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mercoledì 29 agosto 2018

Risposta a Veltroni



Su Repubblica di oggi, un Veltroni uguale a sé stesso ripropone la minestrina preconfezionata dei populismi pericolosi per la democrazia, per la pax funebris imposta dall’euro sui cadaveri delle economie mediterranee sconfitte, per la libertà e la solidarietà verso i fratelli giunti da noi dall’altra parte del mar. Una minestrina che sembra essere l’unico argomento cui si aggrappano gli sconfitti della storia.
A Veltroni, a differenza di altri piddini, va riconosciuta lealtà per le sue idee e coerenza, ma quello che non capisce, ma io credo addirittura in buona fede, il che è ancora peggio, è che i pericoli da lui evocati nell’intervista a Repubblica, dalla crisi della democrazia rappresentativa ai possibili focolai di una guerra prima commerciale e poi militare, ammesso e non concesso che abbiano un fondamento e non siano degli spauracchi legati ad una visione meccanicistica della storia, come in larga misura io credo che siano, non sono il frutto avvelenato dei populismi, sono il portato delle pratiche politiche di una sinistra degenerata, che nel caso italiano ha raggiunto l’apice del suo degrado ideale e culturale con il Lingotto.
La crisi della democrazia non affonda le sue radici in Salvini o nelle pratiche di gestione del consenso dei pentastellati, ma nel primato del maggioritarismo, associato alla liquefazione del concetto di rappresentanza intermedia insito nella visione del partito liquido di Veltroni e nei progetti di riforma della Costituzione portati avanti testardamente dal PD in tutti questi anni. Maggioritarismo e liquefazione della rappresentanza intermedia in nome di una partecipazione non mediata portano dritti a soluzioni padronali come unica via per fare sintesi. Se il partito-massa novecentesco non è più replicabile, l’utopia libertaria del movimento liquido ed aperto ad una società civile teorizzata ma inesistente non porta a niente.
I rischi per la pace dipendono da un credito eccessivo assegnato alle presunte virtù della globalizzazione dei mercati, di cui l’europeismo acritico, ammantato di assurde utopie sulla politicizzazione di un processo essenzialmente mercantilistico, è una specificazione. Tale processo crea darwinismo fra nazioni, e il darwinismo produce tensioni, che sfociano in guerre economiche e poi militari.
La xenofobia non deriva dalle urla di Salvini o di Orban, ma da una immigrazione senza freni, accompagnata da modelli di integrazione sbagliati, basati sul multiculturalismo indifferenziato e paritario, promossi dal veltronismo e dalla sua versione femminile, il boldrinismo. A peggiorare la situazione interviene il moralismo da sermone domenicale, che Veltroni ed i suoi ammanniscono a larghe dosi, che tenta di promuovere l’immigrazione tramite una colpevolizzazione degli italiani, dipinti come razzisti genetici ed inconsci e tramite un solidarismo a senso unico, molto generoso con il nigeriano e completamente assente nei confronti dell’italiano povero.
Maggioritarismo plebiscitario da primarie a due euro il chilo, globalismo ed eurismo acritici e compradori, multiculturalismo da patchwork comprato nel mercatino delle pulci, interclassismo ecumenico che mette insieme l’individualismo metodologico dell’homo economicus con quello libertario dei diritti civili dentro una ideologia basata sulla responsabilizzazione individuale dell’uomo lasciato solo senza protezioni in una società mercatistica, selettiva e malvagia (che significa la liturgia della meritocrazia, se non chi è senza meriti, o con meriti minori, deve morire?) tutti questi ingredienti del blair/veltrinismo non hanno fatto altro che produrre minore accesso alle capacitazioni democratiche formali e sostanziali, producendo un popolo subalterno, impoverito e sradicato dalla sua identità.
I populismi, quindi, non sono affatto un prodotto della rabbia e dell’esacerbazione, ma primariamente della ricerca di una risposta ai problemi che la sinistra, nelle tre versioni temibili del blair/veltronismo, del radicalismo di maniera e del libertarismo movimentista, ha alimentato e/o non ha saputo risolvere. La rabbia e l’esasperazione sono soltanto la manifestazione sovrastrutturale ed emotiva di questa ricerca di soluzioni. Veltroni dovrebbe sapere (ma a Frattocchie c’è stato? I fondamenti del mestiere glieli hanno trasmessi?) che la storia non è mossa dalle passioni e dalle pulsioni, ma dal substrato di interessi materiali che compone la base del conflitto sociale. Pulsioni e passioni sono solo una conseguenza, non una forza propulsiva.
E’ al cuore del modello di società proposto dal riformismo degenerante della sinistra post-muro, e allo stupido e folkloristico contorno di carabattole che la sinistra pseudo-radicale vi ha aggiunto, senza cambiare niente alla portata principale, che occorre risalire per capire perché i populismi sono un tentativo di soluzione ai problemi, non la fonte di quei problemi e pericoli che Veltroni evoca.
E Veltroni può anche non rassegnarsi, ma la ruota della storia gira indipendentemente da lui, e la ruota gira in una direzione ben chiara: sta distruggendo ciò che resta delle velleità politiche della sinistra. La sinistra è già morta, solo che nessuno glielo ha detto, e non lo sa. Morta perché non è culturalmente, organizzativamente, umanamente ed emotivamente in grado di dare risposte alle istanze di eguaglianza formale e sostanziale, di giustizia e di solidarietà che continuano a vivere dentro la società. In Italia la mortalità è accelerata dalla particolare stupidità messa in mostra dalla sua dirigenza e dal misto di dogmatismo e tifoseria da stadio della sua militanza, ma la patologia non tarderà ad allargarsi al resto del mondo occidentale, e non saranno gli sforzi di Sisifo di pochi eroi, si chiamino Corbyn, Sanders o Mélenchon, a salvarla.
Ma ciò avviene per un motivo banale: il conflitto sociale principale si è spostato dall’asse fra lavoro e capitale a quello interno al capitale stesso, fra piccola borghesia nazionale e grande borghesia apolide e finanziarizzata. Questo è il senso del lunghissimo ventennio di pensiero unico, culminato nella finalizzazione fisiologica della crisi e della sua risposta neoliberista: la sconfitta definitiva del lavoro, privato di una sua identità, di una sua rappresentanza e persino di un suo immaginario, visto che la frontiera ideologica proposta dal sistema è quella di trasformare il lavoratore in una sorta di imprenditore di sé stesso. Solo quando il lavoro, oggi frammentato in tante forme e modalità diverse dopo la crisi del fordismo, riuscirà a ritrovare forme di unitarietà, l’asse del conflitto sociale potrà favorire una nuova sinistra di massa. Ma al momento non è dato capire quando e come ciò avverrà, e quindi è legittimo prevedere tempi molto lunghi. Troppo lunghi per valere la pena di spendersi.
Oggi, necessariamente, la risposta ai problemi creati da Veltroni e dai suoi compari deve rinvenirsi dentro il conflitto sociale rappresentato, nello scenario politico, dalla battaglia fra una destra economica, globalistica e liberale ed una destra popolare, nazionale e corporativa. E’ dentro questo asse che bisogna schierarsi, a favore dei populismi, cercando di portarvi le istanze degli ultimi, lavorando sugli spazi e le contraddizioni interne al loro blocco sociale, per tentare di spostare il più a sinistra possibile il punto di equilibrio, in un esercizio dialettico e non conflittuale.
Chi ne vuole restare fuori in nome di una terza posizione è una testimonianza di un mondo che non esiste più, e che non tornerà. Ha il diritto all’onore delle armi ed al riconoscimento del coraggio del combattente isolato. Ma morirà.

giovedì 23 agosto 2018

Riflessioni sparse di fine estate




A quanto pare la nazionalizzazione delle autostrade non si farà, e personalmente me ne dolgo, perché era una occasione veramente importante. Troppo costoso acquisire le aziende concessionarie, troppo dura l'opposizione ideologica al ruolo del pubblico nell'economia da parte del corpo più interno alla Lega. Ciò non toglie che la revoca della concessione per chi ha fatto crollare un ponte ci debba essere, e che si attivi un dibattito sulla frontiera fra pubblico e privato, che negli ultimi venticinque anni, complice una sinistra degenerata, non c'è stato.

Contrariamente a quanto si possa pensare, le aperture a tale dibattito ci sono: Giorgetti, il più ostile alla nazionalizzazione dei concessionari, in una intervista dell'altro ieri ha aperto ad una revisione del modello gestionale delle attività con concessione scaduta, come le centrali idroelettriche delle Alpi. Questo significa che gli spazi per discutere ci sono. E nel contratto di governo si prevede una banca pubblica di investimenti, che possa anche acquisire partecipazioni nell'ambito di iniziative di interesse pubblico e strategico, così come di rilancio di Alitalia in una logica di interesse nazionale.
Gl ispazi teorici ci sono, però è chiaro che tale dibattito è molto difficile, e non può portare a nessun tipo di avanzamento, se rimane confinato dentro un settarismo di sinistra che fa della nazionalizzazione hic et nunc una bandiera o una forma di "in o out" rispetto al dialogo, o che si blocca ideologicamente di fronte alla ipotesi di flat tax (che poi si concretizzerà in una riduzione degli scaglioni, posto che una flat tax alla russa è proibita dalla Costituzione) senza dare fede a Tria, quando dice che sarà introdotta con una logica paretiana in cui nessuno ci dovrà rimettere, e senza aver fatto simulazioni sul sistema complessivo, comprensivo della no tax area e del sistema di tax expenditures che emergerà, tenuto conto delle nuove agevolazioni (come il reddito di cittadinanza) per la quota più debole della platea contributiva.

Solo una forza socialista che voglia dialogare con i populisti, non cercare furbescamente (e - aggiungo - inutilmente) di fregargli i voti facendo i maestrini, può alimentare tale dibattito e sperare di cavarne fuori atti concreti. Gli atti concreti non si ottengono né rimanendo nella splendida solitudine del 2%, dove non si incide, né cercando convergenze con la forza più liberista di tutte, ovvero il PD.

Quindi sarebbe meglio evitare di parlare di Bombacci (mostrando peraltro di non conoscere né Bombacci né il fascismo né il populismo, visto che si mettono insieme in uno slogan cose che non hanno nessun rapporto l’una con l’altra) e sporcarsi le mani, con l'unica possibilità alternativa all'inutile autonomia del 2% o al dannoso rapporto con illusori centrisinistra: il dialogo con i populisti, per lavorare su uno spostamento più a sinistra dell'asse di un governo, nell'unico posto dove tale spostamento è, sia pur minimamente, possibile, perché il governo attuale è sostenuto dai ceti sociali di riferimento tradizionale della sinistra.

Francamente sento discorsi assurdi su Terze Posizioni, basati su riproposizioni meccanicistiche di ciò che sta accadendo in Francia con Mélenchon, in Gran Bretagna con Corbyn oppure negli USA con Sanders. Peccato, però, che ogni Paese ha le sue specificità, per le quali non è possibile pensare di fare trasposizioni automatiche di esperienze diverse. In particolare, l’assenza di credibilità e di leadership di cui soffre la sinistra italiana non ha eguali né in Francia (dove un’area di conflitto sociale di sinistra è sempre esistita ed è stata sempre forte) né in Gran Bretagna (dove, nonostante le degenerazioni blairiane, esiste ancora un partito che si definisce “socialista” nel suo Statuto ed ha un rapporto stretto ed operativo con dei sindacati ancora combattivi) né negli USA, dove il sanderismo gode della credibilità personale di un leader storico, delle contraddizioni sociali aberranti di tale Paese, che diventano insopportabili non appena il meccanismo della crescita tende anche solo a rallentare, svuotando di senso l’illusione di American Dream che tiene insieme la società, e della possibilità che i meccanismi specifici della competizione elettorale statunitense fornisce ad una corrente interna di uno dei due grandi partiti di darsi visibilità internazionale durante le primarie (per inciso, sarebbe interessante analizzare il populismo statunitense degli anni Trenta, come culla della virata socialdemocratica dei Democratici con Roosevelt). 
La verità della sinistra italiana ci dice che c’è stata una dilapidazione di credibilità e prestigio che ha comportato lo svuotamento completo del serbatoio elettorale cui la sinistra poteva aspirare, fuggito dentro la pancia dei populismi (a differenza della Francia, dove ad esempio il risultato di France Insoumise ha impedito la vittoria del FN alle presidenziali).

Non c’è Terza Posizione perché non c’è elettorato che la sostenga. Come si pensa di convincere un elettore di sinistra fuggito nel M5S o nella Lega a tornare indietro, dopo la profonda e pluriennale esperienza di tradimento e delusione patita? Forse sperando segretamente che il Governo gialloverde fallisca, per riaprire le porte inevitabilmente all’ennesimo governicchio tecnico neoliberista al soldo della Troika, sperando poi di essere più efficaci nel raccogliere la rabbia sociale? Mi dispiace, non ci sto. Per il Paese voglio il meglio, non il ritorno dei Governi dei professori soltanto per fare guadagnare qualche decimale ad una sinistra che, nel caso di specie, si dimostrerebbe antipatriottica. Comunque, l’operazione di sabotaggio non renderebbe niente, dal punto di vista del consenso. Gli elettori capirebbero molto chiaramente che chi ha collaborato, su vari piani, a far cadere il governo populista, sarebbe corresponsabile dei danni che ne deriverebbero successivamente. Ancora: come convincere i ceti emergenti del precariato cognitivo e della new economy, confluiti nel M5S, a guardare altrove, quando non è stato fatto alcun discorso sociologico serio, continuando a rappresentare società e mercato del lavoro in modo distorto ed obsoleto?

Il dibattito sulla questione dei 177 migranti di nave Diciotti è emblematico di questa confusione strategica. La punta culturalmente più progredita ed intelligente della sinistra propone di far sbarcare i migranti, e poi rivalersi sui contributi che l’Italia versa alla Ue in quanto contribuente netto, al fine di fare pressioni sulla redistribuzione per Stato membro dei migranti stessi. Questa strategia ha un obiettivo evidente: mostrare all’elettorato dei populisti di essere a favore di una riduzione della pressione migratoria sulla nostra società, al contempo proponendo una soluzione meno brutale, più sofisticata e più equa di quella proposta da Salvini. Tuttavia, tale idea non funziona operativamente: dal profondo dell’Africa, la gente continuerà ad immigrare fintanto che l’Europa la farà entrare: per loro, essere redistribuiti dall’Italia all’Ungheria, una volta entrati, non ha nessuna rilevanza. Per chi attraversa il Sahara a piedi, che la sua emigrazione comporti rappresaglie finanziarie fra Italia e Bruxelles è il minore dei pensieri, sicuramente non lo sa, e non gli importa. Qui il problema vero non è redistribuire un flusso virtualmente infinito fra i vari Paesi europei, ma di non far entrare più nessuno, con politiche restrittive analoghe a quelle dell’Australia, che ha praticamente azzerato un grosso flusso migratorio. Chi ha studiato Marx e la sua illustrazione degli effetti dell’immigrazione su esercito industriale di riserva e salari lo dovrebbe capire. Ma la stessa esplosione sociale svedese, in un Paese benestante, con un welfare ancora solido ed in crescita, mostra che l’immigrazione, oltre certe soglie, genera effetti sovrastrutturali di rigetto: si teme la perdita di identità culturale e nazionale anche quando il proprio modello economico consentirebbe di reggere un flusso migratorio imponente senza grosse ripercussioni su salari, protezione sociale e tenore di vita. Per questo stesso motivo, l’idea non funziona nemmeno elettoralmente, oltre che operativamente: un Paese che ha raggiunto il limite in termini di capacità di accoglienza (capacità culturale ed identitaria, prima che logistica o economica) non vuol sentire parlare di “riduzione del danno” tramite redistribuzioni. Vuol sentire chi, come Salvini, promette il “no way” australiano.

E stiamo parlando della parte più evoluta della sinistra attuale: figuriamoci gli altri, quelli che stanno in porto con l’arancina in mano, quei poveri coglioni che scambiano l’impegno etico con quello politico, come se fossero due cose simili, e non profondamente diverse.

Solo una sinistra che sta dentro i processi sociali, anche quelli che puzzano di merda, può capire come muoversi. I tatticismi furbeschi, le illusioni di autonomia senza popolo, stanno a zero. Salvini e Di Maio hanno capito molto di più di tutti noi messi insieme, al di là dei modi, più o meno ruvidi e più o meno bruschi o sboroni. Il tema non è sfidarli, il tema è confrontarsi con loro (che presuppone rispetto e buona educazione reciproca) per inserirsi dentro un fenomeno ancora magmatico, che potrà essere egemonizzato da posizioni di destra o di sinistra, a seconda dei rapporti di forza. Lasciare derivare a destra il populismo o, peggio ancora, contribuire alla sua disfatta, nella speranza di rendite di posizione, sarebbe storicamente imperdonabile.

E questa è la posizione di chi non ha assolutamente niente da rinnegare della sua storia. Sono stato convintamente socialista e lo sono ancora e lo sarò per sempre, ho supportato posizioni e dirigenze insostenibili, come l’ultima esperienza di LeU-Si, sperando che la sopravvivenza di quell’area potesse germinare qualche seme di resipiscenza, e sono stato anche ostile ai populismi attuali, fintanto che vi era la residua speranza di poterli superare da posizioni più avanzate. Ma questa speranza si è chiusa definitivamente, non certo per colpa mia, e non soltanto per colpa di ceti dirigenti obiettivamente infami, ma perché la militanza storica della sinistra non è culturalmente in grado di avanzare di un millimetro rispetto agli stereotipi. Ma non sono più disponibile ad ulteriori follie. Non ho la vocazione di Sisifo, ed a differenza di Camus non immagino Sisifo felice.  


lunedì 20 agosto 2018

Le responsabilità di Tsipras




Oggi, 20 agosto 2018, il piano di “assistenza” dell’ESM è per così dire concluso, la Grecia, formalmente, è fuori dal terzo ed ultimo piano di “salvataggio”, e da oggi può tornare a finanziare il suo debito sul mercato, essendo formalmente tornata in possesso della sua sovranità fiscale.
Solo formalmente, però. Per poter ritardare di dieci anni il rimborso di 110 miliardi di euro di prestiti ricevuti dall’Efsf (predecessore dell'ESM), la Grecia dovrà assicurare un avanzo primario del 3,5% fino al 2022 e del 2,2% fino al 2060. Di fatto, per i prossimi 42 anni, l’economia greca dovrà continuare ad essere sottoposta a pesanti misure di austerità, senza la possibilità di interventi statali per alleviare la sua situazione sociale disastrosa (20% di disoccupazione, il 35% di popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale, madri che devono affidare i figli alle case famiglia perché non li possono nutrire, anziani che cercano nell’immondizia, gente che muore di malattie evitabili perché non può permettersi le cure, 133.000 greci che nel solo 2017 hanno dovuto rinunciare ad una eredità perché non potevano pagare le tasse). Senza contare il fatto che il Paese dovrà garantire rimborsi annuali del debito dal 2033 al 2060 pari a circa il 60% delle entrate fiscali dello Stato.
Senza contare che, colmo dell’egoismo, i pescecani della Trojka escluderanno il Paese dal programma di liquidità di emergenza, nonostante un settore bancario ancora afflitto da un tasso di sofferenze sui prestiti del 46,5%. D’ora in poi, le banche greche, per approvvigionarsi di liquidità presso la Bce, dovranno pagare ai tassi ufficiali.
Un avanzo primario di queste dimensioni richiederebbe tassi di crescita annui del 4-5% per essere sostenibile senza ulteriori misure di austerità, mentre il percorso di crescita dell’economia greca, nel medio periodo, sembra assestato attorno ad un ben più modesto 1,5-2%. La deriva sociale e di impoverimento proseguirà quindi negli anni a venire, in un Paese che dal 2010 ha perso il 35% di popolazione attiva, fra emigrazione e caduta nelle non forze di lavoro, e che entro il 2050 avrà più del 33% di popolazione ultrasessantacinquenne, a causa di un tasso di natalità, depresso dalla crisi, fra i più bassi d’Europa. La Grecia si avvia a diventare una sorta di pensionato povero per anziani nel prossimo trentennio. Le leve principali dell’economia greca sono oramai in mani straniere: il porto del Pireo, la rete aeroportuale, ed altri asset di valore, ivi compresi monumenti e spiagge, sono stati privatizzati e venduti a stranieri.
I risultati di questa “cura” sono disastrosi anche sotto il profilo macroeconomico: il Paese ha perso il 25% del suo PIL fra 2008 e 2017, ai ritmi di crescita attuali ci vorranno almeno 20 anni per recuperare i livelli pre-crisi di ricchezza, sempre che la prosecuzione dell’austerità consenta di sostenere la pur mediocre crescita dell’ultimo biennio. Il debito pubblico, che al 2010 era del 146% del PIL, è schizzato al 180%, compromettendo per sempre ogni possibilità di autonomia finanziaria del Paese (essendo in larga misura un debito detenuto da soggetti esteri). Questo risultato così disastroso è stato ottenuto con un programma di aiuti, pari a 273 miliardi di euro, di entità superiore al Pil di Paesi come il Portogallo o la Danimarca.
E’ difficile immaginare come una eventuale uscita dall’euro del Paese avrebbe potuto conseguire risultati sociali ed economici peggiori di questo. E’ ovvio che la scelta di tenere il Paese dentro l’euro è stata fatta per preservare gli interessi delle banche creditrici, soprattutto tedesche e francesi, terrorizzate da una svalutazione dei loro crediti in euro in caso di ridenominazione in dracme, non per ottenere il “meno peggio” per la popolazione. Da questo punto di vista, la responsabilità storica che Tsipras dovrà sostenere, nonostante i suoi ipocriti festeggiamenti, è tanto enorme che non si capisce come possa sostenerla con tanta leggerezza, a meno di non ipotizzare che soffra di turbe psichiche molto gravi.
Certo, il discorso qui è complesso. Tsipras ha preso in mano un Paese già compromesso dalla crisi speculativa del suo debito, non più vendibile sul mercato e quindi nelle condizioni, senza sovranità monetaria, di non poter pagare più nemmeno gli stipendi ai funzionari pubblici, e con un sistema dei pagamenti al collasso, che solo il programma ELA ha consentito di tenere in piedi evitando l’esproprio di tutti i depositi bancari e il congelamento totale dei prestiti (peraltro insufficienti a salvare le banche dal collasso stesso). Va al governo di una economia priva di una industria di sostituzione delle importazioni e completamente dipendente dagli afflussi di turisti da altri Paesi dell’area euro e dall’export agroalimentare verso l’area euro stessa, per la quale una ipotesi di autarchia a seguito di uscita dall’euro era improponibile. Gode di un consenso mirato a modificare il piano di ristrutturazione, non per uscire dall’euro, ipotesi che terrorizza l’elettorato.
Ma le giustificazioni finiscono qui. Nel momento in cui Tsipras si rende conto che il memorandum non è modificabile, se non in peggio, solo pochi giorni dopo un referendum popolare che a larghissima maggioranza gli ha affidato il mandato di rinegoziare, l’unica cosa da NON fare era quella di accettarlo passivamente. Detta in altri termini: se nel momento era necessario firmarlo, perché la morsa del blocco della liquidità della Bce stava portando il sistema bancario al tracollo, Tsipras porta la responsabilità di averlo applicato in modo pressoché fedelissimo (tranne piccoli scostamenti del tutto simbolici, ad esempio esperimenti di reintroduzione della contrattazione collettiva e/o di un reddito di povertà). Un mix di disobbedienza contenuta (non tale da comportare il blocco del piano di aiuti cui, ricordiamolo, erano interessate Germania, Francia ed altri creditori euro in primis, perché serviva per tenere il malato in coma farmacologico il tempo necessario per far recuperare i soldi ai propri creditori bancari) e di esperimenti innovativi (l’introduzione di una moneta parallela per i pagamenti interni o di un sistema come i CCF, in questo caso, sarebbe stata utilissima per ridurre la dipendenza dalla liquidità della Bce e rianimare la domanda interna) avrebbero consentito di ammortizzare gli effetti sociali devastanti di un pur necessario assoggettamento del Paese ai diktat europei. Certe privatizzazioni che, dal punto di vista simbolico, hanno depredato il Paese della sua identità, dovevano essere cancellate dati alla mano, nel momento in cui si dimostrava che non riducevano il debito pubblico, che anzi è cresciuto. Una battaglia per conservare margini di autonomia nazionale nella programmazione e gestione di forme di politica industriale, anche per imprese pubbliche in settori strategici per il Paese (turismo, agroindustria, industria di base) andava quantomeno tentata.
Tsipras ha invece fatto i compiti, come scolaretto diligente, credo soprattutto per il timore di una qualche forma di colpo di Stato che lo avrebbe esautorato, o di qualche “incidente” che lo avrebbe ucciso. Raggiungendo il culmine della sua indegnità personale e politica, in barba alle sofferenze del suo popolo, oggi ha anche il coraggio di festeggiare, insieme alla Trojka, la “fine” (del tutto apparente, come detto prima) del programma di aiuti, come un vero traditore sociale. Così facendo, ha condannato l’unica esperienza di sinistra di governo in Europa (al netto dei timidi socialisti portoghesi) ad un miserrimo fallimento. Che dimostra una sola cosa, di cui tenere conto anche per l’Italia: la sinistra, nel migliore dei casi (quando cioè non è venduta agli interessi extranazionali, come avviene da noi) è moralmente, culturalmente e politicamente inservibile, in questa fase storica. E’ un arnese guasto irrimediabilmente, da buttare via senza grandi rimpianti.