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sabato 9 ottobre 2021

L'astensionismo alle ultime elezioni amministrative: una analisi più da vicino

 


La tornata di voto amministrativo, significativa numericamente perché coinvolgeva circa un quarto dell’intero corpo elettorale nazionale, è stata dominata dall’astensionismo. Questo è probabilmente il dato più significativo di tutti. A votare è andato il 54,7% degli elettori, con un calo di quasi 7 punti rispetto alle precedenti amministrative.

L’analisi interna dell’astensionismo è fondamentale, oramai, perché tale fenomeno ha una incidenza molto importante nel determinare gli esiti finali di un voto, ed anche per segnalare lo stato di salute di una democrazia. Va premesso, peraltro, che tale fenomeno, per la sua liquidità e soggettività, in parte basata su considerazioni emotive o non del tutto razionali, rifugge da qualsiasi codificazione rigida dei motivi ed andrebbe analizzato in modo puntuale per ogni tornata elettorale (l’astensionismo alle politiche può avere un significato diverso da quello delle amministrative), per ogni territorio (probabilmente l’astensionismo al Sud ha motivazioni parzialmente diverse da quello del Centro Nord) e per ogni tipo di area (non sono identici i motivi dell’astensionismo nelle grandi città – ed all’interno di queste fra i centri gentrificati e le periferie più estreme – e nelle aree periurbane e rurali).

In altri termini, il fenomeno va analizzato per quello che è nell’hic et nunc, e non con categorie analitiche utilizzate in precedenti tornate elettorali, oppure, peggio ancora, con la lente deformante dei nostri desideri. Mi riferisco in particolare ad un bizzarro editoriale sul Corriere della Sera a firma di Polito – peraltro analista politico molto acuto, in altre circostanze – in cui il Nostro, mosso dal pio desiderio di portare un soccorso (peraltro inutile) al già fortissimo Governo Draghi, evince dall’elevato astensionismo un misterioso e non riscontrabile clima di “tregua nazionale”, in cui gli elettori, lasciate a casa le rabbie antisistema dei tempi giacobini del M5s e dei tempi sovranisti della destra, avrebbero deciso di restare a casa perché non avvertono, in una politica commissariata dai tecnici alla Draghi, l’esigenza di esprimere un parere su visioni alternative del mondo, che peraltro i partiti non sono in grado di fornire.

Ora, a parte il fatto che parlare di un clima di “calma piatta”, per cui gli elettori avrebbero segnalato che “non è il tempo della protesta”, è una palese, e direi anche psicologicamente preoccupante, dissociazione dalla realtà del Paese, attraversato da correnti multicolori di protesta (dai no green-pass alle ben più serie proteste dei lavoratori delle fabbriche in chiusura), la considerazione di Polito potrebbe avere un qualche minimo rilievo se stessimo parlando di elezioni politiche nazionali. Alle amministrative ci si concentra sulle proposte per il proprio Comune, quindi su un elenco di progetti di natura prevalentemente amministrativa, più che politica. Il voto è mosso più dalle proposte su dove disegnare le strisce blu dei parcheggi che da considerazioni “macro” sulla capacità dei partiti di rappresentare interessi sociali generali.

E però…però…una parte di ragione Polito ce l’ha, quando afferma che “molti italiani mostrano poco interesse per la gara dei partiti, perché la reputano irrilevante rispetto alle cose che contano”. Guardiamo il fenomeno in modo oggettivo, curiosando dentro i primi dati sui flussi e le motivazioni di voto provenienti dalle prime elaborazioni, purtroppo ancora limitate alle grandi città (in particolare Milano, Bologna e Napoli, i dati su Roma sono ancora parzialmente latenti). Manca quindi la foto dell’Italia profonda, del reticolo di piccole e medie città che costituisce, forse più delle grandi aree metropolitane, la radice del nostro Paese, mancano, inoltre, le cosiddette “aree interne”, montane e rurali, che però in alcune delle regioni della dorsale appenninica, specie quelle del Sud, hanno un peso elettorale importante, nonostante lo spopolamento e la marginalizzazione.

Con questo limite metodologico non indifferente, concentrandoci sul voto metropolitano (che però è spesso anche il più informato, almeno mediaticamente) notiamo come il grande serbatoio dell’astensionismo, tradizionalmente collocato a Sud (ancora a queste elezioni, le regionali calabresi vedono una partecipazione di appena il 44,4%), l’astensionismo attacchi i grandi centri urbani, anche del nord. La partecipazione al voto nelle città di Torino, Milano, Roma e Napoli è stata, in termini aggregati, del 48% appena, a Bologna è scesa fino al 35%, tutto nettamente sotto la media nazionale del 54,7%. Regioni tradizionalmente considerate affette dall’astensionismo, come la Basilicata o la Campania, hanno messo a segno percentuali, rispettivamente, del 58,5% e del 58,1%, inferiori ai dati della precedente tornata ma superiori alla media nazionale. Il Molise, tipica regione “interna”, ha messo a segno un 58,4%.

Possiamo già qui scardinare un luogo comune, ovvero quello per cui le aree extraurbane hanno un grado di partecipazione politica necessariamente inferiore a quello delle aree urbane, dove esiste un elettorato più consapevole e più inserito nelle dinamiche amministrative e di governo. Questo non è sempre vero e dipende dalla natura di chi, volta per volta, si astiene (dipende anche dalla presenza o assenza di fenomeni di voto di scambio e consociativismo a livello locale, che a volte “gonfiano” artificialmente il voto).

Stavolta si è astenuto, perlopiù, un elettorato urbano, il più delle volte residente nelle periferie o nei quartieri in degrado. Vero è che a Bologna, in periferie come Borgo Panigale, si sono avuti dati di affluenza più alti. Però a Roma si è determinato un più “classico” differenziale fra quartieri benestanti (Parioli, Roma nord) che hanno votato in modo più diffuso, e periferie in degrado, specie della zona est o anche Ostia. Analogo risultato si è avuto a Napoli: al Vomero vota il 40% degli elettori, a Poggioreale-Zona Industriale o a Secondigliano e Scampia votano fra il 30 ed il 35% degli aventi diritto. A Milano, al netto dell’anomalia relativa al centro storico, si vota di più nella benestante e centrale zona di via Buenos Aires-San Vittore che in quella del Forlanini-Ponte Lambro e del Corvetto, e meno ancora si è votato nella zona Barona-Gratosoglio-Primaticcio, fra le meno prospere della città in termini di reddito medio pro capite (fonte Youtrend).

Questi dati scardinano del tutto il postulato di Polito: se dovessimo dargli retta, i quartieri più arrabbiati sarebbero quelli centrali e benestanti, mentre le periferie in degrado sarebbero pacificate. Ovviamente non ha senso, mentre ha senso dire che, quando si vota per il Comune, la disaffezione elettorale, un po' come i fenomeni di inurbamento dei Paesi poveri, si trasferisce dalle campagne alle città, fermandosi nelle periferie scassate. Questo perché, mentre i centri medio-piccoli sono relativamente più facili da amministrare ed il rapporto fra sindaco e cittadini è più diretto, nelle sterminate periferie dei grandi centri urbani il senso di abbandono delle istituzioni alimenta una maggiore disaffezione elettorale.

La composizione sociale e culturale non può che seguire la geografia urbana: secondo le prime elaborazioni di Swg, infatti, a Torino il 66% del voto operaio è andato in astensionismo. A Milano, il 67% degli elettori a bassa scolarità è rimasto a casa. Analoga percentuale (64%) per gli elettori di bassa scolarità romani e per quelli napoletani (65%). A Trieste ha rinunciato al voto il 47% degli operai ed il 71% dei disoccupati. Tra l’altro, in tali categorie, fra chi è andato a votare ha prevalso quasi sempre la scelta per il candidato di destra.

Continuando nell’analisi del voto delle grandi aree urbane, vediamo altre cose che appaiono evidenti. Come appare dai dati elaborati da Youtrend, a Torino e Milano l’astensionismo crescente è alimentato in primo luogo da elettori del M5s, in secondo luogo da elettori di centrodestra, leghisti e dei FdI. A Napoli, il flusso crescente di rifiuto del voto è alimentato in primo luogo da elettori di centrodestra, ed in secondo luogo, e ciò costituisce una specificità locale, da voto in uscita da De Magistris, quindi da un elettorato tendenzialmente di sinistra radicale che non ha trovato più un suo candidato e non ha voluto sostenere il centrista Manfredi, proposto dal Pd. Anche a Bologna c’è una particolarità: l’aumento dell’astensionismo è, sì, collegato in primo luogo al M5s (4,2% punti in più) ma, in seconda posizione, vi è astensionismo in uscita dal Pd (2,3% punti di maggior astensionismo) che supera quello in uscita dalla destra (0,8 punti in più). Ciò è l’effetto, molto probabilmente, di un esito elettorale assolutamente scontato, che ha indotto elettori piddini a restare a casa (anche perché a Bologna era periodo di ponte per via della festa patronale).

Nella sostanza, tirando le somme di questi dati, l’astensionismo alle recenti amministrative appare essere un fenomeno perlopiù metropolitano, concentrato soprattutto nelle periferie del disagio sociale, fra i ceti sociali “sconfitti” dalla ristrutturazione liberista di questi anni, allegramente proseguita con l’idea a-scientifica e pseudo-schumpeteriana di Draghi della ristrutturazione “creatrice” dei settori produttivi. Da un punto di vista più strettamente politico, è il frutto della delusione per idee di alternativa sociale propugnate dal M5s delle origini e dalla Lega nella sua fase sovranista e populista (e a Napoli dalla presunta “rivoluzione arancione” di De Magistris, mai comparsa all’orizzonte), oramai collassate nella versione draghiana del “there is no alternative”.

Va aggiunto, peraltro, che se viene meno una proposta di alternativa allo stato di cose esistente ed i partiti finiscono per proporre piccole alternative adattive ad una linea comune (e qui concordo con Polito) allora le organizzazioni partitiche che dovrebbero sostenere una idea diversa del mondo vengono abbandonate. Il degrado delle organizzazioni partitiche, a sua volta, determina maggior astensionismo perché viene meno una struttura organizzativa radicata sul territorio che porti gli elettori a votare (non a caso, l’astensionismo più forte è fra ex elettori del M5s e della Lega che, in tutto il Paese nel primo caso e nel Centro Sud nel secondo, hanno un radicamento territoriale meno forte, quindi minori capacità di fidelizzazione dell’elettorato).

A quel punto la differenza la fa, in un paradosso aberrante, la figura del leader: infatti, secondo la rilevazione Demopolis, il 60% degli elettori delle 4 aree urbane principali ha scelto il candidato non per appartenenza partitica o di campo, ma per la sua identità personale. Solo un residuo 14% ha scelto il partito a prescindere dal candidato che presentava (ciò spiega tra l’altro il successo di Calenda, privo di qualsiasi struttura partitica che lo supportasse). Il paradosso è aberrante perché tale orientamento degli elettori, tipicamente populista, è stato facilitato proprio da quelle parti politiche che, a parole, hanno sempre combattuto il populismo, ma che poi hanno contribuito, ad esempio tramite la glorificazione del leader o l’abolizione del finanziamento pubblico, a demolire i partiti. Adesso siamo ipso facto in una condizione di populismo strutturale.

Alle politiche si giocherà una partita diversa, ovviamente. Il M5s, che più ha contribuito all’aumento dell’astensionismo su base territoriale, potrebbe recuperarne una parte non indifferente su scala nazionale. Lega e centrodestra usciranno dall’attuale fase di riorganizzazione e di stallo, e probabilmente saranno in grado di rafforzare la loro proposta fra il sottoproletariato urbano ed i ceti popolari abbandonati dalla sinistra, recuperando altre quote di astensionismo. Avremo una riduzione di questo bacino, ed un parziale cambiamento del suo colore. È possibile che esso verrà alimentato maggiormente da elettorato centrista e moderato, non ritrovatosi nel governo di Draghi e nelle proposte che verranno fatte dai due schieramenti in gioco (Calenda e Renzi sono meteore, a vario titolo, Forza Italia si sta sgretolando sotto il declino fisico del suo fondatore) e, in misura molto minore, da elettori di sinistra radicale che abbandoneranno, almeno in parte, le proposte fake di LeU, Sinistra Italiana e frattaglie varie, o da elettorato di sinistra attualmente dentro M5s che sarà deluso dall’inevitabile svolta centrista e moderata che Conte imprimerà al movimento.