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domenica 10 marzo 2019

Orbanismo al confronto con i dati



C'è molta curiosità sul modello sociale e fiscale ungherese, soprattutto dal momento che esso è stato assunto a riferimento dalla Lega. La dura ristrutturazione sociale subita dai Paesi dell'area-euro negli ultimi anni, a confronto con ciò che è avvenuto in un paese “simile”, che aderisce alla Ue ma non all'euro, può rivelare lezioni interessanti sia per i pro che per gli anti-euro.
E' soprattutto interessante confrontare i risultati sociali ottenuti da una destra popolare e non ortodossa come Fidesz con quelli che le ricette neoliberiste ortodosse, in larga misura sostenute dalle sinistre riformiste di governo, hanno prodotto nei Paesi dell'area-euro. E' interessante anche perché le sinistre antiliberiste, nei Paesi dell'area-euro, o non esistono, ridotte a frammenti senza alcuna rilevanza, oppure sono più o meno segretamente allineate alle forze neoliberiste (vedi Syriza in Grecia), per cui l'unica alternativa di policy disponibile rispetto al neoliberismo ortodosso è, oggi, costituita dai populismi di destra.
Andiamo quindi ad analizzare i risultati economici e sociali differenziali ottenuti dall'Ungheria post-2010 (cioè da quando Orban ha preso il potere) e da un paese dell'area-euro sottoposto da anni ad una dura disciplina neoliberista, ma non così estrema come quella subita da altri Stati membri dell'euro (Grecia, Portogallo) scegliendo quindi, come metro di paragone, l'Italia. I dati statistici utilizzati sono quelli ufficiali prodotti dall'Eurostat, cioè dall'ufficio statistico della Commissione Europea, che quindi sono omogenei, comparabili fra Paesi diversi e non tacciabili di essere pro-Orban.
Come è possibile vedere, la crescita economica ungherese nel periodo 2010-2018 è stata incomparabilmente più alta di quella italiana. Il tasso di crescita acquisito al 2018, rispetto al 2010, è del 21,8%, a fronte del 2,4% italiano. Tali risultati sono stati ottenuti, sicuramente, grazie ad efficienti servizi pubblici (in Ungheria un rimborso IVA arriva dopo 40 giorni, un processo civile dura mediamente 6 mesi) a fronte di un carico fiscale molto più basso di quello italiano (le persone giuridiche subiscono un prelievo fiscale del 9%) ma anche grazie alla possibilità di fare una politica industriale autonoma e, si direbbe un tempo, “non allineata”, che ha consentito di attrarre investimenti industriali tedeschi tanto quanto investimenti logistici cinesi, riconfigurando completamente il vecchio apparato produttivo dei tempi socialisti.
Ed ovviamente l'Ungheria ha beneficiato di un posizionamento intelligente dentro la Ue: beneficia di ingenti trasferimenti per fondi strutturali, ma mantiene la sua moneta e la sua Banca Centrale (privata da Orban di ogni pericolosa forma di indipendenza e diretta dal Governo, pienamente in controllo della politica monetaria e valutaria), il che ha consentito ad Orban di effettuare numerose svalutazioni competitive per sostenere l'export e di finanziare imprese e banche che avevano debiti denominati in valuta estera.

Tasso di variazione annuale del Pil a prezzi costanti 2010

Diventa quindi interessante comprendere la distribuzione sociale dei benefici della crescita. Una destra, seppur popolare, prediligerà sempre i profitti. Tuttavia, i salari netti, dopo il pagamento delle tasse e dei contributi sociali, per le famiglie allineate alla media, sono in crescita in termini reali (depurati cioè dall'andamento dei prezzi, calcolato tramite il deflatore del Pil). Una famiglia bireddito, in cui un componente guadagna esattamente quanto il salario medio nazionale, e l'altro guadagna il 67% del salario medio nazionale, con due figli a carico, vede il suo reddito netto reale crescere, fra 2010 e 2015, del 5,3%, a fronte del 4,6% della medesima famiglia in Italia. Anche un single senza figli, che guadagna esattamente il salario medio nazionale, vede il suo reddito netto reale crescere più velocemente in Ungheria rispetto all'Italia: +16,8%, rispetto al +2,9% italiano, fra 2010 e 2015.
Tuttavia, nell'area del disagio economico, le cose cambiano: un single che guadagna il 50% del salario medio nazionale (ad esempio un pensionato solo a basso reddito) vede, in Ungheria, il suo reddito netto reale diminuire del 4,6%, a fronte di un incremento dell'11,7% in Italia, sempre fra 2010 e 2015.

Tasso di variazione dei redditi netti familiari a prezzi costanti 2010

Ingenuamente, si potrebbe credere che queste diverse dinamiche, che premiano i nuclei familiari con redditi nella media o al di sopra della media rispetto a quelli al di sotto, siano prodotte da distorsioni distributive legate alla flat tax. I dati, però, sembrano smentire tale tesi. L'aliquota fiscale media gravante sui redditi più bassi (calcolata come aliquota fiscale e contributiva al netto dei tax benefit) è, in Ungheria, significativamente più bassa rispetto all'Italia, ed oltretutto in forte riduzione (-3,8 punti) fra 2010 e 2015. Ciò significa che la riforma fiscale ungherese ha prodotto benefici fiscali anche ai più poveri, grazie alla combinazione fra la misura dell'aliquota unica (di poco superiore a quella minima del sistema precedente) e di una serie di benefici “extra welfaristici” ai più poveri (sconti sulle bollette, riduzioni “mirate” dell'aliquota IVA, di per sé superiore a quella italiana, per i beni di consumo di prima necessità – latte, uova, pollame, carne suina e pesce pagano un'IVA del 5% - nonché lavori socialmente utili con i quali i municipi locali impiegano la manodopera fuori dall'assistenza alla disoccupazione).

Aliquota fiscale media su un single che percepisce un reddito pari al 33% del salario medio nazionale al 2015 e variazione rispetto al 2010


quali sono allora le radici delle diseguaglianze nelle dinamiche dei redditi? Risiedono nella riduzione della spesa per Stato sociale. Il coefficiente del Gini, come noto, misura il grado di diseguaglianza nella distribuzione dei redditi, ed è tanto più alto quanto più una società è diseguale. Ebbene, il coefficiente del Gini complessivo dell'Ungheria, forse come retaggio del suo passato socialista, è inferiore a quello italiano – la società ungherese è meno diseguale dal punto di vista distributivo – ma, nel periodo 2010-2017, cresce molto più rapidamente in Ungheria rispetto all'Italia.
Inoltre, il coefficiente del Gini calcolato sui redditi prima dell'erogazione di prestazioni sociali welfaristiche (pensioni, indennità, assicurazioni contro la disoccupazione o la povertà, ecc.) è, in Ungheria, superiore al dato italiano, ribaltando quindi le gerarchie dell'indice del Gini complessivo, in cui era l'Italia ad avere un valore più elevato.

Indice del Gini complessivo e prima dei trasferimenti sociali al 2017

Variazione dell'indice del Gini fra 2010 e 2017


L'indice del Gini complessivo cresce più rapidamente in Ungheria rispetto all'Italia; il suo valore assoluto è più basso, ma diviene più elevato se lo si calcola prima dei trasferimenti sociali. Queste due cose significano che il welfare pubblico ungherese è molto meno generoso di quello italiano, e che per finanziare la flat tax (che pure ha restituito benefici anche ai redditi bassi) è stato tagliato in questi anni. Ma ciò non significa che l'Italia, per pagare il prezzo del rimanere dentro l'euro, non sia costretta, nei prossimi anni, a tagliare anch'essa in misura pesante il suo welfare, anche senza riuscire ad introdurre una flat tax all'ungherese, che benefici anche i redditi bassi.
Ad ogni modo, l'incidenza del rischio di caduta in povertà in Ungheria è inferiore al dato italiano, ed è peraltro anche in riduzione rispetto ai valori del 2010, nonostante l'oggettiva contrazione dell'area del welfare pubblico. Rimane, per la verità, un'area diffusa di povertà estrema (il tasso di deprivazione materiale “severa”, che misura la povertà materiale più grave, è del 10,1%, contro l'8% circa italiano) ma ciò è da attribuirsi a fattori etnici ed a una prevaricazione che esisteva già ai tempi del socialismo: tale povertà estrema riguarda, infatti, essenzialmente la componente Rom e Sinti, che costituisce circa il 7-8% della popolazione magiara, e che da sempre è emarginata.

% di popolazione a rischio povertà 

Da cosa dipendono, allora, la riduzione del rischio di caduta in povertà e la dinamica dei redditi, soprattutto di quelli del ceto medio e medio-basso, se il welfare è in contrazione? Semplice: dalla combinazione dei benefici della riforma fiscale che ha introdotto la flat tax, che ricadono in parte anche sui redditi bassi tramite benefici fiscali “extra welfare” (riduzione dell'IVA, sconti sulle bollette, sussidi fiscali alle famiglie, ecc.) e della forte crescita economica, indotta da un intelligente posizionamento nello scacchiere internazionale e da una politica economica ed industriale abile ad attrarre investimenti pubblici (fondi strutturali) e privati (multinazionali tedesche e cinesi)
. La crescita economica, infatti, genera ricchezza aggiuntiva che, anche in un governo di destra, ricade in parte sui lavoratori.
Infine, la saggia chiusura totale delle frontiere all'immigrazione ha evitato che si formasse un esercito industriale di riserva che potesse spingere verso il basso la dinamica salariale. Il recente provvedimento di “stretta” sugli straordinari è, in effetti, la conseguenza di una dinamica del costo del lavoro talmente favorevole da indurre il governo di Orban, per non perdere gli investitori stranieri, a proporre tale provvedimento impopolare. Non sfugge infatti che un simile provvedimento ha natura “difensiva”, e nasce quando si creano pressioni per una occupazione molto vicina al pieno impiego e per dinamiche salariali favorevoli. L'Ungheria ha infatti un tasso di disoccupazione del 3,7%, prossimo al valore frizionale di pieno impiego.

Quindi, in assenza di una sinistra in grado di fare qualcosa di buono, che Santo Stefano protegga Viktor Orban.


sabato 2 marzo 2019

Guerre civili in Africa fra opportunità di guadagno e rivendicazioni per la giustizia



Capire meglio la radice delle guerre civili in Africa significa, per noi, impostare una politica di sviluppo verso il continente africano che sia effettivamente in grado di fermare i flussi migratori già alla loro origine.
Nella vasta letteratura sulle guerre civili spicca, per capacità di verifica empirica delle ipotesi, il modello proposto originariamente nel 1998, e poi rivisto nel 2004, da Collier e Hoeffler, dell'università di Oxford. Tale modello cerca di spiegare le guerre civili, non solo in Africa ma in generale, sulla base di due categorie concettuali: l'opportunità di un guadagno economico che superi il costo-opportunità della guerra civile (cioè il costo legato alla perdita di altre opportunità di crescita economica “pacifica”) e la rivendicazione di maggiore giustizia da parte di gruppi sociali o etnici isolati dal potere.
Tale modello si chiama infatti “greed and grievance”, ovvero “profitto e rivendicazione”. La verifica empirica di tali ipotesi si basa su un panel di 1.167 Paesi del mondo, fra i quali 79 hanno subito guerre civili di durata almeno quinquennale fra 1960 e 1999, tramite un modello econometrico di tipo “logit”, cioè la cui variabile dipendente è binaria (nel caso di specie, assume valore uno nei paesi in guerra, e zero in quelli in pace).
I risultati sono in parte ragionevoli, perché confermano analisi di senso comune, in parte stupefacenti. Emerge in generale che la componente di profitto economico è più rilevante, statisticamente, nello spiegare le guerre civili, rispetto a quella rivendicativa. In particolare, nell'area delle opportunità, un ruolo molto forte è da attribuirsi al grado di dipendenza delle esportazioni da materie prime. Quando tale dipendenza supera il 33%, la probabilità di guerra civile schizza verso l'alto, come effetto sia del lucro derivante, per le bande armate, dalla possibilità di acquisire il controllo di tali materie prime, sia per una peggiore governance del governo legittimo, spesso particolarmente corrotto in Paesi ad alto export di materie prime.
Una diaspora di popolazione a seguito di una guerra civile aumenta significativamente il rischio di un nuovo conflitto. L'interpretazione qui non è univoca: potrebbe aumentare tale rischio finanziando, dall'esterno, i gruppi ribelli rimasti nel Paese, oppure potrebbe essere una correlazione spuria: conflitti molto intensi, che per la loro intensità sono passibili di una ripresa dopo un breve periodo di pace, generano diaspore molto grandi. In questo caso la diaspora non sarebbe una causa del riavvio di un conflitto di per sé, quanto piuttosto una misura indiretta dell'intensità dello stesso, e quindi della probabilità che esso scoppi nuovamente.

D'altro canto, l'istruzione secondaria ed il tasso di crescita del Pil pro capite riducono il rischio di guerra civile, perché costituiscono proxy di redditi futuri conseguibili “pacificamente”, cui si deve rinunciare per andare in guerra, quindi sono costi-opportunità.
Passando all'area della “grievance”, si ottengono risultati sorprendenti: le variabili che misurano il grado di frazionamento sociale ed etnico sono pressoché insignificanti statisticamente, cioè non sembrano esercitare effetti particolari sull'avvio di una guerra civile. Soltanto il grado di democrazia interna ha un effetto significativo, e negativo, sulla probabilità di avvio di un conflitto, perché veicola il conflitto sociale dentro un quadro istituzionale e pacifico.
Un certo effetto proviene anche dalla variabile riferita alla dominanza etnica: i Paesi ad elevata dominanza di un'etnia sulle altre (dominanza da intendersi in termini numerici, cioè Paesi in cui un'etnia corrisponde ad una percentuale della popolazione molto alta) sono a maggior rischio di conflitto civile. Gli autori deducono che una crescente diversità sociale ed etnica costituisca un fattore di pacificazione, riducendo la dominanza di un gruppo etnico sugli altri e creando crescenti problemi di comando e controllo, e in ultima analisi di coesione interna dentro i gruppi ribelli, il che, per chi ricorda la ex Jugoslavia, è piuttosto sorprendente.
Delle variabili di contesto generale del Paese, solo la concentrazione della popolazione ha un effetto misurabile statisticamente, nel senso (anche in questo caso sorprendente) che una popolazione molto concentrata in poche aree riduce significativamente il rischio di guerra civile.
Molte critiche possono essere avanzate a tale modello, una delle quali è che esso prendere in considerazione, nel panel, Paesi di tutti i cinque continenti, quindi realtà politiche, sociali e culturali molto diverse fra loro, mediandole in forma artificiosa mediante un modello statistico.
Una risposta a tale critica è data da Anyanwu (2003) che riprende il modello di Collier e Hoeffler, stimandolo soltanto per le guerre civili dell'Africa. Come per questi ultimi, la dipendenza economica dall'esportazione di materie prime è il fattore che spiega maggiormente le guerre civili. Così come la crescita economica genera costi-opportunità, in termini di redditi futuri acquisibili pacificamente, che disincentivano la guerra civile. Anche il ruolo disincentivante della democrazia rispetto all'avvio di guerre è confermato, fornendo canali pacifici per il conflitto sociale.
A differenza del modello originario, però, emergono altre variabili significative: la durata della pace dopo un conflitto civile, in primis, che riduce la probabilità che un nuovo conflitto riemerga, sia perché ha un effetto “curante” sul rancore fra i diversi gruppi sociali o etnici, sia perché il tempo trascorso pacificamente consente di mettere in piedi meccanismi di democrazia e di crescita economica in grado di dissuadere da nuove avventure militari.
E poi riemerge il ruolo del frazionamento sociale, variabile che per Hoeffler e Collier era non significativa. Ma emerge in modo strano: ci si aspetterebbe che un alto frazionamento sociale o etnico possa indurre maggiori rischi di conflitto. Invece è il contrario: similmente all'ipotesi di Hoeffler e Collier riguardo alla diversità etnica come fattore di diluizione della dominanza etnica, un elevato frazionamento sociale riduce i rischi di guerra civile, perché ridurrebbe la capacità di comando e controllo dei gruppi armati e la possibilità che un'etnia diventi dominante numericamente, trasformando le altre in minoranze represse. Spiegazione invero molto poco convincente. Diversamente, da Collier e Hoeffler, non emerge un collegamento statistico con il livello di dominanza numerica di un'etnia, per il semplice motivo che la significatività di tale variabile viene assorbita da quelle riferita al frazionamento socio-etnico (sono cioè due variabili collineari, che interferiscono l'una con l'altra rappresentando, in realtà, lo stesso fenomeno misurato in modo diverso; è cioè un bug del modello).

Tali risultati darebbero, secondo Anyanwu, una giustificazione per un approccio liberale allo sviluppo dell'Africa, basato sulle famose “riforme” che tutti gli enti internazionali, da sempre, impongono in modo del tutto inutile in Africa: occorre, da un lato, promuovere maggiore democrazia, ovviamente importando il modello occidentale che poco si attaglia alle forme di democrazia diretta e di villaggio africane, implementare forme di trasparenza di bilancio per mostrare come vengono usati i proventi da esportazione di materie prime, e poi lavorare sulla diversificazione economica e produttiva, per ridurre la dipendenza dalle materie prime stesse, al contempo ricevendo maggiori aiuti economici dai Paesi ricchi, per incrementare la crescita economica potenziale. Si suggeriscono poi le consuete, ed assolutamente “uneffective”, sanzioni internazionali sui gruppi armati che esportano materie prime per finanziare l'acquisto di armi. Mentre, positivamente, si suggerisce una politica di controllo delle nascite di tipo cinese, che però in Paesi senza disciplina e senza governance è molto difficile da implementare.
La stranezza dei risultati dipende, in parte, da una non perfetta specificazione statistica dei modelli: ci si concentra sulle guerre civili, ovvero le situazioni in cui entrambe le parti accusano perdite non inferiori al 5% dei propri effettivi militari, trascurando quindi i numerosi episodi di massacro, in cui cioè un gruppo, quasi senza subire perdite, ne stermina un altro. Se anche tali fenomeni fossero inclusi nel panel, evidentemente il ruolo del frazionamento socio-etnico diverrebbe molto più importante. Si tornerebbe cioè all'immagine classica dell'Africa, continente in cui il conflitto etnico sostituisce, in un certo senso, quello di classe, perché le classi sociali hanno una forte base etnica.
Analogamente, il ruolo equivoco e non del tutto consolidato della dominanza etnica potrebbe risultare più significativo se, anziché usare la mera misura quantitativa costituita dal numero di appartenenti ad ogni etnia, si usasse una misura in grado di tenere in considerazione le relazioni fra le varie etnie, ad esempio il numero di volte che in un dato Paese le relative etnie hanno manifestato violenze reciproche, oppure la distribuzione dei mandati dei Capi di Stato di un dato Paese per etnia di appartenenza.

Ciò porterebbe ad una immagine più fedele, ed al contempo complessa, delle guerre civili africane, fuori da fattori meramente economicistici, oppure legati a modelli occidentali da esportare ed imporre a culture completamente diverse. Si potrebbe così capire meglio il ruolo necessario dell'esistenza di autocrazie, ovviamente illuminate, per tenere insieme Paesi con tante nazionalità diverse e tanti conflitti storici, etnici e religiose. Si accetterebbe anche l'idea di un ruolo positivo che un certo livello di corruzione attivati da investitori esterni, ovviamente controllato entro livelli accettabili e non estremizzato fino alla cleptocrazia di molti regimi africani, può avere nel movimentare opportunità di business in Paesi dove tali opportunità non esistono. E forse si accetterebbe anche l'idea di una maggiore presenza militare occidentale nei Paesi-chiave, per tutelare gli interessi economici e le frontiere dell'Europa.

La mappa di Murdoch sulle differenze etniche in Africa