Interpretazione e limiti delle statistiche criminali
Si fa un gran parlare, a livello
giornalistico e politico, delle diverse propensioni di italiani ed immigrati a
compiere reati sessuali. Il tema è stato ulteriormente alimentato dall’uscita
recente di dati del Viminale e dell’Istat, secondo i quali nei primi sei mesi
del 2017 le violenze sessuali denunciate all’Autorità Giudiziaria o per le
quali è avvenuto un arresto sarebbero 2.438. Di queste, 1.534 denunciati sarebbero italiani e 904 sarebbero
gli stranieri. Divisione rimasta anche questa pressoché invariata rispetto
all'anno precedente, quando gli stranieri furono 909 e i nostri concittadini
1.474. Evidentemente, tali dati, se rapportati alla consistenza delle due
popolazioni, quella italiana (60 milioni) e quella straniera (6 milioni,
compresa una stima degli irregolari) disegnano una preoccupante incidenza di tale
reato specificamente per gli immigrati: 1,5 per 10.000 abitanti, a fronte di
0,3 per 10.000 abitanti per il segmento italiano.
La questione però è molto più
complessa, ed i dati ci aiutano solo fino ad un certo punto. Il fenomeno delle violenze
sessuali è infatti in larghissima misura sommerso: si stima che solo il 7%
degli eventi venga denunciato, rimanendo segreto soprattutto nell’ambito delle
violenze subite in famiglia, che possono evidentemente riguardare famiglie
italiane come anche straniere. Inoltre, evidentemente, i dati statistici sulle
denunce (cui può seguire un arresto per fermo di P.G. convertito dal GIP in
custodia cautelare in attesa del processo) non misurano l’effettiva
colpevolezza, perché la denuncia può
essere archiviata o finire in una assoluzione.
Inoltre, la criminologia, specie
statunitense, ha frequentemente indicato come gli immigrati siano discriminati
nella fase della selezione nei controlli e nelle indagini sommarie da parte
degli organi di polizia. Evidentemente, se un determinato sottogruppo viene
monitorato con maggiore attenzione da parte delle forze di polizia, è più
probabile che finisca per generare una maggiore incidenza di reato, di
qualsiasi reato, ivi compresi quelli sessuali. Con particolare riferimento all’immigrazione
latinoamericana negli USA, Warnshuis (1931) notò che un numero sproporzionato
di immigrati latinoamericani venivano arrestati per “condotta non disciplinata”,
un reato molto vago, usato solo per “tenerli sotto controllo”. Samora (1971)
evidenziò come le Border Partol modificassero nel tempo la severità nei
confronti dei chicanos immigrati, in funzione del ciclo politico-elettorale o
della situazione economica dello Stato in cui operavano. Secondo una ricerca
della Pew Hispanic Center (2004) si evidenzia una crescita dei controlli di
polizia specificamente destinati alle aree a maggior concentrazione di
immigrati latinos. In Italia, le ricerche sul tema sono scarse. Però Barbagli
(2002) sottolinea che “da più parti è stata avanzata l’ipotesi che le forze
dell’ordine e la magistratura operino selettivamente nei confronti degli
immigrati o per dare una risposta alla domanda di sicurezza proveniente
dall’opinione pubblica o perché in queste due istituzioni sarebbero diffusi
forti pregiudizi contro le minoranze etniche”. Pochi dati empirici: Verde e
Bagnara (1989), focalizzandosi sulla criminalità minorile, segnalano che le
sentenze emesse contro minori stranieri tendano ad essere più penalizzanti
rispetto a quelle emesse, per gli stessi reati, nei confronti degli italiani. Palidda
(1991) scopre che vi è una maggiore propensione, da parte della polizia, a
fermare stranieri per controlli quando sono a piedi (e quindi non per motivi
legati al traffico o al codice della strada). Inoltre, poiché nel dato del
Viminale succitato si ricomprendono anche gli arrestati, lo stesso Barbagli fa
notare come nei confronti degli stranieri, anche per motivi legati all’incertezza
della loro residenza, si tenda maggiormente ad applicare la custodia cautelare
in carcere.
Tali limiti nei dati sembrano
particolarmente importanti nel caso dello stupro: le donne italiane vittime di
questo reato, quando è stato compiuto da uno straniero, hanno proceduto alla
denuncia nel 24,7% dei casi (e negli altri casi hanno ammesso di non aver
sporto denuncia). Quando hanno subito lo stesso reato da parte di un italiano,
hanno denunciato soltanto nel 4,4% dei casi (Istat, 2014). Lo stesso vale per
il tentato stupro: gli autori italiani sono stati denunciati nel 2,2% dei casi,
mentre gli stranieri nel 17,8%. La sproporzione è enorme, e si spiega in parte
con il fatto che lo stupro il cui autore sia un italiano viene tipicamente
consumato in famiglia o sul luogo di lavoro, per cui la donna ha paura di
denunciare un parente prossimo/datore di lavoro o collega. Viceversa, lo
stupratore straniero tende più frequentemente ad essere un estraneo, per il
quale la tendenza a denunciare è meno vincolata alla paura. Evidentemente, a
maggior propensione di denuncia a carico dello straniero, corrisponde una
maggiore incidenza del reato a livello di statistiche penali. Ma ciò non
implica necessariamente che lo straniero abbia maggiore propensione a
delinquere. Semplicemente, che corre più rischi di denuncia rispetto all’italiano,
per il medesimo reato.
Gli schemi concettuali della criminologia
Insomma, affidarsi ai dati statistici per
evincere una presunta maggiore tendenza delinquenziale degli immigrati rispetto
agli autoctoni può essere, almeno parzialmente, fuorviante. Per spiegare la
maggiore incidenza della criminalità sessuale fra gli stranieri è stato usato
il concetto di “reato culturalmente motivato” (Basile, 2010; Bernardi, 2010; de
Maglie, 2010). Secondo tale concetto, lo straniero sarebbe “motivato” a
commettere un reato nel Paese di accoglienza, perché nella sua cultura di
provenienza esso configura un comportamento non grave, tollerato, se non
addirittura incentivato. Tale concetto è, però, piuttosto scivoloso ed ambiguo,
e non è chiaro come dovrebbe essere integrato dentro il sistema penale
italiano. Da un lato, infatti, se si scende sul crinale della giustificabilità
culturale di un reato, perché mai fermarsi ad una giustificazione puramente
etnico-nazionale? Qualsiasi sottogruppo (ivi compresi quelli criminali, ivi
comprese le ‘Ndrine calabresi) è infatti portatore di una sua sottocultura, che
giustifica anche atti che, per la maggioranza degli abitanti, sono
inaccettabili. D’altro lato, è ipotizzabile inserire dentro il sistema penale
una attenuante specifica per “culturalità”? Intanto per quali reati? La de
Maglie ipotizza che la culturalità possa essere considerata attenuante soltanto
fino a quando non vada a ledere le “immunità fondamentali” (il diritto alla
vita, all’integrità fisica e psicologica, alla proprietà, ecc.). Ma anche le
immunità fondamentali sono, per certi versi, legate ad un certo assetto
culturale. Sembra quindi molto difficile rinnegare la necessità di mantenere
una logica assimilazionistica nel diritto penale del Paese di accoglienza, per
cui è l’immigrato, opportunamente aiutato da mediazioni culturali efficaci, a
doversi adattare al diritto penale vigente, senza pretendere improbabili attenuanti
culturali rispetto ai reati eventualmente commessi. L’assimilazionismo
dovrebbe, a mio parere, riguardare l’intera
materia penale, dalle questioni più gravi ed inaccettabili (si pensi all’infibulazione)
fino a quelle solo apparentemente
secondarie, ma che in realtà colpiscono alcuni fondamenti del nostro vivere civile, come il
diritto ad usare il proprio corpo (si pensi all’obbligo imposto, quindi non
alla libera volontà, dell’uso del burkha).
Infine, al netto delle questioni
del rapporto fra cultura e codice penale, l’ipotesi di sostituzione, ovvero l’ipotesi
che, con un flusso migratorio, gli immigrati si sostituiscano agli autoctoni
nella commissione di un reato è, in questo caso specifico, da escludere: la
violenza su donne più grave, ovvero l’omicidio volontario, viene perpetrata,
nel 73% dei casi, dal partner o altro parente, quindi nell’ambito della
famiglia. E le famiglie miste fra italiani e stranieri sono ancora un fenomeno
troppo poco diffuso per ipotizzare una sostituzione in tale tipologia di reato,
squisitamente familiare.
E’ quindi ragionevole ipotizzare
che la più alta frequenza di violenza sessuale a carico di immigrati sia
spiegabile, oltre che con fenomeni di maggiore propensione alla
denuncia/maggiore severità e monitoraggio da parte degli apparati di sicurezza
e giudiziari, che gonfiano i dati statistici, anche con specifici strumenti concettuali
elaborati dalla sociologia applicata in ambito criminale. In particolare, mi
riferisco alle teorie del conflitto culturale elaborate sin dalla scuola di
Chicago degli anni Venti. Tale ventaglio di teorie spiega la maggior devianza
in termini di disagio sociale ed economico di sottogruppi, fra i quali gli
immigrati, in vari modi. Ad esempio, Merton sottolinea lo iato (da lui chiamato
“anomia”) esistente fra una cultura che spinge al successo individuale e l’assenza,
per determinati gruppi svantaggiati, dei mezzi per poter raggiungere quell’ideale,
con il risultato che le regole formali che la società elabora come vie
legittime per il successo perdono credibilità, incentivando comportamenti
devianti. Cohen, nella sua teoria delle sottoculture (inizialmente elaborata
per lo studio delle gang giovanili, ma adattabile a qualsiasi sottogruppo
minoritario, ivi compresi gli immigrati, spiega la nascita di una sottocultura
deviante come risposta all’incapacità/impossibilità di adattarsi alle norme
sociali dominanti, fornendo ai membri di quella sottocultura tutti i vantaggi,
in termini di integrazione, riconoscimento, autostima e protezione, che la
mancata integrazione con la cultura dominante non riesce a fornire loro.
Nell’accezione di Sellin, la più
interessante per lo studio della criminalità degli immigrati, tale filone teorico si traduce nell’idea che fra
autoctoni e immigrati si viene a creare un conflitto culturale nel momento in
cui tali gruppi vivono in aree contigue o omogenee (fenomeno della frontiera),
la cultura dominante della maggioranza viene imposta alla minoranza e gli immigrati
conservano le norme culturali e comportamentali del Paese di origine, senza
essere disponibili a modificarle, se non superficialmente. In questa
situazione, si genera inevitabilmente un conflitto culturale che può, in un
certo senso, “ideologizzare” fenomeni di criminalità comune, quali forme di
ribellione alla società ospitante, le cui norme non sono accettate e sono
vissute come imposizioni. Il contributo di Sellin è prezioso per capire
fenomeni cui assistiamo recentemente, quali la radicalizzazione islamica di
giovani immigrati di seconda o terza generazione che, pur essendo oramai
cittadini del Paese in cui vivono, si fanno reclutare dall’Isis. Secondo Sellin,
gli immigrati di seconda o successiva generazione vivono un conflitto culturale
specifico: essi hanno oramai perso l’attaccamento ai valori culturali
tradizionali del Paese di origine dei genitori o dei nonni, ma non riescono ad
integrarsi nel sistema valoriale del Paese in cui oramai vivono. Ne consegue
che si ritrovano in una “terra di mezzo”, nella quale, per ricostituire una vecchia
identità oramai perduta, a fronte di una nuova mai acquisita, possono avere
tendenza a scimmiottare, estremizzandola e/o idealizzare una identità
tradizionale che non hanno mai conosciuto direttamente. Tale conflitto culturale
primario, endogeno alla psiche dell’individuo, può essere esacerbato da un
conflitto secondario, nella misura in cui egli viene emarginato sotto il
profilo sociale, lavorativo, abitativo (si pensi alla ghettizzazione urbana del
modello delle banlieues) ed economico, accentuando in lui il senso di
estraniazione e di risentimento per la cultura dominante.
In tutte queste forme di
conflitto culturale, che conducono ad anomie, sottoculture, conflitti primari e
secondari, la violenza sessuale contro “la donna bianca” può diventare una
forma di manifestazione di rifiuto e disprezzo per la cultura dominante e/o di
acquisizione di un obiettivo della cultura dominante (stare con una donna
bella, non essere soli e “sfigati”) tramite mezzi illeciti (l’anomia
mertoniana, appunto). Mentre la violenza sessuale consumata contro le donne
della propria comunità etnica una forma, spesso portata all’aberrazione, di
difesa dei valori tradizionali ed arcaici della propria società di origine. Il tutto
viene aggravato in condizioni di emarginazione socio-economica e di povertà,
che fungono da fattori di inasprimento e detonazione dei conflitti culturali
strutturalmente presenti, anche solo allo stato latente, fra diversi gruppi
sociali o etnici.
Conclusioni
In conclusione, non è chiara, e
non è suffragata dai dati statistici utilizzati per finalità giornalistiche, una
presunta “propensione allo stupro” da parte degli immigrati. I modelli
simil-lombrosiani che pretenderebbero di predire una sorta di “fattore genetico”
innato in determinate popolazioni sono fortunatamente stati sconfitti dall’avanzamento
della scienza. Anche chi cita, senza capire bene ciò che dice, una specie di
tendenza alla violenza sessuale per sottomissione della donna da parte degli
immigrati di fede musulmana, non conosce le leggi severissime che la Sharia
prevede per chi, nei Paesi islamici, si azzarda a toccare la donna di un altro.
Indubbiamente, i dati statistici forniscono un quadro di maggiore frequenza
relativa dei reati di violenza sessuale fra gli immigrati, tuttavia tali
differenze potrebbero scaturire da un maggiore selettività in fase di
controllo, arresto e processo, da parte degli organi di pubblica sicurezza e
della magistratura, a carico degli immigrati. Inoltre, la violenza sessuale
sulla donna autoctona può scattare per fattori sottoculturali e di anomia nel
tentativo di raggiungere, con mezzi illeciti, obiettivi proposti dalla cultura
dominante di accoglienza. Quella sulla donna della propria comunità etnica può
invece derivare da una sorta di compensazione allo sradicamento culturale, che
conduce ad una estremizzazione, anche violenta, di usi e costumi tradizionali
nelle famiglie della propria cultura di origine. Il tutto, ovviamente, senza
escludere fattori psicotici personali di deviazione sessuale, che esistono
tanto fra gli immigrati quanto fra gli autoctoni.
Questi elementi di conflitto
culturale, che in alcune situazioni possono degenerare in reati comuni e
violenti, sono tipici di qualsiasi minoranza che ha i mezzi per elaborare una
sottocultura, o per preservare una cultura autonoma rispetto a quella
dominante. Le degenerazioni criminali di tali conflitti possono scattare per
gli immigrati come per le gang giovanili, per gruppi politici minoritari e
radicali, per sette religiose, ecc. I fattori scatenanti sembrano essere la
prossimità/contiguità di vita con i gruppi a cultura dominante, l’emarginazione
socio-economica/la segregazione, l’impossibilità di accedere agli obiettivi
proposti dalla cultura dominante con le vie che legittimamente essa offre, l’integrazione
con la cultura dominante assume la veste della colonizzazione.
Evidentemente, però, gli studi di
Sellin sugli immigrati di seconda e terza generazione dimostrano che esiste un
vero e proprio limite all’integrazione, dal momento che l’indebolimento del
legame con la cultura di origine non crea una integrazione con la nuova
cultura, o una ibridazione delle due, ma una terra di mezzo indefinita e
personalmente e collettivamente pericolosa ed esplosiva. Da questo punto di
vista, e quali che siano i moventi di un tasso di criminalità degli immigrati
superiore a quello degli autoctoni, e anche se non vi sia una reale differenza
fra i due gruppi, una selettività ed un filtro rispetto ad una immigrazione di
massa diventano elementi fondamentali per preservare un livello di sicurezza
basilare per una convivenza normale e nell'interesse degli stessi immigrati già presenti da noi.