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martedì 22 gennaio 2019

Aquisgrana, ovvero la fine dell’Europa e l’inizio dell'Impero Carolingio del XXI Secolo


I luoghi hanno sempre una valenza simbolica. Aquisgrana fu, nell’812, il teatro di un trattato di pace con il quale i bizantini, che si consideravano i legittimi successori dell’Impero romano ed avanzavano pretese territoriali sull’Europa occidentale, riconobbero l’esistenza dell’Impero carolingio, cioè dell’aggregazione politica sorta dalla parziale germanizzazione dell’antica Gallia celtico-romana ad opera dei Franchi di Carlo Magno.
Da quel momento, iniziò una fase di egemonia politica dell’Impero carolingio sull’Europa ed in specie sulla Francia, che durò almeno fino a quando i successori di Carlo non ebbero l’insana idea di litigare fra loro, ed il trattato di Verdun dell’843 andò a costituire il primo nucleo di una Francia indipendente dalla Germania.
Molte di quelle tematiche sembrano echeggiare nel Trattato di Aquisgrana firmato oggi, dove un Macron indebolito da una pesante crisi sociale interna si sottomette alla Germania della Merkel, stipulando un accordo bilaterale che, di fatto, fa carta straccia del metodo comunitario, mostrando plasticamente ai pazzi che ancora farneticano di Europa federale come il motore della politica europea sono gli interessi nazionali. La Germania, di fronte alla prospettiva di una crescita incontrollabile dei populismi euroscettici dentro le istituzioni europee, avvia un percorso di svuotamento e di abbandono dell’Unione Europea, obiettivamente considerata non più utile agli interessi tedeschi, o semplicemente non più governabile secondo i criteri dell’interesse esclusivi della Vaterland che hanno trasformato l’area euro in un enorme gioco del tipo “follow the leader”, in cui governanti mediterranei sottomessi all’interesse tedesco dovevano rincorrere i parametri macroeconomici del Paese dominante per tenere insieme un’area valutaria subottimale.
In sostanza, la Francia, ingoiando un rospo enorme rispetto alle sue pretese di grandeur, si impegna a supportare l’accesso della Germania nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, rinuncia alla sua autosufficienza in materia militare accettando una crescente integrazione sia a livello di industria della Difesa che di Forze Armate, si impegna a partecipare a progetti diplomaticamente definiti “comuni” in materia di energia ed economia, che però, stante la differenza di peso relativo fra gli apparati produttivi tedesco e francese, si tradurranno in vantaggi relativi a favore del primo contraente, a danno del secondo. L’integrazione a livello di “diritto e cultura d’impresa” altro non significa che l’importazione del modello imprenditoriale tedesco in quello francese. Così come l’istituzione di un Consiglio di Esperti in materia economica, tutto destinato al tema della “competitività” significa, fuori di metafora, che la Francia si piega al modello ordoliberista tedesco, ossessionato dalla competitività dal lato dei fattori produttivi.
Ma è soprattutto l’aspetto della governance che impressiona: di fatto, fuori dal quadro delle alleanze e delle istituzioni già consolidate, Francia e Germania costituiscono, in materia di politica estera, difesa ed economia un metodo concertativo bilaterale, che ovviamente rende del tutto inutili le riunioni del Consiglio Europeo e bypassa le già modestissime prerogative di controllo del Parlamento Europeo. E’ come se la Merkel e Macron, di fronte ad una Nato guidata dal sovranista Trump ed a istituzioni europee che a breve potrebbero essere prese d’assalto dai populisti, buttassero a mare tutto il quadro delle relazioni multilaterali in cui sono coinvolti, ripiegando su un rapporto esclusivo ed ovviamente escludente. Tusk, che non è uno sciocco, comprende benissimo il pericolo per il futuro della Ue, quando invita – inutilmente - i due leader a rimanere dentro il solco delle istituzioni comunitarie.
Per Macron, questo rapporto è l’ultima possibilità di uscire dal declino politico personale, recuperando una sembianza di leader di grande visione ovviamente ai danni del suo Paese, che sarà sottoposto ad una seconda invasione di Franchi, stavolta economica. Mentre la Germania rivela fino in fondo la natura opportunistica della sua politica estera: essendosi rifiuta di assumere un ruolo di leadership dentro l’Unione Europea, che le avrebbe imposto di assumersi una condivisione di parte dei rischi economici e finanziari degli altri Stati membri, adesso butta via il giocattolo che l’ha tenuta al riparo dalla grande crisi economica, scaricandola sui Paesi euromediterranei.
Si comprende, quindi, l’astio antifrancese che stanno dimostrando i nostri governanti in questi giorni, dal sostegno ai gilet gialli alla discussione sul franco CFA: avendo scommesso sulla sopravvivenza di un quadro europeo multilaterale dentro il quale ricercare spazi di flessibilità e di attenuazione dell’austerità di bilancio, adesso capiscono di essere stati estromessi dal tavolo che conta. Come italiani, pagheremo carissimo questo accordo, dal dossier libico, alle politiche migratorie, fino alla partita dell’integrazione della cantieristica (non a caso, una Commissione Europea pateticamente asservita, proprio in questi giorni, ha congelato l’acquisizione di Stx da parte di Fincantieri: poiché Stx è una componente strategica dell’industria militare francese, in base all’accordo di Aquisgrana essa dovrà integrarsi con i tedeschi, non con gli italiani). Rischiamo seriamente che i neocarolingi ci trasformino nuovamente in un loro contado, esattamente come ai tempi delle scorribande italiche di Carlo Il Grosso.
In un certo senso, si sta realizzando il sogno sovranista di una definitiva dissoluzione di ogni rimasuglio di relazione europea, sotto il ghigno mefitico ed alcolico di Juncker che, da Presidente della Commissione, benedice l’accordo franco-tedesco, anziché stigmatizzarlo. Solo che questo sogno si sta realizzando per opera degli avversari, che ci faranno pagare un pedaggio di uscita molto salato.

sabato 12 gennaio 2019

Minsky o Keynes?


Con i dati sulla produzione industriale appena pubblicati, è certificato l’ingresso in recessione (per l’economia italiana) ed in stagnazione (per le altre economie dell’area euro). Mentre la grande crisi economica iniziata nel 2008 è facilmente spiegabile con dinamiche di tipo finanziario, quindi con il modello di Minsky, adesso non sembra che vi siano le caratteristiche tipiche di un “Minsky moment”. I valori degli asset finanziari non sembrano in crollo libero dopo una fase di crescita incontrollata. Piuttosto, la causa va ricercata nell’economia reale, e quindi nella spiegazione keynesiana tradizionale del ciclo: ad un determinato momento, la crescita della dotazione di beni capitali e la fluttuazione delle aspettative degli operatori fanno decrescere l’efficienza marginale del capitale, ovvero la redditività attesa dei progetti di investimento. Ciò induce gli operatori economici a ridurre gli investimenti, quindi la domanda aggregata ristagna, e si entra in recessione.
Di elementi che fanno pensare ad una inversione in senso pessimistico delle aspettative degli operatori ne abbiamo assai: i venti protezionistici che spirano da oltre Atlantico, il rallentamento dell’economia cinese, forse alle soglie di una enorme bolla immobiliare, il ritorno a politiche monetarie restrittive sul versante del costo del denaro annunciate, seppur con molta prudenza, dalla Fed,  il possibile rialzo del prezzo del petrolio, dopo una lunga discesa, innescato dai tagli produttivi decisi dall’Opec e dalla Russia, le incertezze perduranti sulla Brexit. 
In effetti, se nel periodo della ripresa post crisi una proxy della redditività del capitale, data dal rapporto fra valore aggiunto e stock di capitale al netto degli ammortamenti, passa dallo 0,25 del 2013 al 0,27 del 2017, è nel 2018 che tale redditività tende a calare. Al terzo trimestre del 2018, infatti, i redditi da capitale sono inferiori del 3,5% rispetto al valore del terzo trimestre dell'anno precedente, innescando una possibiel recessione "keynesiana", cioè interamente spiegabile da fattori reali e non dagli investimenti finanziari.
In queste situazioni, ammonisce Keynes, non è sufficiente far scendere il tasso di interesse con politiche monetarie distensive. Le aspettative pessimistiche degli operatori potrebbero radicarsi al punto tale che, per tornare all’espansione, occorrerebbe una fase lunga di svalutazione dei beni capitali esistenti, al fine di rendere nuovamente necessario investire in nuovi beni capitali. Oppure, come dice, per superare il blocco degli investimenti causato da aspettative negative persistenti, aprire una fase di “socializzazione degli investimenti”, cioè una fase di collaborazione pubblico/privato per riattivare grandi progetti di investimento, su infrastrutture strategiche, opere pubbliche, progetti di ricerca industriale, oppure formazione della manodopera.
Il consiglio che mi sento di dare al Governo attuale è quello di perorare un programma europeo di rilancio degli investimenti, molto più consistente finanziariamente dell’inutile Piano Juncker, anche rilanciando l’idea, abortita per l’opposizione tedesca, di raccogliere risorse sul mercato tramite eurobond, estromettendo alcune categorie strategiche di investimento (ad esempio quelle in R&S) dal calcolo del saldo strutturale di bilancio valido per il Six Pack. Il nuovo ingresso in recessione, che si annuncia generalizzato per tutti i Paesi euro, anche per la Germania, potrebbe rendere la Merkel e gli altri più disponibili ad ascoltare, rispetto ad un passato nel quale si illudevano di poter scaricare il peso del ciclo negativo sulle economie euromediterranee. Il M5S abbandoni le remore ideologiche sui grandi investimenti: non è questo il momento di fare ambientalismo di risulta, o, peggio ancora, filosofeggiare sull’incidenza delle grandi opere sul tasso di corruzione del sistema.
Dovrebbe essere chiaro che una nuova recessione, che segue a breve la grande crisi 2008-2015, darebbe il colpo di grazia alle economie europee, il cui livello di domanda aggregata è ancora debole, e la situazione finanziaria delle imprese e del sistema bancario è ancora molto problematica. Una nuova recessione rischia di far saltare il banco, con danni per tutti.