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sabato 23 aprile 2022

Il DEF delle meraviglie

 



Il Governo incassa, come prevedibile, l’approvazione di un Def 2022 basato su ipotesi macroeconomiche, e quindi previsioni tendenziali e programmatiche, piuttosto fuori dalla realtà. In un documento che sembra una favola per bimbi, si stima un andamento della crescita tendenziale (cioè a politiche invariate[1]) pari al 2,9% nel 2022, al 2,3% nel 2023 ed all’1,8% nel 2024, con il Pil 2025 che dovrebbe poi attestarsi su quella che, con la metodologia dell’output gap, è considerata la crescita potenziale dell’economia italiana, ovvero l’1,4%, nel 2025 8con ciò ammettendo implicitamente che la spesa del Pnrr non produrrà alcun “salto” strutturale della crescita italiana verso livelli più alti, ma solo la difesa della crescita possibile attuale).

Mentre il crollo della produzione industriale nel primo trimestre ci avvia sulla strada di una imminente recessione tecnica, il Fmi inizia già a correggere il tiro delle previsioni governative: il Pil italiano del 2022 non crescerà oltre il 2,3%, ovvero 0,6 punti in meno rispetto alla stima del Mef, e la crescita sarà dell’1,7% nel 2023, anche in questo caso 0,6 punti sotto la stima del Governo. Il tutto in uno scenario in cui la guerra in Ucraina si fermi nei prossimi mesi facendo calare significativamente i prezzi dell’energia, non vi siano recrudescenza pandemiche e le politiche monetarie restino su un sentiero moderatamente espansivo dal lato dei tassi di interesse. Cioè se si verificherà uno scenario surreale. Diversamente, le stime saranno necessariamente ancora più basse.

Evidentemente, con le cifre di quadro macroeconomico sbagliate, il dato tendenziale del disavanzo rispetto al Pil esposto dal Def è privo di fondamento: il governo prevede una crescita che non ci sarà, in grado di far scendere il disavanzo tendenziale dal 5,1% del Pil nel 2022 al 2,5% nel 2025, pur conservando un “tesoretto” pari a mezzo punto di Pil da destinare a misure espansive nel corso di quest’anno.

Molto più affidabilmente, per effetti legati alla minore crescita rispetto alla previsione e per i conseguenti effetti indotti della minor crescita sui conti pubblici, ci troveremo, nel 2022, con un deficit/Pil (tendenziale) attorno al 6% del Pil (comunque in discesa dal 7,2% del 2021) ed un debito/Pil (tendenziale) del 148-149% del Pil, rispetto al 150,8% del 2021.

Se poi nel 2023, insieme all’abbandono da parte della Bce del programma Pepp a sostegno del servizio del debito, dovesse essere ripristinato il Patto di Stabilità “as it is” (ma non c’è troppo da preoccuparsi: persino i falchi olandesi stanno cedendo ad una ipotesi di rinvio per tutto il 2023 e la Yellen, proprio ieri, in cambio dell’aiuto italiano al massacro ucraino, ha detto che dal punto di vista suo e del vecchio zio Joe il Patto di Stabilità va rivisto per rendere più flessibili le possibilità di fare investimenti) l’Italia andrebbe dritta al default.

Anche perché lo scenario di debito pubblico da mancanza di gas stimato dal Def, qualora Putin si seccasse delle nostre continue donazioni di armi agli ucraini, farebbe schizzare il debito pubblico al 152,6% del Pil nel 2023 (più affidabilmente il 153-154% considerando i sopra rammentati errori nelle previsioni del Pil), cioè un livello analogo a quello dell’anno della pandemia. E’ chiaro che i mercati finanziari trarrebbero le loro conseguenze da un livello di debito/Pil che non scende nemmeno con il rimbalzo del ciclo del 2021/2022.

Ma come detto, non preoccupiamoci troppo. A costo di dolorose riforme strutturali, lo stellone si salverà nuovamente. Vediamo invece gli obiettivi di policy, cioè la componente programmatica del Def. Il “tesoretto” per il 2022, guadagnato grazie ad una crescita di fine 2021 superiore alle attese, e pari a mezzo punto di Pil, dovrebbe essere destinato ad interventi urgenti (ed a impatto zero sul bilancio, poiché derivanti dall’extracrescita del 2021) per il sostegno a famiglie ed imprese alle prese con il caro-energia. Nel primo semestre, sono stati adottati interventi per 14,7 a sostegno delle imprese energivore e del settore dell’autotrasporto. Si aggiungono ulteriori interventi in favore di specifiche categorie (contributi a fondo perduto e sostegno della liquidità delle imprese), quelli per coprire parte dei costi di Regioni ed enti locali e quelli per il settore della sanità (nel complesso, per ulteriori 4,1 miliardi nel 2022). Il tutto basterebbe a coprire, come ammette lo stesso Governo, solo un quarto della maggiore bolletta energetica di imprese e famiglie, con il che, evidentemente, si rileva che senza uno scostamento di bilancio per ulteriori 45-50 miliardi, la sportiva partecipazione al disastro ucraino costerà migliaia di imprese in fallimento ed un ulteriore aumento del trend della povertà. A fronte di ciò, si prevede un modesto intervento urgente (da attuarsi ad aprile) pari a mezzo punto di Pil, ovvero 9,4 miliardi, poi scesi ad 8 nel recentissimo dl appena approvato, lontanissimi cioè dal fabbisogno reale dell’economia, per il sostegno alle bollette elettriche ed al settore energivoro, il rifinanziamento delle garanzie alle imprese ed alcune misure di carattere sanitario.

Quello che invece esiste nelle ipotesi programmatiche del Def è quanto segue:

-         Un rallentamento della crescita nominale della spesa pubblica di parte corrente a partire dal 2022, che si attesterà a +3%, a fronte del +5,1% del 2021, il che in termini reali, considerando un deflatore programmatico del 3%, significa una crescita nulla della spesa corrente per il 2022 ed una riduzione (cioè un nuovo ciclo di austerity) di circa 20 miliardi a partire dal 2023, a fronte di aumenti di spesa in conto capitale, per investimenti fissi lordi, per circa 10 miliardi reali nel solo 2022 (al netto dell’inflazione) e di ulteriori 15-20 miliardi circa nel 2023, anche grazie al Pnrr;

-     Una pressione fiscale sostanzialmente immutata al di sopra del 43% del Pil, nonostante la riforma fiscale (ancora in discussione parlamentare, peraltro), che a regime avrebbe un effetto limitato, di circa 0,4 punti di Pil, su tale parametro, che rimane ancora fra i più alti del mondo occidentale;

-         Spese welfaristiche strutturali in riduzione rispetto al Pil, anche se ovviamente in aumento in termini di valori assoluti: la spesa sanitaria passerebbe, entro il 2025, dal 6,5-7% del Pil degli anni pre-Covid al 6,2%, con un aumento annuale del suo valore assoluto reale di circa 1,1 punti (dando ovviamente per buone le trionfalistiche previsioni sulla crescita del Pil formulate dal Governo). Parimenti, la spesa per istruzione passerebbe dal 4% del Pil nel 2020 al 3,5% al 2025, con un incremento di spesa reale dello 0,7% all’anno. La spesa previdenziale, infine, passerebbe dal 17% del Pil al 2020 al 16,1% nel 2025, con un incremento di spesa reale di 1,3 punti all’anno (come effetto, da un lato, di maggiori pensionamenti anticipati legati alle code di “quota 100” e “quota 102” e dall’altro di una crescita delle indicizzazioni delle pensioni vigenti). Naturalmente, è appena il caso di precisare che, se anche le spese sociali, dell'istruzione e sanitarie crescono in valore assoluto, la loro riduzione in termini di incidenza sul Pil segnala scelte redistributive della nuova ricchezza creata di tipo regressivo;

-      Grazie al cielo, i proventi da privatizzazione sono considerati pari a zero nel triennio, quindi si spera che il Governo non intenda procedere nelle sue intenzioni di privatizzare pezzi di industria militare come Oto Melara.  

Su tutto questo, si è abbattuta una mozione di maggioranza, in sede di approvazione parlamentare del Def, che dovrebbe impegnare il governo ad un eventuale scostamento di bilancio ulteriore nel 2022, utilizzando “gli spazi derivanti dalla manovra (che per gli errori nelle previsioni troppo ottimistiche del Pil non ci saranno, ndr) per nuove iniziative espansive disponendo ulteriori interventi per contenere l’aumento dei prezzi dell’energia nonchè mediante la revisione del sistema dei prezzi di riferimento e dei carburanti, assicurando la necessaria liquidità alle imprese mediante la concessione di garanzie”. Tale risoluzione prevede anche alcuni interventi specifici (la proroga del superbonus alle villette, l’ampliamento del bonus sociale, la prosecuzione degli esoneri contributivi per donne e giovani neoassunti.

E’ naturalmente del tutto futile dire che tale mozione di maggioranza, essendo impegnativa solo sotto il profilo politico e morale, non verrà implementata dal Governo, che era contrario, anche perché, per l’appunto, non ci sono margini finanziari, per cui resterà l’impianto di un Def francamente anche difficile da interpretare, perché basato su un quadro macroeconomico ottimistico e farlocco, che però dal 2023, a prescindere da qualsiasi dibattito sul Patto di Stabilità, reintrodurrà forme di austerità sulla spesa corrente e di riduzione del debito, anche se, per fortuna, ed almeno in termini previsionali, la spesa in istruzione e sanità continuerà a crescere in valore assoluto (la riduzione dell’incidenza sul Pil si applica su un Pil di dimensioni maggiori), insieme agli investimenti fissi lordi, alimentati dal Pnrr.

Va infatti evidenziato che le linee-guida della Commissione Europea per il 2023, che sono state scritte a prescindere da quello che sarà il destino del Patto di Stabilità, e che valgono anche nell’ipotesi, più che probabile, di un suo ulteriore congelamento, stabiliscono che occorre:

i)      assicurare il coordinamento a livello europeo e realizzare un mix coerente di politiche tale da rispettare le esigenze di sostenibilità e quelle di stabilizzazione

ii)    garantire la sostenibilità del debito pubblico attraverso un aggiustamento di bilancio graduale, attento alla qualità della finanza pubblica ed alla crescita economica;

iii)  promuovere gli investimenti e la crescita sostenibile, dando priorità alla transizione verde e digitale.

 

In particolare, gli stati membri ad alto debito, come l’Italia, dovranno ridurre lo stesso, realizzando un aggiustamento di bilancio già a partire dal 2023 (anche se non viene dato un target quantitativo, ma saranno comunque formulate raccomandazioni in termini di contenimento della spesa pubblica ordinaria). Come dire…un Patto di Stabilità senza il Patto di Stabilità, con il beneficio di una previsione di riduzione del debito di tipo qualitativo e senza (ancora) l'infernale meccanismo del ritmo di riduzione di un ventesimo all'anno prestabilito dal Six Pack! Di conseguenza, il Def non può che ricalcare tale tendenza.



[1] In questa nota, per semplicità, gli scenari “a legislazione vigente” ed a “politiche invariate” sono usati come sinonimi, perché gli scostamenti fra i due sono molto limitati (sono nulli nel 2022 e pari a 0,1 punti di Pil sul lato delle entrate ed a 0,3 punti di Pil su quello delle spese per il 2023).


sabato 16 aprile 2022

Qualche esercizio di previsione di possibili scenari.

 

E’ sempre, ovviamente, difficile fare previsioni, ma qualche elemento sugli assetti socio-economici futuri sembra emergere per possibili riflessioni. Ovviamente tutto parte dall’esito prevedibile del conflitto in atto.

L'esito del conflitto russo-ucraino è oramai concentrato sul versante delle aree in mano ucraina del Donbass. Il suo risultato è veramente appeso ad un filo e molto dipende da chi dei due fra Ucraina e Russia riesce a riorganizzarsi per primo: oltre agli insostituibili sistemi portatili antiaerei ed anticarro, l'Ucraina ha bisogno di armi pesanti e mobilità, quindi Acv (già pervenuti dall’Australia, mentre gli Usa ne hanno promesso altri), carri armati, artiglieria di lunga gittata (gli USA dovrebbero inviare alcuni Howitzer), lanciarazzi, munizioni loitering, come il centinaio di droni-kamikaze Switchblade già istradati, che forse diverranno 300, e sistemi di difesa aerea e costiera di lungo raggio, insieme ad un kit di nuovi radar di sorveglianza e guida delle armi; in prospettiva avrà necessariamente bisogno di cacciabombardieri, quindi dei Mig 29 dei Paesi ex Patto di Varsavia inizialmente proposti e poi non forniti, e di elicotteri da trasporto e da attacco (gli USA hanno già promesso di fornire i Mi-17). Tutto questo richiede tempo, perché i donatori devono decidere di agire, raccogliere le armi necessarie, sostituirle con altre e inviarle, e i riceventi devono integrarle nel loro dispositivo di difesa. E poi gli ucraini devono ulteriormente potenziare le posizioni sulla già fortificatissima linea Izyum-Sloviansk, su Rubizhne (a protezione della città capoluogo, ovvero Severodonetsk), sull'area di Kherson-Mykolaiv e di Zhaporizhia-Dnipro-Kyyvi Riv, nonché nel saliente di Popasna. È in queste aree che si deciderà la guerra, dando ormai Mariupol per persa. Questo implica spostare truppe da altri luoghi e amalgamarle in modo coerente con quelle già presenti, ed anche questo richiede tempo e capacità organizzativa.

La Russia, dal canto suo, ha bisogno di tempo per riorganizzare e preparare una nuova forza: secondo una stima del Pentagono riportata dal Guardian, su 128 battaglioni tattici da combattimento di cui dispone l’Armata russa, circa 37-38 sono stati decimati e sono inutilizzabili. Le stime indipendenti, come quelle condotte da Oryx, parlano di perdite molto gravi: almeno 45.000 militari morti, dispersi o feriti in modo grave, fra i quali almeno 8 alti ufficiali del Comando supremo, 2.500 veicoli blindati o pezzi di artiglieria, di cui almeno 480 carri armati, distrutti, circa 20 aerei, 30 droni e altri 35 elicotteri abbattuti, 4 navi perse, fra le quali anche l’incrociatore Moskva, nave ammiraglia della Flotta del Mar Nero, due terzi delle scorte di missili terra-terra ad alta precisione Iskander. Una ecatombe, che l’industria militare russa, già rallentata dalle difficoltà del bilancio dello Stato, impiegherà molto tempo per coprire.

Occorre ricostruire nuove unità di combattimento fondendo unità logorate ed elementi nuovi venuti per sostituire le perdite, ed addestrarle a operare congiuntamente, il che richiede tempo. Anche le unità integre e fresche appena giunte, soprattutto dall'estremo oriente o dalle aree di peace keeping, vanno addestrate perché non hanno esperienza di combattimento. Le unità esperte sono già state buttate in guerra ed hanno subito perdite tremende. Si parla di battaglioni ricostituiti con appena 300 unità, delle 800 standard. Fra forze già operanti nell’area del Donbass e del sud e rinforzi pervenuti, si parla di circa 10-20.000 uomini, una forza ampiamente insufficiente a raggiungere obiettivi ambiziosi, quali la conquista dell’intero Donbass e di Odessa. Tra l’altro molte di queste unità sono logorate dai combattimenti.  Le stesse truppe russe in Transnistria sono composte da 2.000 uomini con armamento leggero, quindi non costituiscono una minaccia reale. E’ ovvio che sarà necessario altro tempo per ammassare e preparare nuove risorse.

Inoltre bisogna riorganizzare tutta la catena di comando, amalgamando unità che provengono da distretti diversi e sono state poste agli ordini del nuovo comandante generale sul campo. Bisogna organizzare meticolosamente la logistica, anche ricostruendo infrastrutture danneggiate, onde evitare la figura di merda della precedente offensiva. E risolvere i problemi di coordinamento fra esercito ed aeronautica.

Chi dei due arriva per primo a risolvere le sue questioni avrà un vantaggio decisivo. Quindi il fattore tempo è fondamentale, insieme a quello della potenza di fuoco che si può mettere insieme e della mobilità (sarà una offensiva di movimento, almeno in una prima fase, in cui i russi tenteranno, una volta consolidata la conquista di Mariupol, di risalire da nord verso Zhaporizhia e di scendere da sud verso Severodonetsk, per chiudere in una sacca le potenti difese ucraine, che avranno bisogno di mobilità per riposizionarsi).

Secondo valutazioni specialistiche, quali quelle dell’IFW, dopo un primo avanzamento russo, o gli ucraini riusciranno nuovamente ad impantanare l'esercito di Mosca, oppure, se dovessero essere travolti, riusciranno ad organizzare una resistenza molto tenace ed efficace. Già nelle aree meridionali conquistate dai russi, ed in particolare su Kherson, accanto alla protesta civile si stanno muovendo gruppi di resistenza armati che colpiscono le code dei convogli russi, producendo danni.  

In entrambi i casi, i russi saranno costretti a restare impegnati sul terreno per molto tempo, per anni, o in una guerra di trincea logorante, o in una guerra di bassa intensità contro i partigiani ucraini. Non è un caso che i russi stiano richiamando i riservisti anziani, che hanno perso le loro abilità militari e che quindi richiedono tempi lunghi di preparazione prima di essere usati. Sanno che i tempi saranno lunghi.

La situazione attuale sul campo nel Donbass, in preparazioen di una guerra di posizione molto lunga?

Fonte: ISW

Ciò implicherà uno stallo della situazione a tempo indefinito, con una situazione dell'Ucraina che non si stabilizzerà, allontanando anche i tempi per la ricostruzione. I Paesi occidentali, nell'arco di 10 anni, non prima, cesseranno di acquistare materie prime energetiche russe. La previsione della Commissione Europea di liberarsi entro il 2022 dei due terzi delle forniture russe tramite il piano Repower Eu, riducendo di un grado il riscaldamento, aumentando l’autoproduzione e la generazione di energia rinnovabile (che però arriverà soltanto al 15%del totale entro il 2022) e diversificando le fonti di approvvigionamento delle energie fossili, è irrealistica. Si tratta di liberarsi di 155 miliardi di metri cubi di gas, il 45% delle forniture provenienti da Paesi extracomunitari nel 2021. Di fatto, nel 2022 andrà a scadenza un contratto europeo di fornitura con la Russia per soli 15 miliardi di mc, mentre i contratti consistenti scadranno solo a partire dal 2030 (40 miliardi di metri cubi per il 2030, il resto negli anni successivi). Le previsioni più ottimistiche vertono su una riduzione di 75-80 miliardi di metri cubi nel 2022, rispetto ai 102 miliardi necessari per rispettare la previsione di taglio dei due terzi delle forniture dalla Russia. E non tengono conto della fame di energia asiatica, cinese in primis, che ridurrà la capacità di diversificare le forniture. Quindi probabilmente i reali effetti del piano Repower Eu per il 2022 saranno anche più bassi.

 La Russia avrà quindi tutto il tempo per reinvestire i proventi della vendita di gas che continueranno ad affluire, seppur in misura ridotta, per girare a sud est il suo sistema di infrastrutture energetiche, oggi orientato verso l’occidente, e per attirare investitori cinesi nelle joint venture abbandonate dalle imprese occidentali, facendo ripartire crescita ed occupazione. Il rublo, come imposto dalla Russia, sarà usato in luogo del dollaro e dell’euro come valuta di scambio per le residue importazioni energetiche occidentali (ancora molto cospicue, seppur in riduzione, per i prossimi 10 anni, come si è detto) evitandone lo sprofondamento, che produrrebbe una inflazione catastrofica ed un tracollo del sistema dei pagamenti interni. Il debito pubblico russo sarà sostenuto da investimenti cinesi. Già a fine 2021, la Cina detiene il 6% del debito pubblico russo (fonte: Ocpi) ed è il sesto creditore della Federazione (e peraltro il default sovrano russo, con un debito totale, pubblico e privato, inferiore al 40% del Pil, è una ipotesi inesistente, la Federazione è stata dichiarata in default solo per motivi tecnici, perché per via delle sanzioni le sue banche non riescono ad operare sui mercati valutari per procurarsi la valuta estera necessaria per pagare i bond acquistati da soggetti stranieri). Il 14% delle riserve ufficiali della Banca centrale russa in valuta estera è al sicuro in Cina, sfuggendo alle sanzioni.

In ultima analisi, la Federazione Russa integrerà sempre più la sua economia con la Cina, anche se in una posizione di relativa debolezza, perché fornirà, oltretutto senza più poter diversificare i suoi sbocchi, a causa della progressiva chiusura  dei mercati europei e degli USA, commodities energetiche ed alimentari a basso prezzo in cambio di tecnologie avanzate e beni di consumo essenziali a prezzo più alto, e perché le sue aziende saranno sempre più dipendenti dalle joint venture con imprese cinesi per poter realizzare grandi programmi di investimento.

La Cina emergerà come il nuovo centro di un polo antiamericano ed anti occidentale in cui Russia ed alleati (Bielorussia, Kazakhstan, Repubbliche-fantoccio filorusse) e, per altri motivi, Iran, Corea del Nord, Siria, forse Pakistan (oggetto di un colpo di Stato i cui mandanti non sono chiari, ma che sembra essere filo-USA) India e Paesi africani su cui Pechino ha investito (come l'Angola) diverranno un blocco nel quale il potere cinese sarà prevalente, forse conteso solo dall'India.

L'Occidente affronterà una fase molto dura di declino: avrà crescenti problemi a penetrare sui mercati dell'altro blocco, che hanno tassi di crescita molto più alti, dovrà rinunciare all'idea della globalizzazione liberale e ristrutturare ed accorciare, in una logica di autosufficienza, le sue filiere, con grossi investimenti e costi rilevanti. Dovrà subire una fase lunghissima di costi energetici alti, perché se elimini dal mercato il primo produttore di energia, per una semplice legge di domanda ed offerta, i prezzi restano alti anche se ti rivolgi ad altri produttori. I grafici relativi alle previsioni di prezzo del gas, basate sul mercato dei futures, scontano infatti il mantenimento di un livello molto alto dei prezzi anche ne 2023.

L’Europa dovrà anche sostenere costi militari crescenti, per fare fronte ad un mondo dove le tensioni sono più alte. I Paesi dell’Unione Europea, sommati insieme, hanno già oggi la seconda più alta spesa militare del mondo, dopo gli USA, più del triplo della spesa militare russa, per intenderci. Tale spesa, che si assesta all’1,5% del Pil europeo, è sostenuta per quasi la metà da Francia e Germania, con l’Italia in terza posizione. Essa verrà rapidamente portata al 2% ed i Paesi già al 2% faranno ulteriori sforzi finanziari, incrementandosi cioè di circa 212 miliardi immediatamente, arrivando a cica 440 miliardi annui. E siamo solo all’inizio. Questo incremento di risorse, inevitabilmente, creerà tensioni di bilancio, se la crescita non ripartirà, e come detto prima i prezzi dell’energia molto alti costituiranno un impedimento.

Spese militari per Stato nel 2020

Fonte: Corriere della Sera

Nelle aree di attrito fra i due blocchi le frizioni saranno continue e genereranno conflitti costanti. Parlo di aree come il Caucaso, Taiwan, i Paesi che affacciano sulla via della Seta, come quelli attorno al golfo di Malacca (non a caso gli Usa si stanno riposizionando nello scenario del Pacifico e dell'Oceano Indiano) percepiti dalla Cina come una sorta di “nodo scorsoio” alle sue ambizioni di espansione commerciale, e del resto basta vedere da dove passa la via della Seta terrestre e marittima, per capire che, sul versante terrestre, le relazioni con la Russia e con Repubbliche ex sovietiche con forti legami con la Russia, come il Kazakhstan, l’Uzbekistan e la Bielorussia, siano fondamentali, così come lo sono quelle con Paesi come il Pakistan e l’Iran, che offrono una seconda via di passaggio terrestre per le merci cinesi istradate in Occidente. Sul versante marittimo, Taiwan, il Vietnam, l’Indonesia, la Malesia, la Somalia, l’Eritrea e l’Egitto diventano Paesi assolutamente fondamentali da controllare per la Cina, perché le garantiscono il passaggio navale.

Via della seta cinese, terrestre e marittima

Fonte: Inside Over

Ma parlo anche delle repubbliche post sovietiche dell'Asia Centrale ad elevata offerta di materie prime energetiche, i Paesi africani in cui la Cina e la Russia stanno cercando di scalzare il neocolonialismo occidentale (ivi compresa la Libia, ma anche Paesi petroliferi come l’Angola o la Guinea Equatoriale, fortemente penetrati dalla Cina). 

Ed occorre ricordare la contesa internazionale sull'Artico, ricco di materie prime preziosissime liberate dai ghiacci dal cambiamento climatico, ed il cui status non è ancora definito fra i vari Paesi che ambiscono ad una fetta delle ricchezze e delle nuove rotte marittime che si apriranno a nord: Paesi europei, Russia ma anche Giappone e Usa. in particolare, le acque artiche rivendicate dalla Russia intercettano analoghe ambizioni canadesi, statunitensi, norvegesi e danesi, mentre la contesa fra Russia e Giappone per le isole Curili, la cui posizione è militarmente strategica. Evidentemente, le ricchezze minerarie (petrolio, che potrebbe rappresentare il 13% delle riserve mondiali gas, che potrebbe costituire il 30% di dette riserve, terre rare, che potrebbero intaccare la posizione dominante della Cina, che oggi ne controlla il 90%) e le possibilità di aprire nuove rotte marittime commerciali che superino i costi del passaggio da Suez (un elemento di particolare interesse per la Cina) faranno dell'Artico, nei prossimi anni, un vero e proprio terreno di guerra. 

Fonte: Business Insider


Sarà un mondo più povero, più violento, un mondo di tensioni e guerre localizzate costanti, dove un conflitto diretto fra i blocchi, almeno inizialmente di tipo convenzionale, non è da escludere, e quindi dove tutti dovranno armarsi e dove il concetto di frontiera, ed anche il nazionalismo, risorgeranno dalla nebbia della storia, e riprenderanno il ruolo che gli compete.