mistici, è riservato soltanto ai figli maschi dei suoi soci, chiamati “primi fiori”. Solo loro hanno il privilegio, per così dire, di essere riconosciuti formalmente come membri dell’organizzazione. Quando un affiliato ha un figlio maschio, lo affida ai primi riti di pre-adesione già da neonato (il rito del coltello e della ferraglia, il taglio delle unghie dei piedi) mentre la figlia femmina viene trascurata.
La donna, così, finisce, in apparenza, per assumere quel ruolo domestico ed educativo che riveste nella stessa società contadina: è lei ad allevare i figli maschi dell’uomo d’onore, destinati ad affiliarsi. E’ soprattutto lei ad educarli alla religione dell’onore e della vendetta, che costituisce il DNA della cultura ‘ndranghetista. Le grandi faide sono istigate, e continuamente alimentate, dalle donne, che spingono i figli a “fare giustizia”. Intere generazioni di ‘ndranghetisti sono cresciute dalle madri nel mito del sangue e dell’onore. Renate Siebert parla di “pedagogia della vendetta”, per designare tale modello educativo, dove la stessa mascolinità viene inestricabilmente associata alla necessità di difendere il proprio onore maschile, colpendo chi lo ha disonorato (in base ai tradizionali codici comportamentali mafiosi). In questo senso, la madre assume il ruolo di “memoria della vendetta”, passando al figlio gli oneri di compimento della stessa quando il padre muore o è troppo anziano per potersene occupare. E così facendo, la donna diventa l’elemento di continuità storica del clan, e di istigazione all’azione per i suoi uomini, assumendo, sia pur nell’ombra, un ruolo direttivo.
E poi le donne svolgono ruoli attivi, spesso anche molto rilevanti e compromettenti dal punto di vista giudiziario, ma caratterizzati dal fatto di rimanere in una funzione secondaria, per così dire “servente”, rispetto all’attività svolta dai loro uomini: custodia delle armi, recapito delle ‘mbasciate fra i componenti reclusi e quelli in libertà, organizzazione delle collette per sostenere le famiglie degli affiliati reclusi, vigilanza esterna, acquisizione di informazioni, protezione dei latitanti (per i quali fanno da cuoche e donne di servizio).
Molto spesso le figlie servono come merce di scambio per organizzare matrimoni di convenienza: essendo la ‘Ndrine basate su legami familiari, le alleanze fra famiglie, necessarie per formare organizzazioni più grandi e potenti, come le Locali, si fanno combinando i matrimoni. La ragazza è costretta a sposare un uomo d’onore dell’altra ‘Ndrina, per rafforzare la coalizione criminale. I vincoli di omertà derivanti dal suo coinvolgimento “obtorto collo” nella “società”, ed i vincoli di fedeltà al marito, ne fanno, sotto il profilo emotivo e delle relazioni, una schiava perenne, cui viene lasciato però il rilevantissimo spazio di manovra dell’educazione dei figli e dell’istigazione all’azione dei mariti, sia pur agendo nell’ombra. Viceversa agli uomini è consentito di mantenere una amante, purché l’immagine pubblica del matrimonio venga preservata.
Le donne di ‘Ndrangheta sono quindi, in cambio di un ruolo di comando rilevante, condannate ad una vita di castità ed assoluta fedeltà al marito, perché debbono custodire il preziosissimo bene dell’onorabilità del loro uomo. Un uomo che non sa tenere sotto controllo la sua donna, e che viene da lei tradito, perde prestigio nell’organizzazione, e rischia anche la vita, poiché viene considerato pericolosamente debole. Tale vincolo di castità è così forte che deve durare anche nel caso in cui l’uomo venga incarcerato. Persino le vedove devono evitare di risposarsi (a meno che il capobastone non le autorizzi, spesso per motivi pratici di alleanza con altri gruppi) e condurre una vita ritirata e casta, per custodire il ricordo dell’onorabilità del defunto, spesso capostipite di una famiglia mafiosa.
Peraltro, sin dai primi anni di vita dell’organizzazione, esigenze molto pratiche portano a dover infrangere questa distribuzione così rigida dei ruoli, ed a cercare compromessi. I clan devastati da arresti e omicidi per vendetta devono coprire le posizioni di organigramma, e quindi si inventa un percorso contorto per consentire, in casi eccezionali di emergenza, l’affiliazione delle donne esterne al clan familiare (quelle che fanno parte della famiglia sono già considerate interne alla logica mafiosa) dimostratesi particolarmente abili ed affidabili, che nella rigida struttura delle Locali assumono la denominazione di “sorella d’omertà”. Ci sono casi documentati già dai primi del Novecento. Per salvare le apparenze di una società onorata composta da soli uomini, e quindi per salvaguardare la sostanziale ipocrisia patriarcale, esse si devono affiliare indossando, durante la cerimonia, vestiti da uomo. Rimangono inoltre legate a ruoli puramente subordinati, poiché la leadership è sempre in mano agli uomini, tanto che sino alla legge Rognoni-La Torre del 1982 esse non vengono mai, in pratica, considerate membri di organizzazioni ‘ndranghetiste, anche quando svolgono consapevolmente uno dei citati ruoli attivi, commettendo di fatto dei reati. Nei processi, anziché essere condannate per associazione a delinquere, vengono infatti generalmente accusate del più mite reato di favoreggiamento.
Seppur considerate dalla legge, per molti anni, come non affiliate, sono le donne le “catalizzatrici” dell’attività dei clan, secondo il giudice Gratteri. Sono loro che comandano veramente, sono loro che attivano le vendette e le faide, sono loro che crescono i figli che vanno a fare i  soldati del clan, sono loro che inducono i loro uomini a fare carriera dentro l’organizzazione. Maria Serraino, detta “mamma eroina”, non si accontenta nemmeno di questo ruolo di comando nell’ombra. E’ il primo caso di donna-boss conosciuto. Nasce in una famiglia mafiosa di Cardeto, vicino a Reggio Calabria, si sposa con Rosario Di giovane, un contrabbandiere di sigarette, e nel 1963 si trasferisce a Milano, istituendo ex novo un clan mafioso, dedicandosi allo spaccio della droga, grazie ai suoi 12 figli, tutti quanti cresciuti come soldati. E contrabbanda anche armi dirette verso la Calabria, nell’ambito della seconda guerra di ‘Ndrangheta, in cui i suoi parenti sono coinvolti. Ordina l’uccisione di un suo spacciatore che vuole mettersi in proprio. All'età di 12 anni, una delle sue figlie venne portata via da scuola per aiutare a spacchettare la cocaina nascosta nei pannelli delle auto importate, ed inserire l'eroina nelle bottiglie di shampoo.
Il salto quantico da questa condizione di “ombra” delle donne nella ‘Ndrangheta avviene negli anni Settanta. Non, come si crede, per permeabilità delle istanze del nascente movimento femminista, che nella Calabria di quegli anni, e soprattutto nelle ‘Ndrine, non penetrano. Ma per una strategia, che dimostra tutto il grado di flessibilità di questa organizzazione: le donne possono svolgere ruoli più importanti, proprio perché raramente finiscono imputate per il reato di associazione mafiosa. E quindi godono, rispetto agli uomini, di una sorta di “franchigia” giudiziaria. Che consente loro di poter svolgere con maggiore sicurezza attività particolarmente pericolose in termini di rischio di arresto, come il trasporto dello stupefacente (che possono nascondere più facilmente degli uomini nel loro apparato genitale, oppure simulando una gravidanza). Infatti, con la prima guerra di ‘Ndrangheta iniziata nel 1974, le leve emergenti (i De Stefano, i Mammoliti, gli Strangio) alleate con Mommo Piromalli eliminano la vecchia guardia, raccolta attorno a don Antonio Macrì o don Mico Tripodo, contraria all’estensione dell’attività al business della droga.
Ma non solo: negli anni, i boss hanno fatto studiare le figlie, che non sono più contadine semianalfabete, ma possono essere utilizzate, con le loro competenze, nel crescente riciclaggio nel settore finanziario, dove non sono richieste doti di violenza e coraggio fisico, e quindi dove le donne possono essere impiegate. Inizia allora la lunga marcia delle donne dentro i clan, non certo una vera emancipazione criminale, ma certamente una riconfigurazione profonda del loro ruolo. Che le evidenze investigative iniziano a manifestare, e che appaiono soprattutto nelle filiazioni dei clan nel Nord Italia, dove è più normale che le donne siano più indipendenti, nel lavoro legale come nel crimine.
Alcuni casi sono clamorosi, e sembrano testimoniare di una vera e propria ascesa anche nei vertici dei clan, fino a quel momento coperti solo da uomini. Un esempio è quello di Angelica Riggio, nata e vissuta a Monza al di fuori del contesto mafioso- si tratta di una giovane ragazza madre che diventa amante e poi convivente di Pio Domenico, uno sgarrista della Locale di Desio controllata dal clan Iamonte (proveniente da Melito di Porto Salvo), accedendo al clan nel ruolo di contabile; quando viene arrestato il 13 luglio 2010 nell’ambito dell’operazione Infinito, la Riggio avrebbe, secondo gli inquirenti, preso il suo posto nella gestione del racket: iniziando a farsi chiamare “Vanessa” sarebbe andata a riscuotere i soldi del racket dalle vittime, con una tenacia e un’aggressività dimostrata, a detta degli inquirenti, in più occasioni. Angelica non si tirerebbe indietro nemmeno quando c’è da alzare le mani, visto che gli inquirenti avrebbero accertato almeno un paio di occasioni in cui ha schiaffeggiato violentemente cattivi pagatori. Come quando in una trattoria di Mornico al Serio sarebbe stata lei, arrivata insieme al compagno, a schiaffeggiare il figlio della titolare, indietro con le cambiali. Arrestata nell’ottobre 2010, Angelica Riggio si trova così a rispondere dell’accusa di usura. Durante le perquisizioni la magistratura trova un numero elevato di titoli di credito, molti dei quali intestati alla Riggio, titolare anche di alcuni immobili di provenienza incerta. Nel dicembre 2012 viene condannata in primo grado a 6 anni e 6 mesi di carcere.
Luana Paparo (classe 1988) è un altro esempio. Figlia di Marcello Paparo, che la procura considera il capo della ‘ndrina di Isola di Capo Rizzuto Arena-Nicoscia, estesasi a Cologno Monzese. Il suo nome compare nell’inchiesta Isola, un’operazione che nel marzo 2009 manda in carcere più di venti elementi considerati organici alle ‘ndrine Arena e Nicoscia. I Paparo, secondo l’accusa, mirerebbero a insinuarsi nei grossi appalti di facchinaggio e trasporto in catene di supermercati con il Consorzio di cooperative Ytaka di Brugherio, e nei grossi subappalti di movimento terra nei cantieri del quadruplicamento della linea Milano-Venezia delle Ferrovie dello Stato con la P&P di Cernusco sul Naviglio. È la stessa Luana Paparo a gestire il consorzio Ytaka, ma i magistrati le imputano di essere la custode dell’arsenale del clan. Il processo di appello ha condannato Luana (4 anni e 8 mesi) e Marcello Paparo (12 anni e 7 mesi) e altri imputati legati alla famiglia per il reato associativo.
Terzo esempio: Maria Valle, cresciuta a Bareggio, è la figlia di Fortunato Valle. I Valle, capeggiati dal nonno don Ciccio Valle, sono un clan della ‘Ndrangheta insediatosi a Vigevano e originari del quartiere Archi di Reggio Calabria. Nel luglio 2006 sposa Francesco Lampada, suggellando l’unione di due importanti famiglie ‘ndranghetiste: un matrimonio celebrato in grande stile all’Hotel Villa D’Este sul lago di Como – lo stesso che ogni anno ospita il forum Ambrosetti – che testimonia come le ragazze di ‘Ndrangheta siano tutt’oggi merce di scambio nelle politiche matrimoniali dei clan. Secondo la procura, la donna contribuirebbe al rafforzamento economico delle attività criminose – soprattutto usura ed estorsione – rendendosi intestataria fittizia delle quote di una immobiliare riconducibile alla famiglia Valle, affinché gli altri componenti dell’associazione mafiosa possano eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale. Nel luglio 2012 è stata condannata in primo grado a 7 anni di carcere.
Significtiva la storia di Angela Bartucca. Moglie di Rocco Anello, capobastone dell’omonimo clan catanzarese, una storia come tante di donne di ‘Ndrangheta ritrovatesi spose di capi clan per matrimoni combinati. Che però rompe la tradizionale passività che le donne di ‘Ndrangheta devono subire. Ed anche questa è una rottura del codice comportamentale della “società”, del tutto impensabile, che dimostra la crescita dell’autonomia delle donne di ‘Ndrangheta: Angela ha delle storie con due picciotti del clan, mentre il marito è detenuto. Entrambi i picciotti scompaiono nel nulla. Si sospettano di omicidio due sicari del clan, che però vengono assolti. La tradizionale fedeltà della sposa di ‘Ndrangheta viene quindi meno, bruciata sull’altare dell’emancipazione sessuale, una cosa che nella vecchia ‘Ndrangheta era impensabile.
E ancora, Ilenia Bellocco, la moglie del boss Ciccio Pesce, detto “O Testuni”, che a 47 anni avrebbe, secondo gli inquirenti, ereditato la gestione del clan dopo l’arresto del marito. Anche lei figlia di un clan, suo padre, Umberto, detto “Assu i mazzi”, capobastone della piana di Gioia Tauro. Durante la latitanza del marito, avrebbe le redini del clan anche incassando i soldi delle estorsioni e dei traffici. Ha un carattere acido e spigoloso che spesso si esprime in un turpiloquio grondante bestemmie, tale da sbalordire persino gli investigatori abituati ai peggiori sicari. Il giorno delle nozze ai suoi mille ospiti ha offerto come bomboniera un cobra in lalique con occhi in pietre preziose. Ilenia, nessun reddito denunciato al Fisco, avrebbe un tenore di vita principesco.
Siamo ad un livello oramai molto più avanzato della teoria per la quale la donna di ‘Ndrangheta può assumere ruoli di comando solo in una funzione suppletiva e di sostituzione del marito assente per latitanza o carcerazione. Lo dimostra il caso di Angela Ferraro. 50 anni, è moglie del boss di Palmi Salvatore Pesce, detto " U babbu". A giudizio degli inquirenti e del giudice che l’ha condannata, Angela Ferraro avrebbe una posizione speciale, non da supplente.  Avrebbe lo stesso rango degli uomini, interloquendo "alla pari" con il fratello, occupandosi di racket a Milano e di traffico di droga fra il capoluogo lombardo e la Calabria. La donna deciderebbe le estorsioni senza chiedere le autorizzazioni ai maschi della 'ndrina ed entrando nelle discussioni del clan, anche quelle relative agli omicidi da commissionare.

Il quadro che emerge è quindi molto lontano dal tradizionale paternalismo giudiziario, che esime in parte le donne di ‘Ndrangheta dalla loro responsabilità criminale. Al contrario: vista da dentro, tale organizzazione appare già in origine comandata, con un ruolo solo formalmente secondario, dalle sue donne. Ed oggi sembra in grande cambiamento, tanto da vedere l’altra metà del cielo abbandonare anche le ipocrisie formali di un maschilismo solo apparente, e prendere con sempre maggiore decisione le redini delle ‘Ndrine, anche agli occhi degli osservatori esterni.