La crescita economica di lungo
periodo è alimentata dalla produttività totale dei fattori, fra cui anche
quella del lavoro. In questi termini, il monte-ore lavorato da ciascuno di noi
e, più in generale, lo stock occupazionale, a parità di evoluzioni
demografiche, tende, nel lungo periodo, a diminuire. Nelle società
tradizionali, era normale che si iniziasse a lavorare, accompagnando il padre
nei campi o nelle prime manifatture, attorno ai 14 anni, per poi non smettere
più per tutto il resto della vita.
Il progresso tecnologico ed
organizzativo ed i suoi riflessi sulla produttività ha ridotto tempi e
necessità di lavoro. Tale riduzione è stata affrontata, a livello sistemico,
prolungando il tempo di vita in cui l’individuo non lavora, o perché studia
(con l’ingresso nel mondo del lavoro che per molti avviene ben oltre i 20 anni)
o perché va in pensione ed accettando la presenza di una disoccupazione
strutturale e permanente (che, nel mondo precapitalistico, era un fenomeno
pressoché inesistente e limitato a sparuti gruppi di marginali, vagabondi o
criminali).
Più di recente, non volendo più
agire su educazione e previdenza, il sistema ha dato alla riduzione del monte
di ore lavorate una risposta in termini di precarizzazione dei rapporti di
lavoro, riducendo l’area del lavoro fisso, per aumentare quella del lavoro strettamente
connesso ad una effettiva esigenza, cancellandolo quando l’esigenza viene a
cessare.
La rivoluzione tecnologica in
atto, caratterizzata dall’integrazione di saperi scientifici diversi
(cibernetica, robotica, meccanica e microelettronica, Ict, digitale, biotech e
nuovi materiali) produrrà una nuova ondata di crescita della produttività,
quindi ridurrà ulteriormente il tempo di lavoro e l’occupazione, prima di
crearne di nuova con i noti meccanismi schumpeteriani (che agiscono nel lungo
periodo) e tale ulteriore riduzione della massa di lavoro non sarà più
affrontabile, se non parzialmente, con ulteriori prolungamenti della fase
inattiva della vita di ciascuno o con ulteriori precarizzazioni che
difficilmente sarebbero sopportabili socialmente e che alla fine, spinte all’estremo,
condurrebbero a lavoratori totalmente sganciati dalla possibilità di acquisire
una conoscenza “job-specific”, cioè formata specificamente sul lavoro da
svolgere in quello specifico posto di lavoro, quindi con effetti negativi sulla
produttività e la competitività.
Occorreranno nuovi meccanismi. Occorrerà un
processo di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro e occorrerà un
reddito di cittadinanza universale ed incondizionato, non legato cioè a
meccanismi di politica attiva del lavoro. In questo articolo mi occuperò di
questo secondo strumento.
Nel loro minuzioso lavoro di
raccolta ed elaborazione statistica di dati su serie storiche lunghissime,
Giattino, Ortiz-Ospina e Roser (2013)
mostrano con chiarezza come il numero di ore lavorate annualmente tenda a
ridursi drammaticamente nell’arco di un secolo e mezzo in tutti i Paesi
sviluppati.
Andamento del numero di ore lavorate per addetto, periodo 1871-2017 in
alcuni Paesi sviluppati
In particolare, il numero medio
di ore lavorate diminuisce al crescere della ricchezza del Paese: i Paesi a più
alto Pil pro capite, quindi con sistemi capitalistici più evoluti e
consolidati, hanno un minor numero di ore di lavoro medie per occupato. Detto
“en passant”: l’Italia è rappresentata dal punticino blu appena a sinistra e
sotto quello giapponese. Lavoriamo molto di più dei nostri colleghi tedeschi,
olandesi, francesi e lussemburghesi. Questo per smentire le affermazioni dei
tanti idioti con posizioni ministeriali o parlamentari che parlano di un Paese
di pelandroni che vivono al di sopra delle loro possibilità.
Relazione fra numero di ore lavorate annualmente per lavoratore e Pil
pro capite nei principali Paesi del mondo
La riduzione del monte ore per
addetto non ha bisogno di grandi spiegazioni: è legata alla straordinaria
crescita della produttività del lavoro indotta dalle innovazioni tecnologiche,
organizzative e di formazione della manodopera generate dalle trasformazioni
dei sistemi socio-economici nel tempo.
Questo andamento delle ore
lavorate per occupato non può non avere riflessi anche sul monte occupazionale
complessivo. In base ai dati elaborati da Robert Feenstra, Robert Inklaar e Marcel P. Timmer (2015)
l’occupazione in Italia, che fra 1950 e 2019 cresce del 28,5%, se depurata
dalla crescita della popolazione, nel medesimo periodo rimane sostanzialmente
immutata, con un lieve decremento (-0,2%). Il tutto a fronte di un incremento
in termini reali del Pil del 1.057% nel medesimo periodo storico!
In altri termini, al netto di
effetti puramente demografici (cioè la crescita della popolazione) il monte
occupazionale non cresce e, anzi, manifesta segnali di riduzione, pur in presenza
di aumenti molto intensi della ricchezza prodotta.
Andamento del numero di occupati lordi e netti (depurati cioè dall’effetto
dell’aumento della popolazione) in Italia fra 1950 e 2019
Fonti: Penn World Tables
Tali considerazioni, proiettate
sul futuro, hanno ricadute molto chiare. Le previsioni di produttività e di
cambiamento del mercato del lavoro, indotte dalla nuova trasformazione
tecnologica imminente, non potranno che generare un ulteriore calo delle ore
lavorate per addetto e dell’occupazione complessiva. Le previsioni di
Unioncamere/Excelsior su un arco di tempo medio (al 2024) stimano, nello
scenario più ottimistico di una espansione economica, una sostanziale
stazionarietà del fabbisogno occupazionale complessivo sul mercato del lavoro
italiano (+0,75% fra 2019 e 2024) e, nello scenario più pessimistico,
addirittura una riduzione (-2,3% nel medesimo periodo, con un calo di quasi
600.000 addetti richiesti).
Guardando più avanti, combinando
le previsioni di lungo periodo formulate dall’Ocse per il Pil reale e quelle
sulla popolazione in età lavorativa dell’Istat, fra 2020 e 2060 la produttività
del lavoro italiana potrebbe aumentare del 102,8%, crescendo in misura lenta
fino al 2030, per poi accelerare nettamente, probabilmente in corrispondenza
con la piena implementazione dei nuovi processi produttivi basati
sull’integrazione fra robotica ed intelligenza artificiale, dopo le prime fasi
di sperimentazione ed introduzione parziale.
Se applichiamo tale trend a ciò
che è avvenuto in passato, notiamo che negli ultimi 40 anni disponibili
statisticamente (1977-2017) nel nostro Paese, ad ogni punto di aumento della
produttività del lavoro è corrisposto un calo del numero di ore annualmente
lavorate per addetto di 0,0577 punti.
Proiettando quindi nel futuro la
produttività del lavoro prevista al 2060, otterremmo un ulteriore calo del
numero di ore lavorate del 5,9%. In termini di occupati equivalenti, parliamo
di circa 10,2 milioni di persone che entro il 2060 non lavoreranno più. Anche
considerando il parallelo calo di popolazione in età da lavoro previsto
dall’Istat entro il 2060, stiamo parlando di un esubero di manodopera di circa
2 milioni di persone.
2 milioni di persone che entro i
prossimi 40 anni saranno presenti nel nostro Paese ma non lavoreranno, una
disoccupazione tecnologica aggiuntiva rispetto a quella già presente
fisiologicamente (che ovviamente non verrà assorbita, stante l’aumento della
produttività di chi già lavora) e che nel 2019, anno pre-Covid, quindi non
influenzato da fattori straordinari, ammontava, fra disoccupati e scoraggiati,
a circa 5,4 milioni di persone.
Detta più brutalmente: nei
prossimi decenni, rischiamo di trovarci innanzi a quasi 8 milioni di italiani
senza lavoro. Certo, poi sono vere anche le considerazioni schumpeteriane sulla
distruzione creatrice: quei 2 milioni di disoccupati tecnologici, nel lungo
periodo, potrebbero essere compensati dalla nascita di nuove figure
professionali legate all’innovazione tecnologica, che potrebbero intaccare
anche la componente non tecnologica della disoccupazione. Però intanto per anni
rimarranno lì, costituendo un problema sociale enorme. Perché 8 milioni di
persone possono significare 5-6 milioni di famiglie, cioè 10-12 milioni di
persone in disagio sociale.
Da questo punto di vista non
appare assolutamente comprensibile l’ostracismo ad un reddito di cittadinanza
di tipo universalistico, incondizionato, non legato cioè a bizzarre alchimie
circa la partecipazione di progetti di reinserimento lavorativo ed a “politiche
attive del lavoro” che nell’esperienza pratica si vanno configurando sempre più
come forme di bricolage creativo di formazione, esperienze on the job, stage e
tirocini, con ricadute stabili sulle vite delle persone molto ridotte. E non
solo nel nostro Paese. Nel grafico seguente, riportato da uno studio valutativo
di Altavilla e Caroleo
(2002) Paesi come Italia, Finlandia, Germania o Francia, pur presentando un
livello alto di spesa per politiche attive del lavoro sul Pil (variabile
ALMP/PIL in ascissa) hanno tassi di disoccupazione comunque elevati, mentre i
Paesi con bassa spesa per politiche attive del lavoro hanno tassi di
disoccupazione molto bassi (Giappone, USA, ecc.). Paesi con sistemi di reddito
di inserimento (cioè un sostegno monetario temporaneo combinato con azioni di
formazione e di inserimento lavorativo obbligatorie per il beneficiario) da
lungo tempo, come il Belgio, si collocano sul quadrante medio-alto del tasso di
disoccupazione, pur con una spesa elevata per politiche attive del lavoro.
Relazione fra tasso di disoccupazione e quota di spesa in politiche
attive del lavoro sul Pil per alcuni Paesi
Fonte: Altavilla-Caroleo
Qui il tema, che renziani e
neoliberisti di vario genere, anche collocati a sinistra, non riescono a
capire, è che occorre un reddito minimo di cittadinanza incondizionato per
questioni di tenuta stessa della coesione sociale. Un futuro in cui la
cittadella di chi ha un lavoro sarà sempre più piccola e circondata da milioni
di persone tagliate fuori dall’accesso all’occupazione, e che non potranno
essere reinserite neanche con politiche attive o redditi di inserimento, non è
sostenibile: sarà luogo a conflitti sociali sempre più acuti, allargamento
della devianza sociale e della criminalità, probabili soluzioni repressive ed
autoritarie. Un futuro da incubo.
Tra l’altro, diversi studi
condotti su schemi di reddito minimo incondizionato mostrano come esso non sia
affatto incompatibile con la creazione di nuovo impiego. Uno studio
pionieristico di Bowles (1992) evidenzia che la sostituzione dei sussidi di disoccupazione
con un reddito incondizionato sia in grado di ridurre il salario di riserva dei
lavoratori, inducendo quindi effetti occupazionali favorevoli. Groot et al.
(1997) dimostrano la stessa cosa, ovvero che un sussidio monetario
incondizionato è compatibile con la crescita occupazionale e economica.
In linea di principio ed in
teoria, un reddito minimo incondizionato, non dipendente quindi dallo status
lavorativo del beneficiario o dal fatto che esso si collochi o meno al di sotto
della soglia di povertà, non esercita alcun effetto sul tasso di rimpiazzo,
cioè sul rapporto fra sussidio percepito e salario medio offerto dal mercato
del lavoro, quindi non genera nessun effetto di azzardo morale e nessuna
trappola della povertà. E’ di fatto uno strumento neutrale rispetto allo stock
occupazionale.
In un quadro più realistico, un
reddito di cittadinanza erogato solo a chi non ha un lavoro ed in presenza di fenomeni
di isteresi della disoccupazione e di rigidità del salario, in condizioni di
concorrenza imperfetta in cui il salario è influenzato dalla produttività del
lavoro e dalla pressione fiscale sull’impresa, l’erogazione di un reddito di
cittadinanza aumenta la domanda aggregata e quindi la domanda di lavoro. In
presenza di salari rigidi perché prestabiliti in anticipo mediante la
contrattazione, si verifica quindi un aumento di occupazione che non genera
pressioni particolari sul salario reale.
Tutt’al più, si possono generare
alcuni “effetti di reddito” (lavoratori che con il reddito di cittadinanza
rifiutano offerte di lavoro) ma questi ovviamente riguardano soltanto i
segmenti più bassi del mercato del lavoro, i lavoratori meno qualificati che
lavorando otterrebbero salari solo di poco superiori al reddito di
cittadinanza, quindi segmenti di lavoratori a bassa specializzazione e che non
contribuiscono all’incremento della produttività e della competitività d’insieme
dell’economia. Gli effetti di reddito tanto declamati dal povero ed ignorante Renzi
(i camerieri di Recco che con il Rdc grillino non sarebbero disposti a
lavorare) sono quindi irrilevanti per la competitività e la crescita
complessiva del sistema, hanno un impatto macroeconomico trascurabile, non impediscono
un aumento complessivo dell’occupazione nel sistema, e, nella misura in cui il
reddito di cittadinanza sostituisca altri sussidi, come quello di
disoccupazione, divenuti inutili, anche l’impatto sulle finanze pubbliche
potrebbe essere neutro.
In conclusione, nel mondo che viene, se si vuole
tenere insieme crescita per la via dell’innovazione tecnologica ed
organizzativa e quindi incremento della produttività e coesione sociale, la
previsione di uno strumento reddituale universalistico ed incondizionato,
sganciato da politiche di inserimento lavorativo, diviene uno strumento non più
evitabile dal dibattito pubblico e non più affrontabile con la retorica dei
pelandroni di una Fornero qualsiasi, ma con strumenti di analisi economica.