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venerdì 6 settembre 2019

In morte di Robert Gabriel Mugabe: la traiettoria discendente del socialismo africano




“Sono tuttora l'Hitler contemporaneo. Questo Hitler ha solo un obiettivo: giustizia per il suo popolo, sovranità per il suo popolo, riconoscimento dell'indipendenza del suo popolo, e il diritto alle sue risorse. Se questo significa essere un Hitler, allora permettetemi d'essere un Hitler decuplicato”.

Premessa
E’ morto, oggi, a 95 anni, Robert Gabriel Mugabe, protagonista della guerra di indipendenza della ex Rhodesia dalla metropoli britannica, e successivamente della “bush war” contro il governo bianco di Ian Smith. Fondatore, nel ferro, nel fuoco e nel sangue, dello Zimbabwe moderno, e suo leader assoluto ed incontrastato dal 1980 al 2017, quando, dopo il colpo di Stato orchestrato dal “coccodrillo” Emmerson Mnangagwa, ha negoziato un pensionamento dorato.
Mugabe era, di fatto, l’ultimo esponente di quel socialismo africano forgiato nel fuoco delle guerre di liberazione nazionale degli anni Cinquanta e Sessanta, grazie ai kalashnikov sovietici ed agli istruttori militari cubani e nordcoreani. Ha conosciuto tutti: Nkrumah, di cui è stato allievo ed ardente sostenitore del panafricanismo, Menghistu, cui ha dato asilo politico dopo la defenestrazione, Machel, leader del Frelimo mozambicano, Agostinho Neto, leader angolano, e Kenneth Kaunda, il prete socialista che diverrà il leader dello Zambia.
La sua figura è di particolare importanza, perché costituisce un esempio fulgido di quel complesso fenomeno politico denominato come “socialismo africano”. Un movimento di difficile definizione unitaria, perché ha messo insieme istanze marxiste terzomondiste classiche come per Sankara, la rivendicazione culturale ed antropologica della “négritude” di Césaire e Senghor, l’internazionalismo panafricano di Nkrumah, richiami di comunismo agrario e primitivo, come nel caso di Nyerere. Possiamo identificare alcuni elementi di fondo: il nazionalismo, spesso intrecciato in un rapporto difficile con il tribalismo, il richiamo quasi mistico alla tradizione culturale ed etno-religiosa africana pre-coloniale, il tentativo di dirigismo economico e sociale, non di rado sfociato nell’autoritarismo, la priorità per l’autonomia economica come rimedio all’imperialismo postcoloniale.
Mugabe è stato tutto questo. Figura complessa e controversa, da un lato ferocemente sanguinario e autoritario, dall’altro sognatore di utopie sociali, amante del lusso e corrotto fino alla cleptocrazia, ed al tempo stesso predicatore sociale, molto influenzato nelle sue scelte politiche dalle donne della sua vita (la madre e le due mogli) ha rappresentato una figura per così dire paradigmatica di leader postcoloniale africano; come quasi tutti tali leader, infatti, proviene da origini umili (figlio di un povero falegname che abbandonò la famiglia, cresciuto da una madre possessiva) ma è stato in grado di studiare e crearsi una formazione culturale nettamente superiore alla media dei suoi connazionali (in questo caso grazie all’educazione impartita dai missionari gesuiti). Ha una formazione ideologica perlopiù opportunistica, la sua adesione al marxismo gli serve soprattutto per fare alleanze con altre forze di liberazione nazionale africane, e spesso smentirà nei fatti tale adesione di principio. Fortemente tribalizzato, come tutti i leader africani, spingerà il suo partito, lo ZANU, verso basi etniche, ovvero reclutando militanti nell’ambito del suo stesso gruppo etnico, gli shona. Nel 1982, scatenerà una guerra civile contro il suo ex alleato nella bush war, Nkomo, appartenente all’etnia rivale degli ndebele. Durante l’operazione Gukhurahundi, massacrerà circa 20.000 civili ndebele, costringendo alla fuga altre migliaia, in una sorta di pulizia etnica.
Egocentrico, presuntuoso (si narra che rifiutò un invito in Jugoslavia perché Tito non lo andò a prendere in aeroporto) eccessivamente sicuro di sé e con un lato crudele evidente, Mugabe passerà la prima parte della sua vita a combattere contro i colonizzatori britannici, per l’indipendenza, e contro la minoranza bianca della Rhodesia, attuatrice di una forma molto moderata di apartheid, per ottenere il potere assoluto per sé ed il suo clan. Megalomane, trasformerà la sua passione giovanile per il panafricanismo di Nkrumah in un delirante progetto di trasformazione dello Zimbabwe, uscito stremato dalla guerra civile, in una mini potenza regionale, innescando una corsa agli armamenti e lanciandosi in una disastrosa avventura militare nella Repubblica Democratica del Congo, nel corso della guerra civile di tale Paese. 

Le contraddizioni 

Bush war: un membro delle forze speciali rhodesiane accanto ad un giovane nero massacrato barbaramente


Il suo lato di socialista si manifesta, ad esempio, tramite un esteso programma di alfabetizzazione delle popolazioni rurali, che abbatte il tasso di analfabetismo al 10%, un vero record in Africa, e tramite una politica di riappropriazione delle tradizioni storiche e culturali dello Zimbabwe precoloniale e di alimentazione dell’orgoglio nazionale, nonché con il progetto di nazionalizzare la nuova ricchezza nazionale, ovvero le miniere di diamanti, annunciato nel 2016, e che probabilmente è la causa della sua rimozione dal potere, ad opera della Cina, che sfrutta le concessioni.
Tuttavia, il suo lato selvaggio porta alla completa distruzione del modello rhodesiano, che fino alla presa del potere da parte di Mugabe, e cioè fintanto che è stato governato dalla minoranza bianca, aveva una economia industriale molto sviluppata, una completa autosufficienza alimentare e servizi pubblici ed infrastrutture più simili all’Europa che all’Africa. La Rhodesia governata dal nazionalista bianco Ian Smith aveva una forma di apartheid per certi versi “illuminata” e, almeno inizialmente, diversa da quella sudafricana. A differenza del Sudafrica, che non considerava gli indigeni come cittadini, e riservava loro la segregazione in “homelands”, cioè in Stati fantoccio, negando loro il diritto al voto, nel Parlamento rhodesiano vi era una quota garantita, seppur minoritaria, di seggi a favore delle popolazioni indigene e dei capi tribù. Era inoltre previsto che il numero di tali seggi crescesse proporzionalmente al gettito fiscale che i neri apportavano allo Stato, fino ad un massimo di posti in Parlamento uguale a quello detenuto dai bianchi. I neri, quindi, avevano diritto al voto, anche se le misere condizioni economiche e culturali spesso ne impedivano l’esercizio concreto, e le tribù avevano un diritto di tribuna nell’Assemblea legislativa. Lo stesso inglese parlato dai bianchi rhodesiani era pieno di espressioni shona o ndebele, a testimonianza di una certa integrazione.
Smith era infatti convinto che l’integrazione della maggioranza nera dentro i gruppi dirigenti del Paese andasse fatta, ma in forma lenta, progressiva e selettiva, perché al momento essi non erano in grado di gestire un Paese moderno, quasi europeo, come era la Rhodesia degli anni Sessanta e Settanta. Alle elite tribali ed alle popolazioni autoctone mancava, infatti, una sufficiente comprensione dei meccanismi di funzionamento del capitalismo, un modo di produzione molto diverso da quello, comunitario, autogestito e tendenzialmente collettivistico, praticato dalle tribù. L’interlocuzione, inoltre, sempre secondo Smith, andava fatta selezionando attentamente la controparte, scegliendo cioè i leader neri più moderati ed evitando di dare riconoscimento agli estremisti ed ai violenti.
Tale approccio prudente e negoziale, evidentemente, cozzava completamente con la sete assoluta ed insaziabile di potere di Mugabe, e con la sua indole sanguinaria. Riuscendo a farsi garante degli interessi occidentali e cinesi nell’industria mineraria del Paese, e grazie alla caduta del salazarismo in Portogallo, che era il principale alleato del governo di Smith, Mugabe riesce progressivamente ad isolare la Rhodesia dal contesto internazionale, mentre conduce una guerra civile senza tregua, fatta di attacchi cruenti ed a sorpresa contro i proprietari terrieri bianchi e le loro famiglie da parte di piccoli gruppi di tagliagole dello Zanu. Tali gruppi partivano da basi situate nel vicino Mozambico, con il cui governo socialista, nato dopo la decolonizzazione portoghese, Mugabe aveva stretto rapporti di alleanza. Nel 1978 il governo bianco rhodesiano, messo in ginocchio dal costo economico ed umano della guerra, dalla continua emigrazione di cittadini bianchi  verso il Sudafrica e dalle sanzioni economiche internazionali per il suo presunto razzismo (in realtà, come detto, il punto era che Stati Uniti e Gran Bretagna, oramai, puntavano su Mugabe come futuro leader, da tenere buono in vista del rinnovo delle concessioni minerarie) fece un accordo di pace con il leader nero moderato Abel Muzorewa, a condizioni molto favorevoli per gli africani (che avrebbero potuto accedere all’80% dei seggi parlamentari ed alla possibilità di formare un Governo nero già dalle elezioni fissate nei mesi successivi). In base a tale accordo, per la prima volta nella loro storia, i neri poterono eleggere un loro Primo Ministro, ovvero lo stesso Muzorewa.
A questo punto, non c’era più bisogno di continuare nella ostilità. Ma Mugabe, che era considerato un criminale per via delle uccisioni dei contadini bianchi e delle loro famiglie (spesso anche di bambini innocenti) era stato escluso dalla partecipazione al voto. A quel punto, indignato, Mugabe rigettò l’accordo, costringendo i suoi alleati internazionali ad andargli dietro. Tale rifiuto costò la prosecuzione della guerra civile per altri mesi, e quindi altre centinaia di morti da ambo le parti, fino a quando Smith e Murozewa, che si erano sempre rifiutati di parlare con Mugabe, considerandolo un pazzo sanguinario, accettarono di includere anche il partito ZANU alle elezioni del 1980. Sulla base di una campagna elettorale violenta, fatta di intimidazioni e di omicidi politici, del richiamo all’unità etnica della componente shona e di brogli elettorali attestati dalle organizzazioni internazionali indipendenti, Mugabe riporta la vittoria e inizia la sua lunghissima dittatura, che durerà 37 anni. La guerra civile sarà costata 30.000 morti. L’economia nazionale, un tempo florida, è in ginocchio, sia perché la componente più istruita e produttiva, ovvero i bianchi, è in fuga al ritmo di 1.000 persone al mese, sia per l’abbandono dei campi, del bestiame e delle coltivazioni nelle regioni più colpite dalle violenze, che, infine, per le sanzioni economiche internazionali. 

Bush war: famiglia di famers bianchi massacrata barbaramente dalle milizie di Mugabe



Quelli che: basta la sovranità per stampare banconote e tutto è a posto. L'iperinflazione

“Se non ci sono soldi per finanziare il progetto, ebbene stamperemo ulteriore carta moneta”
E’ sulla gestione economica del Paese che però Mugabe diventa un caso di studio, da insegnare a coloro che pensano che, inondando di liquidità l’economia e quindi con la piena sovranità monetaria, si risolvano tutti i problemi. 

Banconota dello Zimbabwe



A dire il vero, Mugabe inizia la sua gestione economica del Paese in modo molto prudente, addirittura cercando di tendere la mano alla minoranza bianca detentrice delle attività produttive nazionali, con un approccio di pacificazione nazionale, per la verità molto di facciata, perché il nuovo regime monopartitico tollera le violenze su agricoltori e piccoli imprenditori anglosassoni e commercianti indiani e bengalesi perpetrate da militanti dello ZANU (ed ovviamente ciò non scoraggerà affatto il flusso di emigrazione di imprenditori e lavoratori ad alta qualificazione di pelle bianca, che proseguirà senza sosta anche negli anni successivi alla guerra civile). Ma già dalle prime fasi, si materializzano alcuni dei timori di Ian Smith circa l’impreparazione degli indigeni nel gestire il Paese. Con una base di potere di tipo etnico-tribale, Mugabe è portato a replicare su scala nazionale i tradizionali meccanismi di regalia che servono per cementare le relazioni interne ai clan. Ma ciò che funziona dentro una tribù tradizionale, portato a livello generale in un intero Paese con una economia capitalistica, va a costituire l’avvio di una enorme spirale corruttiva e nepotistica che finirà per sottrarre ogni tipo di ricchezza allo sviluppo, costruendo una ricchezza immane per pochissimi affiliati alla cerchia di potere. D’altra parte, l’export minerario, che è la principale fonte di valuta estera, va ad ingrassare profitti di multinazionali che non reinvestono sul territorio, mentre la quota destinata allo Stato nelle imprese minerarie miste viene intascata da clientes di Mugabe e dagli apparati di sicurezza, spesso i veri soci occulti degli investitori stranieri.
Ma è a partire dalla fine degli anni Novanta che il circuito economico nazionale inizia ad impazzire. Come già accennato, il regime si lancia in un programma di espansione della spesa militare e sostiene costi enormi per finanziare la fallimentare spedizione in Congo. In una logica di autonomia nazionale, Mugabe non si fa finanziare tali spese da prestiti, ma stampando moneta. La situazione peggiora quando, per motivi demagogici, nel 2000 lancia un programma di esproprio delle residue proprietà terriere in mano ai bianchi per riassegnarle al popolo africano, al grido di “la terra torni ai suoi veri proprietari”. L’esito è disastroso. Le grandi aziende espropriate agli agricoltori bianchi, altamente tecnicizzate e produttive, vengono frazionate in piccoli lotti, nei quali è impossibile applicare la stessa intensità di mezzi tecnici, abbattendo la resa media dei terreni. A peggiorare la situazione, i nuovi assegnatari non sono contadini esperti, ma parassiti di regime e amici degli amici, assolutamente inetti ed incompetenti. Il risultato è che il Paese, fino ad allora perfettamente autosufficiente sotto il profilo alimentare, vede crollare la sua bilancia commerciale agricola. Le coltivazioni di caffè e di frutta, che contribuivano al 40% del valore delle esportazioni, vengono sostituite con agricoltura tradizionale di sussistenza, oppure con l’inutilizzo del terreno.
L’inondazione di liquidità nell’economia per finanziare, senza ricorso al debito, le crescenti spese per i progetti faraonici del regime si va a combinare con il tracollo del saldo di bilancia commerciale, dovuto alla scomparsa dell’export agricolo ed alla esigenza di importare tutto: di conseguenza, il tasso di cambio della valuta nazionale precipita: in un mese e mezzo, fra ottobre e novembre 2008, il dollaro dello Zimbabwe passa da un cambio di 1 a 2 con l’euro, ad uno di 1 a 90.000. ovviamente, l’inflazione importata esplode, combinandosi con l’inflazione da domanda interna generata dall’incremento della spesa pubblica,  annullando il valore della moneta nazionale. Un impiegato pubblico arriva a guadagnare qualcosa come 10 miliardi di dollari dello Zimbabwe al giorno, che, però, al tasso di cambio del mercato valgono meno di un dollaro statunitense e non bastano nemmeno per comprare un etto di pane. Il tasso di inflazione arriva al 231.000.000% nel 2008. Si stampano banconote da 10.000 miliardi.
Il Governo di Mugabe risponde stupidamente, credendo di poter fermare la spirale con i provvedimenti amministrativi. Vengono imposti prezzi fissi per i generi di prima necessità, con la conseguenza che nessun commerciante vuole più venderli, in una situazione in cui tutti gli altri prezzi salgono a ritmi allucinanti. Si sviluppa un florido mercato nero dove le merci vengono barattate fra loro senza più l’intermediazione monetaria, oppure vendute solo a quei pochi fortunati che detengono valuta estera. L’intera filiera alimentare, cui sono stati applicati i prezzi fissi, fallisce, aumentando a dismisura la disoccupazione e la migrazione di disperati dalle campagne alle baraccopoli di Harare, che perde ogni residua sembianza di città occidentale per diventare una orribile e miserrima megalopoli africana.  Si moltiplicano gli episodi di accaparramento di merci per finalità speculative e di vendita sottobanco, a prezzi milioni di volte superiori a quelli fissati dal Governo. L’introduzione di sistemi di indicizzazione dei salari di alcune categorie di cui il Governo ha bisogno per mantenere l’ordine (poliziotti, militari, magistrati, dipendenti pubblici) non fa altro che perpetuare l’espansione incontrollata di liquidità nel sistema, senza peraltro che le categorie interessate percepiscano alcun vantaggio, stante la rapidissima erosione degli incrementi salariali determinata dall’iperinflazione. Il prezzo di un bene può raddoppiare nell’arco della stessa giornata.
Nel 2009, nel tentativo di bloccare il mercato nero, attraverso il quale circolano nell’ombra le valute estere di cui il Governo ha disperatamente bisogno, viene legalizzato il corso di alcune valute straniere, come il rand sudafricano ed il dollaro statunitense, in sostituzione della valuta nazionale, che ormai non vale più niente. Ma il problema, come dire, è a monte. L’economia dello Zimbabwe esporta troppo poco, il turismo non decolla per via della pessima reputazione del Paese e del caos sociale, e lo scellerato progetto legislativo, anch’esso determinato da cecità ideologica e volontà di favorire i propri vassalli, di trasferire forzosamente le aziende a capitale straniero agli indigeni, determina l’azzeramento degli investimenti esteri in ingresso. Semplicemente, lo Zimbabwe non ha sufficiente quantità di valuta estera in ingresso tale da poter alimentare il circuito commerciale interno e da pagare i suoi creditori internazionali (nel frattempo, infatti, il debito pubblico passa dal 20% al 75% del Pil, ed è quasi tutto detenuto da soggetti non residenti). Si manifestano in maniera drammatica i fenomeni di scomparsa dei beni di prima necessità dagli scaffali dei negozi, perché non c’è valuta estera per poterli importare. Solo i pochi fortunati che hanno parenti emigrati che gli spediscono valuta estera eludendo i controlli amministrativi del Governo riescono a procurarsi sul mercato nero i pochi grammi di farina di manioca necessari per sopravvivere. 

Bilancio

Mentre il Governo annaspa accusando gli USA e l’ONU per le sanzioni economiche, Cina ed alcuni Stati africani amici concedono dei prestiti vitali per tenere in piedi la baracca, prestiti che, però, spariscono in buona misura nelle maglie della corruzione, e non riescono a far ripartire gli investimenti. C’è chi stima che il tasso di disoccupazione reale, al di là delle cifre farlocche del Governo, superi il 90%. Il 72% della popolazione vive sotto la linea di povertà assoluta. I creditori internazionali rimasti ristrutturano volontariamente i propri crediti perché il Governo non ha la valuta per pagarli, e quella locale, reintrodotta nel 2019, non ha ovviamente alcun appeal. 
Di fatto, lo Zimbabwe non è in condizione di vero e proprio default, con il suo rapporto debito pubblico/Pil che noi italiani invidieremmo, ma la scelta di monetizzarlo, ed il conseguente crollo del valore reale della moneta, implica che nessuno, se non per motivi meramente politici e di stabilizzazione del Paese, sia disposto a fornire credito aggiuntivo al Governo di Harare. Il che viene ad essere una situazione di default di fatto. Appena è stata reintrodotta la valuta nazionale, nel 2019, l’inflazione ha avuto un balzo in avanti del 176%.
L’apparato di potere e di corruzione si è semplicemente autoriprodotto, cacciando via Mugabe e sostituendolo con il “coccodrillo”, il suo vicepresidente: si stima che con le somme presenti su conti bancari esteri ed appartenenti a membri del clan di Mugabe, si potrebbe azzerare il debito pubblico nazionale. La ricchezza mineraria fluisce via senza lasciare niente sul territorio. Servizi ed infrastrutture sono al tracollo, fuori dalla città le zone rurali sono in piena emergenza alimentare, anche per fenomeni di crescente siccità indotti dal cambiamento climatico: si stima che quasi due milioni e mezzo di persone, specie nelle campagne, stiano per morire di fame.  In città, l’energia elettrica manca per 18 ore al giorno.
I metodi politici non sono cambiati: in occasione delle elezioni del 2019, che hanno consacrato la vittoria del delfino Mnangagwa dopo il golpe del 2017, si sono riscontrate numerose violenze di strada, con una risposta repressiva da parte dell’Esercito e della polizia che ha lasciato a terra decine di morti e ha generato centinaia di arresti arbitrari. Sono stati segnalati i consueti casi di brogli elettorali.
Con Mugabe, si chiude la saga della liberazione nazionale dei Paesi africani e quella del socialismo africano, e nel peggiore dei modi. Quello che, sotto i bianchi di origine anglosassone, era un gioiello economico, è diventato uno dei Paesi più disperati del mondo. Il sogno di Mugabe di indipendenza, sovranità nera e potere indigeno, un sogno inseguito con un misto di autoritarismo sanguinario, corruzione e nepotismo tribale, dirigismo incompetente, ma anche con una notevole carica di utopia, si è schiantato contro le leggi dell’economia e della politica internazionale.

Con Gheddafi