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sabato 29 settembre 2018

La guerra dello spread





Per la prima volta da più di venticinque anni, il Governo annuncia, tramite la Nota di aggiornamento del DEF, una manovra finanziaria prossima ventura espansiva, finanziata a deficit. Portare la previsione di rapporto fra disavanzo e PIL dal percorso previsto dal DEF del Governo Gentiloni, ovvero 0,9% nel 2019 e 0,2% nel 2020, al 2,4% per entrambi gli anni, significa andarsi a prendere a disavanzo circa 27 miliardi nel 2019 e circa 41 miliardi nel 2020. Significa cancellare da un orizzonte politicamente programmabile il concetto di pareggio strutturale di bilancio.
L’impostazione, fra il rilancio di 118 miliardi di investimenti pubblici già stanziati, quindi già scontati dal calcolo del debito, ma mai implementati per problemi progettuali e gestionali delle Amministrazioni titolari (su alcuni dei quali, forse, una analisi di costi/benefici per capire se sono ancora attualmente utili andrebbe fatta), il varo di un importante programma di contrasto monetario alla povertà (soltanto per gli italiani, finalmente!) l’aumento di spesa previdenziale prevista dalla modifica della legge Fornero ed altre partite di spesa (tra le quali il ristoro per 1,5 miliardi degli obbligazionisti delle banche fallite) è di tipo keynesiano più che liberista, perché basato maggiormente sulla leva delle spese che su quella delle entrate. Lo stimolo fornito dalla riduzione della pressione fiscale è affidato ad un primo modulo di flat tax riservato solo ad imprese e professionisti, da una prevista riduzione dell’aliquota Ires e da una detassazione degli utili reinvestiti in innovazione o nuove assunzioni, peraltro misure autofinanziate all’interno del sistema fiscale stesso, dalla riduzione delle tax expenditures.
La manovra configurata dal DEF costituisce, quindi, un vero e proprio salto quantico che azzera i vincoli del Six Pack che l’Italia subisce da anni, ed il suo effetto potenziale, su un’area euro bloccata dal gigantesco surplus commerciale tedesco, è potenzialmente dirompente. Si tratta, di fatto, di smentire la filosofia della deflazione interna come fattore di competitività finalizzato a riequilibrare i differenziali nei saldi di bilancia commerciale. Reinserire risorse nel circuito della spesa e della domanda interna non potrà che alimentare inflazione, restituendo spazio al mercato interno come elemento a sostegno della crescita. In un’epoca segnata da un ritorno di forme di protezionismo, tale impostazione appare quanto mai essenziale, e non è un caso se il Presidente di Confindustria, oggi, abbia speso parole sostanzialmente caute, se non anche positive, sul progetto gialloverde.
Evidentemente, però, questa impostazione sconvolge l’assetto ordoliberista dell’area euro, mette pressione sugli altri Stati membri per rilassare la disciplina di bilancio, isola la Germania ed il suo progetto di lebensraum economica basato sull’esportazione su scala europea del suo modello. Qui è in gioco qualcosa di più della fiducia degli investitori, in palio c’è l’egemonia politica sul continente. Se la Germania non potesse, in un futuro, scaricare le tensioni interne all’area euro imponendo deflazione agli altri Stati membri, sarebbe costretta, da un lato, a fare politiche di sostegno alla sua domanda interna per riassorbire il surplus commerciale, e dall’altro ad adottare scelte di condivisione del rischio/mutualizzazione dei debiti sovrani, non potendo più contare su politiche di bilancio nazionali di austerità. Oppure dissolvere l’euro, tornando alle valute nazionali, dando però ragione a quella destra interna, l’Afd, che della Merkel vuole lo scalpo. Consegnando la Germania stessa, da sola e senza  copertura europea, alla furia protezionistica statunitense, che mira proprio a colpire le importazioni manifatturiere tedesche, posto che con Governi amici, come quello italiano, Trump ha negoziato separatamente condizioni di favore per il nostro export agroalimentare.
E’ quindi altrettanto evidente che il progetto di manovra di bilancio sotteso alla Nota di aggiornamento del DEF non passerà il vaglio della Troika. La Germania non se lo può permettere, sarebbe la fine dei suoi disegni di dominanza continentale. A novembre, la Commissione restituirà un parere negativo sulla bozza di legge di bilancio, e non aspetterà la prima finestra per l’apertura della connessa procedura d’infrazione, che si apre solo a maggio, cioè dopo elezioni europee che potrebbero sconvolgere la composizione del Parlamento Ue a favore dei gialloverdi e dei loro alleati negli altri Paesi. E’ molto probabile infatti che si attiveranno i canali interni: la mancata promulgazione da parte del Colle per conflitto con l’articolo 81 della Costituzione. Mattarella ha già avvertito, peraltro, che userà tale facoltà.
D’altra parte, la reazione dei mercati non può essere ignorata. Per il momento, il rialzo dello spread è stato contenuto perché l’approvazione della nota di aggiornamento è avvenuta giovedì sera, e venerdì è un giorno dedicato, normalmente, alle operazioni di chiusura delle partite aperte in settimana. Ma dalla settimana prossima è più che probabile che si inizi a ballare, e che la fine progressiva del Qe della Bce metta ancora più pressioni sui rendimenti dei titoli di Stato italiani. E’ difficile che Trump si muova per un eventuale sostegno all’Italia, se ci sarà, prima delle elezioni mid-term di novembre. Un eventuale aiuto al nostro Paese, tramite pressioni su Wall Street per aumentare gli acquisti di bond italiani, potrebbe essere strumentalizzato in veste elettorale. Almeno fino a novembre occorrerà camminare da soli, e sperare che le elezioni statunitensi premino Donald.
Su questo scenario si innesta però un elemento molto importante, che potrà essere sfruttato dai gialloverdi. L’Italia non può essere trattata come la Grecia. Le dimensioni economiche contano. Non può essere fatta fallire gettandola nel caos politico ed economico che deriverebbe dal blocco tout court della legge di bilancio e dal default che deriverebbe dall’incremento incontrollato dello spread e da eventuali downgrade delle agenzie di rating. Il 28% del debito pubblico italiano è detenuto da soggetti esteri, un ammontare gigantesco, pari a 664 miliardi di euro. La “fuga” dai nostri titoli, che si è verificata in questi mesi, non potrà continuare senza produrre un crollo delle quotazioni dei nostri titoli, che porterebbe a durissimi contraccolpi sul patrimonio di sorveglianza di banche ed operatori finanziari esteri detentori di bond tricolori. Le dimissioni del governo gialloverde che potrebbero seguire alla bocciatura integrale del suo progetto di legge di bilancio, senza una alternativa di maggioranza, getterebbero il Paese nel caos di elezioni anticipate, oltretutto facilmente vinte dai gialloverdi stessi, che potrebbero fare leva su una reazione ostile alla Troika da parte dell’elettorato. Nessuno può permettersi il lusso di mettere un Paese così centrale per l’eurozona alle strette, in una condizione greca.
Non va sottovalutata la frase di Moscovici, che ammette che non è interesse della Commissione far fallire l’Italia. Tale frase rappresenta un’apertura di negoziato. Io credo che alla fine l’esito non sarà né il crollo dell’euro-area né, come sostiene la parte avversa, un drammatico fallimento economico italiano da spread e downgrade del debito. L’esito sarà un compromesso, in cui qualcosa dovrà essere riconosciuta anche all’Italia, in termini di margini espansivi sulla legge di bilancio. Sicuramente l’obiettivo del 2,4% non potrà essere sostenuto, si scenderà, ma certamente non fino allo 0,9% a cui saremmo costretti dal percorso di convergenza verso l’equilibrio strutturale di bilancio, e c’è, forse, anche qualche possibilità di rimanere sopra l’1,6% negoziato informalmente con la Commissione. Questo cedimento parziale alle nostre ragioni sarebbe, peraltro, il primo successo diplomatico italiano in sede di negoziato sulle politiche di bilancio da più di quattro lustri a questa parte. Innescherebbe una dialettica diversa dentro l’euroarea, ed aprirebbe spazi per inserire un pensiero economico diverso da quello ordoliberista sinora utilizzato. Tali spazi, in caso di vittoria di Trump al mid-term e di successo dei populismi alle elezioni europee, potrebbero essere allargati ulteriormente, conducendo, nel giro di pochi anni, ad un rovesciamento del modello economico di riferimento dell’euro.
Sarebbe bene, in questa prospettiva, che:
-         - Alcuni sovranisti abbandonassero infantilismi da “tutto e subito”, ed iniziassero a fare politica con la testa, e non con il fegato;
-         - Le parti più avanzate di ciò che resta della sinistra la smettessero di trastullarsi con idee identitarie e pretese di difesa di una bandiera, ed aderissero, da sinistra e conservendo tutta l’autonomia di pensiero e di programma che intendono conservare, ad alleanze con i populismi, perché, alla fine, i Mélenchon di turno tolgono voti alle destre popolari, che sono le uniche ad avere la forza per cambiare le cose, senza uscire da posizioni minoritarie, dalle quali non si incide. Un gioco a somma negativa. Il futuro non si gioca sulla flat tax. Quello è un simbolo. Il futuro si gioca da chi esce vincitore in una battaglia fra sovranismo e globalismo, che è l’’unica battaglia vera che si sta combattendo. Il resto sono frattaglie di identitarismo di cui liberarsi, se si vuole partecipare al gioco.


lunedì 24 settembre 2018

Sul Dl Immigrazione








Finalmente il tanto atteso provvedimento del governo, in materia di immigrazione e sicurezza, uno dei capisaldi del programma politico della Lega, è stato varato, e lo attendono dure prove in termini di passaggio parlamentare, che non sarà indolore, dovendo scontrarsi con gli spiriti buonisti che allignano anche dentro la maggioranza sul versante pentastellato, e di prevedibili e numerosi ricorsi costituzionali, senza contare la non scontata promulgazione da parte del Presidente della Repubblica, sempre molto occhiuto nel controllare i provvedimento che non provengono dalla sua parte politica (provvedimenti altrettanto severi promulgati da Minniti ai tempi del Governo Gentiloni non ricevettero tante attenzioni da parte del Quirinale).
Nell’insieme, il provvedimento disegnato da Salvini contiene numerose ed interessanti innovazioni anche se, ovviamente, sconta il clima politico ostile, dall’interno e dall’esterno, che gli è stato creato. Non c’è l’auspicabile abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, che oramai rappresenta un quarto del totale delle richieste di asilo e costituisce un canale per ingressi privi di qualsiasi reale motivazione, ma la concessione di tale beneficio viene rigidamente ricondotta a sei fattispecie precise (anche se, per la verità, molte delle quali rientranti nella legislazione previgente). Viene altresì previsto che il richiedente asilo per motivi umanitari possa essere espulso se perde integralmente i crediti legati all’accordo di integrazione sottoscritto. Alla motivazione della richiesta di asilo legata alla presenza di calamità nel Paese di origine, spesso usata come paravento per ottenere il permesso di soggiorno viene posto un limite di sei mesi non prorogabile e non convertibile in permesso per motivi di lavoro. La restrizione dei servizi dello Sprar rispetto a tale categoria di richiedenti asilo dovrebbe garantire una maggiore difficoltà a reperire un lavoro e quindi rimanere.
Arriva una auspicabile ampliamento del sistema per l’espulsione. Il trattenimento nei Centri per l’Identificazione e l’Espulsione passa dai novanta ai centottanta giorni, e si prevede la possibilità di adottare procedure accelerate per i lavori di costruzione di nuovi Cpr o di ampliamento di quelli esistenti per importi inferiori alla soglia comunitaria. Si prevede anche la possibilità di usare strutture diverse, a disposizione dell’Autorità di Pubblica Sicurezza (carceri, evidentemente, ma anche locali idonei presso gli uffici di frontiera) ove i Cpr siano insufficienti. Viene proibita la pratica della reiterazione della domanda di asilo per rallentare l’espulsione. Le risorse disponibili per nuove espulsioni arrivano fino a 3,5 Meuro, una cifra che, presumibilmente, dovrebbe consentire espulsioni per 7-800 unità, un numero assolutamente inadeguato rispetto al fabbisogno (le stime degli irregolari e dei clandestini presenti in Italia oscillano fra i 4 ed i 600.000 individui). Evidentemente, benché le misure vadano nel senso giusto (in particolare, l’ampliamento dei posti disponibili nelle strutture di trattenimento e l’ampliamento della durata vanno ad incidere sul deprecabile fenomeno degli stranieri colpiti da foglio di via e poi rimessi a piede libero) anche in questo caso siamo al di sotto di ciò che sarebbe necessario, e che può essere conseguito soltanto aprendo grandi centri di detenzione nei Paesi di transito, Libia in primis, dove tradurre anche chi deve essere espulso, dietro programmi di assistenza economica a favore di tali Paesi.
L’aspetto probabilmente più efficace ed utile del provvedimento, in prospettiva, è costituito dalla revoca e/o diniego della protezione internazionale in caso di commissione di reati in flagranza quali il traffico di stupefacenti, la violenza sessuale, la rapina, la resistenza a pubblico ufficiale con connesso giudizio di pericolosità sociale espresso dal magistrato, oppure di condanna penale in primo grado. Viene infine posto un freno al turismo dei richiedenti asilo, uno sport particolarmente da alcune nazionalità, come gli eritrei, che evidentemente non hanno nessuna reale esigenza di protezione ai sensi della convenzione di Ginevra: il rientro nel proprio Paese comporta la cessazione della protezione internazionale e la conseguente espulsione. Finalmente viene abrogato il gratuito patrocinio, fatto a spese degli italiani, per ricorsi dichiarati improcedibili o inammissibili.
Personalmente, invece, mi lasciano piuttosto dubbioso le norme relative alla cancellazione della cittadinanza in caso di condanna per reati di terrorismo. Non perché il principio sia sbagliato, ma perché, essendo la cittadinanza un diritto indisponibile, tale norma sarà sicuramente dichiarata incostituzionale. Mentre avrei previsto una sorta di sanatoria, eccezionale e quindi non ripetibile, per i minori stranieri ad oggi presenti sul territorio nazionale, al fine di sanare una situazione di fatto che, se lasciata a sé stessa, rischia di creare pericolose dissociazioni in termini di senso di appartenenza man mano che tali minori cresceranno da apolidi, e quindi essere la miccia di situazioni di emarginazione permanente e di senso di sradicamento personale che potrebbero condurre a risposte socialmente devianti.
Volendo dare un giudizio di insieme su tale provvedimento, esso sicuramente va considerato molto positivamente, soprattutto perché inverte la direzione di marcia di questi anni di buonismo lassista, iniziando a lanciare segnali di disincentivo all’immigrazione incontrollata. Va valutato positivamente soprattutto perché partorito dentro un clima politico estremamente ostile, nel quale gli interessi materiali al nuovo traffico di schiavi si celano dietro il dettato dell’articolo 10 della Costituzione (lo stesso che ha giustificato il rispetto di porcherie come il fiscal compact).
Detto questo, esso è ampiamente al di sotto di ciò che sarebbe necessario, e che dovrebbe tradursi in una vera e propria guerra senza quartiere all’immigrazione, sul modello di Orban, dove il muro dovrebbe essere sostituito da un vero e proprio blocco navale (senza la pelosa assistenza della polizia di frontiera europea, grazie, le frontiere nazionali le difendiamo da soli) e dove l’espulsione sistematica, o in alternativa, ove fosse impossibile il rimpatrio, la detenzione a tempo indeterminato dei clandestini, possibilmente in strutture situate fuori dal territorio italiano, dovrebbe essere la priorità delle politiche di controllo del territorio (come del resto fa la civilissima e democratica Australia). Mentre d’altra parte, occorre investire in un modello di assimilazione (cosa ben diversa dall’integrazione multiculturale e paritaria della sinistra) per chi è già all’interno dei confini nazionali e oggettivamente non può essere espulso. L’immigrato che è legalmente già all’interno del nostro sistema deve essere portato a condividere in modo graduale i nostri valori e il nostro stile di vita, allontanandosi progressivamente, e con il minore attrito possibile, da quelli del suo Paese di origine. Ed in questo senso va anche la mia proposta di un “condono” una tantum sullo Ius Soli per i minori già presenti nel Paese.
La sensazione è che Salvini, anche legittimamente preoccupato per la tenuta della maggioranza di fronte alle esitazioni grilline, sia troppo “bravo ragazzo” e, ovviamente, il rischio è che una morbidezza eccessiva comporti un ritorno elettorale non proprio favorevole per questo governo. Credo, però, che il primo ad esserne consapevole è lui, e che la battaglia debba ancora essere combattuta, per cui il presente provvedimento altro non è che l’antipasto. Naturalmente ciò richiede anche risorse economiche, perché non si fa sicurezza senza investirvi somme cospicue. E questo dipende anche dalla capacità di allentare i vincoli europei su disavanzo e debito pubblico, altra battaglia fondamentalmente di lungo periodo, i cui risultati non potranno essere valutati nell’immediato. Riponiamo fiducia, quindi, nelle possibilità di manovra future di questo esecutivo, e preghiamo che le derive fichiste o dibbatististe che lo inquinano siano frenate (per il bene stesso del M5S, che rischia di finire nella pattumiera della storia a causa di questi personaggi).
P.S. Se non si garantiscono ai Paesi di partenza condizioni minime di stabilizzazione politica, etnica e di sviluppo in termini di autosufficienza alimentare, di accesso al cibo, all’acqua, alle cure mediche di base, lavorando sull’eradicazione della povertà più estrema, insieme a politiche di controllo delle nascite di tipo coercitivo e cinese, fra non molti anni sarà necessario ricorrere a misure di difesa delle nostre frontiere ben più crudeli di quelle previste nel Dl di Salvini. Quindi evitate di fare le anime belle, la situazione di fatto è questa e va affrontata per quella che è, a meno che fra 15 o 20 anni non vogliamo pure noi finire nel sottosviluppo e nelle guerre etniche e tribali.


sabato 8 settembre 2018

Gli immigrati si difendono con la severità, non con il lassismo






Quello che è successo a Chemnitz (la ex Karl Marx-Stadt dei tempi del socialismo reale) dove il partito euroscettico Afd si è unito agli anti-islamici di Pegida in una manifestazione contro l’immigrazione tout court, è lo specchio di ciò che succederà a breve in tutta Europa. Nonostante il forte ricordo nostalgico della ex DDR che alimenta, in quelle plaghe, un consenso elettorale per la Linke vicino al 20%. 

Per certi versi, i Paesi ex socialisti sono un laboratorio anticipatore delle tendenze che prendono piede in Europa: negli Anni Novanta, con le shock therapy dei figli di Friedman hanno sperimentato la forma più pura di turbocapitalismo e mercato totalmente liberalizzato e finanziarizzato, che ne ha devastato il tessuto sociale. Ed adesso sperimentano, in anticipo rispetto al resto d’Europa, la svolta xenofoba, come conseguenza di una devastazione sociale molto più avanzata e incisiva e del ricordo degli altissimi livelli di protezione di cui si godeva fino al 1989. 

La protezione e l’integrazione degli immigrati regolari già presenti nei nostri Paesi costituisce, ovviamente, una necessità, e peraltro lo stesso Salvini, tanto odiato per un suo immaginario razzismo, lo ha sempre detto nei suoi discorsi. Si tratta di un obiettivo minimale di pacificazione sociale, al quale personalmente aggiungo l’esigenza di uno Ius soli per i minori già presenti da noi (con meccanismi di straordinarietà ed eccezionalità che non incentivino però l’ulteriore immigrazione di minori per ottenimento della cittadinanza) ma per poter essere realizzato necessita di due condizioni preliminari:

a)       il blocco delle frontiere. C’è un limite quantitativo all’integrazione che possiamo permetterci di sopportare senza esplosioni sociali da parte del nostro popolo. E’ un limite sia di tipo strutturale (in tempi di crisi e di impoverimento, anche i posti di lavoro meno qualificati diventano appetibili, e la crescita di un esercito industriale di riserva ne abbassa i salari ed i diritti, in una guerra fra autoctoni e immigrati; l’importazione di poveri crea concorrenza nell’accesso al welfare, dalle liste di attesa ospedaliere alle graduatorie per l’accesso alle case popolari) sia sovrastrutturale (l’accesso illimitato di culture e religioni così lontane dalla nostra crea problemi identitari e paure di perdita del sé – in fondo le tradizioni sono l’anima di un popolo, come diceva Gustave Le Bon, ma d’altra parte costituiscono “la concezione della vita e del mondo”, per Gramsci). Che il fattore sovrastrutturale sia potente lo dimostra la crescita degli anti-immigrazionisti svedesi, nonostante un Paese ancora in crescita e con un welfare ancora invidiabile, seppur in contrazione;


b     b) un modello di integrazione che rifugga il multiculturalismo. Chi viene da noi deve essere portato, nel giro di due o tre generazioni, ad abbracciare i nostri valori, il nostro stile di vita, la nostra concezione del mondo. Non si può costruire un modello-patchwork nel quale le singole comunità immigrate sono lasciate a coltivare la chiusura su loro stesse, creando subculture, aggravandolo, peraltro, con i modelli urbani di tipo segregativo tipici delle banlieues. Non c’è bisogno di andare lontano. Una teoria fondamentale della criminologia, la teoria della disorganizzazione sociale, evidenzia che la formazione di subculture chiuse su loro stesse allenta il controllo sociale, ed espone i membri della subcultura all’impressione di essere isolati e “contro” la cultura mainstream del Paese di accoglienza, favorendone la tendenza alla devianza. Leggete Sampson e Wilson (1995. Towards a Theory of Race, Crime, and Urban Inequality. Pp. 37-56 in Crime and Inequality, curato da John Hagan e Ruth Peterson. Stanford, CA e Bursick-Grasmick (1993. Neighborhoods and Crime: The Dimensions of Effective Community Control. Lexington). Del resto, nessuno si chiede perché le reclute più fanatiche dell’Isis nei Paesi europei di alta immigrazione islamica siano immigrati di seconda o terza generazione? Quindi, l’utilizzo della lingua e la pratica religiosa autonoma degli immigrati, nonché la colorazione etnica dei quartieri, sono elementi che non vanno incentivati, anche se non possono essere eliminati e, se non rilevantissimi, e comunque inseriti dentro un percorso di progressiva integrazione per la quale si vedono concreti segnali, possono essere anche tollerati. Però ci si può risparmiare di costruire le moschee su richiesta, o di consentire pratiche che cozzano contro l’identità culturale del nostro popolo, ad iniziare dal Burka o dai matrimoni combinati. 

Prima ancora, il senso comunitario si forgia dal rispetto di un corpus di leggi riconosciuto cogente. Occorre quindi che gli immigrati rispettino rigidamente le leggi dello Stato italiano, pena l’espulsione, che va peraltro resa immediata e cogente nei confronti dei clandestini e degli irregolari, tramite la costruzione di nuovi CIE dove trattenerli, l’aumento del periodo di trattenimento oltre i 18 mesi attualmente consentiti, accordi specifici con i Paesi di provenienza per riprenderseli in condizioni di rispetto dei diritti umani, incentivi per il rientro volontario, una più intensa azione di controllo sul territorio. 

In queste condizioni, e solo in queste, eviteremo il pogrom, dando cioè accesso politico non a chi vuole regolamentare l’immigrazione, ma la vuole far sparire. Non è mettendosi contro i sentimenti popolari che si proteggono gli immigrati già presenti da noi. Al contrario, li si mette in grave pericolo.