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venerdì 26 marzo 2021

Euro-integrazione e destra tedesca: il ruolo della Corte Costituzionale di Karlsruhe

 


Dunque, quanto si paventava da tempo si è realmente avverato: il processo legislativo di approvazione del Next Generation Fund si è arrestato, proprio nel cuore dell’’impero, ovvero in quella Germania che ha di fatto conformato le regole di funzionamento della Bce e dei Trattati. Si è fermato perché la Corte Costituzionale di Karlsruhe ha ordinato al Presidente della Repubblica Federale di non ratificare la legge di approvazione del Recovery Fund, votata a larga maggioranza in Parlamento, nelle more della discussione di un ricorso presentato da Bernd Lucke, economista accademico ed ex membro di Afd (la destra sovranista tedesca).

Lucke contesta che il meccanismo del Recovery Fund produca di fatto un trasferimento di risorse finanziarie dagli Stati più virtuosi (come la Germania) a quelli più indebitati, come il nostro, e che questo trasferimento sia incostituzionale in base alla Legge Fondamentale tedesca. Da un punto di vista strettamente costituzionale, in effetti, Lucke potrebbe avere alcune ragioni da vendere: il meccanismo costituzionale tedesco prevede un limite inderogabile all’indebitamento (il c.d. “debt brake”, che impedisce al Governo federale di superare un disavanzo strutturale dello 0,35% del Pil) ed un limite a risorse prese a prestito, che non possono superare l’ammontare degli investimenti (ovviamente quelli tedeschi, non quelli di altri Paesi).

Naturalmente, però, la questione è strettamente politica: la Corte Costituzionale tedesca ha già dimostrato, con la sentenza del maggio scorso sul vecchio meccanismo di quantitative easing, di pendere verso gli interessi della destra euroscettica del Paese. Questa destra, ben rappresentata nella Confindustria germanica, diffusa, ben oltre Afd, anche fra i liberali e gli accademici (con esponenti come Schaeuble, che con la sua proposta di rating del debito sovrano avrebbe fatto esplodere l’Eurozona in un secondo, Werner Sinn e Lars Feld, entrambi consiglieri economici della Merkel) in fondo ritiene inutile e dannoso, per la Germania, perseguire ulteriori cessioni di sovranità in nome di una costruzione europea sempre meno strategica. L’export tedesco verso gli USA, la Cina e la Gran Bretagna supera di gran lunga quello diretto verso i Paesi dell’area euro, ed in particolare l’export verso i Paesi euromediterranei è diventato trascurabile: l’Italia è solo al settimo posto nella graduatoria delle vendite estere, la Spagna al dodicesimo. In questi termini, dal punto di vista degli industriali e delle loro cerchie di economisti, assumere rischi finanziari crescenti, che possono mettere in discussione il modello competitivo deflazionistico tipico del Paese, è più pericoloso che lasciare che i Paesi mediterranei escano dall’euro, magari con procedure di default pilotato del loro debito pubblico, per minimizzare gli impatti sul sistema finanziario globale. Sinn, in una intervista di quest’estate, ha esplicitamente proposto che l’Italia venisse avviata verso un programma di ristrutturazione del suo debito sotto la regia del Fmi e del club di Parigi.

D’altro canto, la battaglia politica interna alla stessa Germania è oramai al calor bianco. A pochi mesi dal voto politico, i sondaggi sembrano propendere verso la fine del dominio della Cdu/Csu con i suoi alleati liberali, che aveva irretito i socialdemocratici in una gabbia di politiche neoliberiste. Si profila, infatti, la vittoria di una coalizione rosso-verde, composta dai socialdemocratici, guidati dall’attuale Ministro delle Finanze Scholz, insieme ai Verdi. Il programma elettorale proposto da Scholz è molto socialdemocratico, ed inevitabilmente, se venisse messo in atto, scuoterebbe alla radice il modello ordoliberista che la Germania ha voluto imporre a tutti i Paesi europei. Aprirebbe spazi per fare politiche di spesa anche in altri Stati membri. Ridurrebbe i margini di manovra dei falchi dell’austerità, anche in modo involontario, se vogliamo (Scholz non ha infatti mai deviato dalla posizione classica tedesca che vuole il ritorno del Patto di Stabilità dal 2022, ma ovviamente se facesse politiche di spesa dentro il suo Paese, avrebbe ben poca autorità per impedire agli altri di imitarlo).

Cosa succederà, dunque? La Corte Costituzionale tedesca sposa sicuramente posizioni ostili al Recovery Fund e fondamentalmente nazionaliste come quelle della componente euroscettica della destra tedesca. Difficilmente potrà spingersi fino a bloccare completamente il Next Generation Fund, perché considerazioni istituzionali (evitare un conflitto esplicito con il Parlamento che tale fondo ha appena approvato a larghissima maggioranza) e politiche (un recente sondaggio evidenzia che più della metà dei tedeschi è favorevole al Recovery Fund ed a una maggiore solidarietà europea) andranno inevitabilmente a pesare. Però è anche chiaro che i giudici costituzionali di Karlsruhe non potranno smentire la loro linea oramai consolidata e cedere su tutto il fronte. Intanto ci vorranno mesi prima che la sentenza sia emessa, e ciò comporterà inevitabili ritardi nell’erogazione dei fondi, riducendo ulteriormente l’impatto macroeconomico del Recovery Fund, già eccessivamente diluito. E poi è molto probabile che verrà presa di mira la parte di contributi a fondo perduto del Recovery Fund, che configurano nel modo più esplicito un trasferimento diretto di risorse dalla Germania ai Paesi euromediterranei, su cui più facilmente possono attecchire le osservazioni di anticostituzionalità.

Nell’insieme, tutto ciò non potrà che indebolire chi chiede maggiore integrazione europea nel nome della solidarietà e della condivisione dei rischi, superando le regole obsolete del Patto di stabilità e chi, sul fronte interno tedesco, vorrebbe cambiare la direzione delle politiche economiche e sociali, iniziando dall’abolizione degli odiosi provvedimenti Hartz. Draghi, che ha antenne molto attente, ha subito captato l’aria che tirava e forse il suo ultimo discorso parlamentare, per certi versi “sorprendente”, in cui rivaluta il ruolo degli Stati-nazione nei confronti del mercato comune europeo, è una sfida diretta alla destra euroscettica tedesca.

Chi vivrà, vedrà.

 

venerdì 5 marzo 2021

Riduzione del lavoro e reddito di cittadinanza

 



 La crescita economica di lungo periodo è alimentata dalla produttività totale dei fattori, fra cui anche quella del lavoro. In questi termini, il monte-ore lavorato da ciascuno di noi e, più in generale, lo stock occupazionale, a parità di evoluzioni demografiche, tende, nel lungo periodo, a diminuire. Nelle società tradizionali, era normale che si iniziasse a lavorare, accompagnando il padre nei campi o nelle prime manifatture, attorno ai 14 anni, per poi non smettere più per tutto il resto della vita.

Il progresso tecnologico ed organizzativo ed i suoi riflessi sulla produttività ha ridotto tempi e necessità di lavoro. Tale riduzione è stata affrontata, a livello sistemico, prolungando il tempo di vita in cui l’individuo non lavora, o perché studia (con l’ingresso nel mondo del lavoro che per molti avviene ben oltre i 20 anni) o perché va in pensione ed accettando la presenza di una disoccupazione strutturale e permanente (che, nel mondo precapitalistico, era un fenomeno pressoché inesistente e limitato a sparuti gruppi di marginali, vagabondi o criminali).

Più di recente, non volendo più agire su educazione e previdenza, il sistema ha dato alla riduzione del monte di ore lavorate una risposta in termini di precarizzazione dei rapporti di lavoro, riducendo l’area del lavoro fisso, per aumentare quella del lavoro strettamente connesso ad una effettiva esigenza, cancellandolo quando l’esigenza viene a cessare.

La rivoluzione tecnologica in atto, caratterizzata dall’integrazione di saperi scientifici diversi (cibernetica, robotica, meccanica e microelettronica, Ict, digitale, biotech e nuovi materiali) produrrà una nuova ondata di crescita della produttività, quindi ridurrà ulteriormente il tempo di lavoro e l’occupazione, prima di crearne di nuova con i noti meccanismi schumpeteriani (che agiscono nel lungo periodo) e tale ulteriore riduzione della massa di lavoro non sarà più affrontabile, se non parzialmente, con ulteriori prolungamenti della fase inattiva della vita di ciascuno o con ulteriori precarizzazioni che difficilmente sarebbero sopportabili socialmente e che alla fine, spinte all’estremo, condurrebbero a lavoratori totalmente sganciati dalla possibilità di acquisire una conoscenza “job-specific”, cioè formata specificamente sul lavoro da svolgere in quello specifico posto di lavoro, quindi con effetti negativi sulla produttività e la competitività.

 Occorreranno nuovi meccanismi. Occorrerà un processo di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro e occorrerà un reddito di cittadinanza universale ed incondizionato, non legato cioè a meccanismi di politica attiva del lavoro. In questo articolo mi occuperò di questo secondo strumento.

Nel loro minuzioso lavoro di raccolta ed elaborazione statistica di dati su serie storiche lunghissime, Giattino, Ortiz-Ospina e Roser (2013)[1] mostrano con chiarezza come il numero di ore lavorate annualmente tenda a ridursi drammaticamente nell’arco di un secolo e mezzo in tutti i Paesi sviluppati.

 Andamento del numero di ore lavorate per addetto, periodo 1871-2017 in alcuni Paesi sviluppati


In particolare, il numero medio di ore lavorate diminuisce al crescere della ricchezza del Paese: i Paesi a più alto Pil pro capite, quindi con sistemi capitalistici più evoluti e consolidati, hanno un minor numero di ore di lavoro medie per occupato. Detto “en passant”: l’Italia è rappresentata dal punticino blu appena a sinistra e sotto quello giapponese. Lavoriamo molto di più dei nostri colleghi tedeschi, olandesi, francesi e lussemburghesi. Questo per smentire le affermazioni dei tanti idioti con posizioni ministeriali o parlamentari che parlano di un Paese di pelandroni che vivono al di sopra delle loro possibilità.

 Relazione fra numero di ore lavorate annualmente per lavoratore e Pil pro capite nei principali Paesi del mondo



La riduzione del monte ore per addetto non ha bisogno di grandi spiegazioni: è legata alla straordinaria crescita della produttività del lavoro indotta dalle innovazioni tecnologiche, organizzative e di formazione della manodopera generate dalle trasformazioni dei sistemi socio-economici nel tempo.

Questo andamento delle ore lavorate per occupato non può non avere riflessi anche sul monte occupazionale complessivo. In base ai dati elaborati da Robert Feenstra, Robert Inklaar e Marcel P. Timmer (2015)[2] l’occupazione in Italia, che fra 1950 e 2019 cresce del 28,5%, se depurata dalla crescita della popolazione, nel medesimo periodo rimane sostanzialmente immutata, con un lieve decremento (-0,2%). Il tutto a fronte di un incremento in termini reali del Pil del 1.057% nel medesimo periodo storico!

In altri termini, al netto di effetti puramente demografici (cioè la crescita della popolazione) il monte occupazionale non cresce e, anzi, manifesta segnali di riduzione, pur in presenza di aumenti molto intensi della ricchezza prodotta.

 Andamento del numero di occupati lordi e netti (depurati cioè dall’effetto dell’aumento della popolazione) in Italia fra 1950 e 2019

Fonti: Penn World Tables

Tali considerazioni, proiettate sul futuro, hanno ricadute molto chiare. Le previsioni di produttività e di cambiamento del mercato del lavoro, indotte dalla nuova trasformazione tecnologica imminente, non potranno che generare un ulteriore calo delle ore lavorate per addetto e dell’occupazione complessiva. Le previsioni di Unioncamere/Excelsior su un arco di tempo medio (al 2024) stimano, nello scenario più ottimistico di una espansione economica, una sostanziale stazionarietà del fabbisogno occupazionale complessivo sul mercato del lavoro italiano (+0,75% fra 2019 e 2024) e, nello scenario più pessimistico, addirittura una riduzione (-2,3% nel medesimo periodo, con un calo di quasi 600.000 addetti richiesti).

Guardando più avanti, combinando le previsioni di lungo periodo formulate dall’Ocse per il Pil reale e quelle sulla popolazione in età lavorativa dell’Istat, fra 2020 e 2060 la produttività del lavoro italiana potrebbe aumentare del 102,8%, crescendo in misura lenta fino al 2030, per poi accelerare nettamente, probabilmente in corrispondenza con la piena implementazione dei nuovi processi produttivi basati sull’integrazione fra robotica ed intelligenza artificiale, dopo le prime fasi di sperimentazione ed introduzione parziale.

Se applichiamo tale trend a ciò che è avvenuto in passato, notiamo che negli ultimi 40 anni disponibili statisticamente (1977-2017) nel nostro Paese, ad ogni punto di aumento della produttività del lavoro è corrisposto un calo del numero di ore annualmente lavorate per addetto di 0,0577 punti.

Proiettando quindi nel futuro la produttività del lavoro prevista al 2060, otterremmo un ulteriore calo del numero di ore lavorate del 5,9%. In termini di occupati equivalenti, parliamo di circa 10,2 milioni di persone che entro il 2060 non lavoreranno più. Anche considerando il parallelo calo di popolazione in età da lavoro previsto dall’Istat entro il 2060, stiamo parlando di un esubero di manodopera di circa 2 milioni di persone.

2 milioni di persone che entro i prossimi 40 anni saranno presenti nel nostro Paese ma non lavoreranno, una disoccupazione tecnologica aggiuntiva rispetto a quella già presente fisiologicamente (che ovviamente non verrà assorbita, stante l’aumento della produttività di chi già lavora) e che nel 2019, anno pre-Covid, quindi non influenzato da fattori straordinari, ammontava, fra disoccupati e scoraggiati, a circa 5,4 milioni di persone.

Detta più brutalmente: nei prossimi decenni, rischiamo di trovarci innanzi a quasi 8 milioni di italiani senza lavoro. Certo, poi sono vere anche le considerazioni schumpeteriane sulla distruzione creatrice: quei 2 milioni di disoccupati tecnologici, nel lungo periodo, potrebbero essere compensati dalla nascita di nuove figure professionali legate all’innovazione tecnologica, che potrebbero intaccare anche la componente non tecnologica della disoccupazione. Però intanto per anni rimarranno lì, costituendo un problema sociale enorme. Perché 8 milioni di persone possono significare 5-6 milioni di famiglie, cioè 10-12 milioni di persone in disagio sociale.

Da questo punto di vista non appare assolutamente comprensibile l’ostracismo ad un reddito di cittadinanza di tipo universalistico, incondizionato, non legato cioè a bizzarre alchimie circa la partecipazione di progetti di reinserimento lavorativo ed a “politiche attive del lavoro” che nell’esperienza pratica si vanno configurando sempre più come forme di bricolage creativo di formazione, esperienze on the job, stage e tirocini, con ricadute stabili sulle vite delle persone molto ridotte. E non solo nel nostro Paese. Nel grafico seguente, riportato da uno studio valutativo di Altavilla e Caroleo[3] (2002) Paesi come Italia, Finlandia, Germania o Francia, pur presentando un livello alto di spesa per politiche attive del lavoro sul Pil (variabile ALMP/PIL in ascissa) hanno tassi di disoccupazione comunque elevati, mentre i Paesi con bassa spesa per politiche attive del lavoro hanno tassi di disoccupazione molto bassi (Giappone, USA, ecc.). Paesi con sistemi di reddito di inserimento (cioè un sostegno monetario temporaneo combinato con azioni di formazione e di inserimento lavorativo obbligatorie per il beneficiario) da lungo tempo, come il Belgio, si collocano sul quadrante medio-alto del tasso di disoccupazione, pur con una spesa elevata per politiche attive del lavoro.

Relazione fra tasso di disoccupazione e quota di spesa in politiche attive del lavoro sul Pil per alcuni Paesi

Fonte: Altavilla-Caroleo

Qui il tema, che renziani e neoliberisti di vario genere, anche collocati a sinistra, non riescono a capire, è che occorre un reddito minimo di cittadinanza incondizionato per questioni di tenuta stessa della coesione sociale. Un futuro in cui la cittadella di chi ha un lavoro sarà sempre più piccola e circondata da milioni di persone tagliate fuori dall’accesso all’occupazione, e che non potranno essere reinserite neanche con politiche attive o redditi di inserimento, non è sostenibile: sarà luogo a conflitti sociali sempre più acuti, allargamento della devianza sociale e della criminalità, probabili soluzioni repressive ed autoritarie. Un futuro da incubo.

Tra l’altro, diversi studi condotti su schemi di reddito minimo incondizionato mostrano come esso non sia affatto incompatibile con la creazione di nuovo impiego. Uno studio pionieristico di Bowles (1992) evidenzia che la sostituzione dei sussidi di disoccupazione con un reddito incondizionato sia in grado di ridurre il salario di riserva dei lavoratori, inducendo quindi effetti occupazionali favorevoli. Groot et al. (1997) dimostrano la stessa cosa, ovvero che un sussidio monetario incondizionato è compatibile con la crescita occupazionale e economica.

In linea di principio ed in teoria, un reddito minimo incondizionato, non dipendente quindi dallo status lavorativo del beneficiario o dal fatto che esso si collochi o meno al di sotto della soglia di povertà, non esercita alcun effetto sul tasso di rimpiazzo, cioè sul rapporto fra sussidio percepito e salario medio offerto dal mercato del lavoro, quindi non genera nessun effetto di azzardo morale e nessuna trappola della povertà. E’ di fatto uno strumento neutrale rispetto allo stock occupazionale.

In un quadro più realistico, un reddito di cittadinanza erogato solo a chi non ha un lavoro ed in presenza di fenomeni di isteresi della disoccupazione e di rigidità del salario, in condizioni di concorrenza imperfetta in cui il salario è influenzato dalla produttività del lavoro e dalla pressione fiscale sull’impresa, l’erogazione di un reddito di cittadinanza aumenta la domanda aggregata e quindi la domanda di lavoro. In presenza di salari rigidi perché prestabiliti in anticipo mediante la contrattazione, si verifica quindi un aumento di occupazione che non genera pressioni particolari sul salario reale.

Tutt’al più, si possono generare alcuni “effetti di reddito” (lavoratori che con il reddito di cittadinanza rifiutano offerte di lavoro) ma questi ovviamente riguardano soltanto i segmenti più bassi del mercato del lavoro, i lavoratori meno qualificati che lavorando otterrebbero salari solo di poco superiori al reddito di cittadinanza, quindi segmenti di lavoratori a bassa specializzazione e che non contribuiscono all’incremento della produttività e della competitività d’insieme dell’economia. Gli effetti di reddito tanto declamati dal povero ed ignorante Renzi (i camerieri di Recco che con il Rdc grillino non sarebbero disposti a lavorare) sono quindi irrilevanti per la competitività e la crescita complessiva del sistema, hanno un impatto macroeconomico trascurabile, non impediscono un aumento complessivo dell’occupazione nel sistema, e, nella misura in cui il reddito di cittadinanza sostituisca altri sussidi, come quello di disoccupazione, divenuti inutili, anche l’impatto sulle finanze pubbliche potrebbe essere neutro.

In conclusione, nel mondo che viene, se si vuole tenere insieme crescita per la via dell’innovazione tecnologica ed organizzativa e quindi incremento della produttività e coesione sociale, la previsione di uno strumento reddituale universalistico ed incondizionato, sganciato da politiche di inserimento lavorativo, diviene uno strumento non più evitabile dal dibattito pubblico e non più affrontabile con la retorica dei pelandroni di una Fornero qualsiasi, ma con strumenti di analisi economica.



[1] "Working Hours". pubblicato online at OurWorldInData.org

[2] The Next Generation of Penn World Table, American Economic Review, 105(10)

[3] “Evaluating Active Labour Policies in Italy: A Regional Analysis”, paper presentato alla XIX National Conference of Labour Economics