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sabato 1 ottobre 2016

Donne di mafia: il ruolo femminile nella ‘Ndrangheta




Le mafie, la ‘Ndrangheta in particolare, sono da sempre custodi gelose della tradizione. La tradizione serve infatti per imporre codici di comportamento interno improntati alla disciplina, particolarmente importante in una organizzazione, come quella delle ‘Ndrine, a fortissima base di consanguineità, dove quindi aspetti relazionali di tipo familiare si confondono e si mescolano con quelli legati all’attività criminale. Serve anche per creare un alone di “rispettabilità”, di prestigio, per attrarre nuovi adepti, affascinati dall’idea di entrare in una setta dove vigono dei solidi principi, specie nel degrado sociale e di prospettive tipico del nostro Mezzogiorno.
E d’altra parte la tradizione è importante per un motivo molto più pratico. La ‘Ndrangheta nasce nella società contadina calabrese, parallelamente al processo unitario tardo ottocentesco, come evoluzione del fenomeno della picciotteria esistente nel Regno delle Sue Sicilie, a metà fra una sorta di bravi al servizio dei latifondisti per sedare le rivolte contadine, di gruppi di autodifesa basati sulla violenza, e in alcuni casi di capipopolo che amministravano la giustizia in quelle plaghe semi-abbandonate dal potere borbonico. Con l’unità nazionale, si assisté alla formazione di “società di mutuo soccorso” segrete fra famiglie di braccianti, pastori, piccoli proprietari e piccoli artigiani, aventi una chiara connotazione di società parallele anti-Stato, che assorbirono rapidamente gli elementi criminali della preesistente picciotteria, divenendo quindi organizzazioni mafiose. Il tradizionalismo viene sintetizzato efficacemente dal verso di una canzone di ‘Ndrangheta: “lavuraru trint'anni sutta terra, pi fondari li reguli sociali, leggi d'onori di sangu e di guerra leggi maggiori, minori e criminali”.
Dedite, inizialmente, ad estorsioni ed al pizzo, ad abigeati, o al caporalato agrario, all’organizzazione del gioco d’azzardo, le ‘Ndrine riflettono il carattere patriarcale e tradizionale della campagna calabrese. Dove la donna non ha un ruolo di potere, ed infatti non può affiliarsi formalmente alla ‘Ndrina: il rito di iniziazione formale, carico di simbolismi religiosi e mistici, è riservato soltanto ai figli maschi dei suoi soci, chiamati “primi fiori”. Solo loro hanno il privilegio, per così dire, di essere riconosciuti formalmente come membri dell’organizzazione. Quando un affiliato ha un figlio maschio, lo affida ai primi riti di pre-adesione già da neonato (il rito del coltello e della ferraglia, il taglio delle unghie dei piedi) mentre la figlia femmina viene trascurata.
La donna, così, finisce, in apparenza, per assumere quel ruolo domestico ed educativo che riveste nella stessa società contadina: è lei ad allevare i figli maschi dell’uomo d’onore, destinati ad affiliarsi. E’ soprattutto lei ad educarli alla religione dell’onore e della vendetta, che costituisce il DNA della cultura ‘ndranghetista. Le grandi faide sono istigate, e continuamente alimentate, dalle donne, che spingono i figli a “fare giustizia”. Intere generazioni di ‘ndranghetisti sono cresciute dalle madri nel mito del sangue e dell’onore. Renate Siebert parla di “pedagogia della vendetta”, per designare tale modello educativo, dove la stessa mascolinità viene inestricabilmente associata alla necessità di difendere il proprio onore maschile, colpendo chi lo ha disonorato (in base ai tradizionali codici comportamentali mafiosi). In questo senso, la madre assume il ruolo di “memoria della vendetta”, passando al figlio gli oneri di compimento della stessa quando il padre muore o è troppo anziano per potersene occupare. E così facendo, la donna diventa l’elemento di continuità storica del clan, e di istigazione all’azione per i suoi uomini, assumendo, sia pur nell’ombra, un ruolo direttivo.
E poi le donne svolgono ruoli attivi, spesso anche molto rilevanti e compromettenti dal punto di vista giudiziario, ma caratterizzati dal fatto di rimanere in una funzione secondaria, per così dire “servente”, rispetto all’attività svolta dai loro uomini: custodia delle armi, recapito delle ‘mbasciate fra i componenti reclusi e quelli in libertà, organizzazione delle collette per sostenere le famiglie degli affiliati reclusi, vigilanza esterna, acquisizione di informazioni, protezione dei latitanti (per i quali fanno da cuoche e donne di servizio).
Molto spesso le figlie servono come merce di scambio per organizzare matrimoni di convenienza: essendo la ‘Ndrine basate su legami familiari, le alleanze fra famiglie, necessarie per formare organizzazioni più grandi e potenti, come le Locali, si fanno combinando i matrimoni. La ragazza è costretta a sposare un uomo d’onore dell’altra ‘Ndrina, per rafforzare la coalizione criminale. I vincoli di omertà derivanti dal suo coinvolgimento “obtorto collo” nella “società”, ed i vincoli di fedeltà al marito, ne fanno, sotto il profilo emotivo e delle relazioni, una schiava perenne, cui viene lasciato però il rilevantissimo spazio di manovra dell’educazione dei figli e dell’istigazione all’azione dei mariti, sia pur agendo nell’ombra. Viceversa agli uomini è consentito di mantenere una amante, purché l’immagine pubblica del matrimonio venga preservata.
Le donne di ‘Ndrangheta sono quindi, in cambio di un ruolo di comando rilevante, condannate ad una vita di castità ed assoluta fedeltà al marito, perché debbono custodire il preziosissimo bene dell’onorabilità del loro uomo. Un uomo che non sa tenere sotto controllo la sua donna, e che viene da lei tradito, perde prestigio nell’organizzazione, e rischia anche la vita, poiché viene considerato pericolosamente debole. Tale vincolo di castità è così forte che deve durare anche nel caso in cui l’uomo venga incarcerato. Persino le vedove devono evitare di risposarsi (a meno che il capobastone non le autorizzi, spesso per motivi pratici di alleanza con altri gruppi) e condurre una vita ritirata e casta, per custodire il ricordo dell’onorabilità del defunto, spesso capostipite di una famiglia mafiosa.
Peraltro, sin dai primi anni di vita dell’organizzazione, esigenze molto pratiche portano a dover infrangere questa distribuzione così rigida dei ruoli, ed a cercare compromessi. I clan devastati da arresti e omicidi per vendetta devono coprire le posizioni di organigramma, e quindi si inventa un percorso contorto per consentire, in casi eccezionali di emergenza, l’affiliazione delle donne esterne al clan familiare (quelle che fanno parte della famiglia sono già considerate interne alla logica mafiosa) dimostratesi particolarmente abili ed affidabili, che nella rigida struttura delle Locali assumono la denominazione di “sorella d’omertà”. Ci sono casi documentati già dai primi del Novecento. Per salvare le apparenze di una società onorata composta da soli uomini, e quindi per salvaguardare la sostanziale ipocrisia patriarcale, esse si devono affiliare indossando, durante la cerimonia, vestiti da uomo. Rimangono inoltre legate a ruoli puramente subordinati, poiché la leadership è sempre in mano agli uomini, tanto che sino alla legge Rognoni-La Torre del 1982 esse non vengono mai, in pratica, considerate membri di organizzazioni ‘ndranghetiste, anche quando svolgono consapevolmente uno dei citati ruoli attivi, commettendo di fatto dei reati. Nei processi, anziché essere condannate per associazione a delinquere, vengono infatti generalmente accusate del più mite reato di favoreggiamento.
Seppur considerate dalla legge, per molti anni, come non affiliate, sono le donne le “catalizzatrici” dell’attività dei clan, secondo il giudice Gratteri. Sono loro che comandano veramente, sono loro che attivano le vendette e le faide, sono loro che crescono i figli che vanno a fare i  soldati del clan, sono loro che inducono i loro uomini a fare carriera dentro l’organizzazione. Maria Serraino, detta “mamma eroina”, non si accontenta nemmeno di questo ruolo di comando nell’ombra. E’ il primo caso di donna-boss conosciuto. Nasce in una famiglia mafiosa di Cardeto, vicino a Reggio Calabria, si sposa con Rosario Di giovane, un contrabbandiere di sigarette, e nel 1963 si trasferisce a Milano, istituendo ex novo un clan mafioso, dedicandosi allo spaccio della droga, grazie ai suoi 12 figli, tutti quanti cresciuti come soldati. E contrabbanda anche armi dirette verso la Calabria, nell’ambito della seconda guerra di ‘Ndrangheta, in cui i suoi parenti sono coinvolti. Ordina l’uccisione di un suo spacciatore che vuole mettersi in proprio. All'età di 12 anni, una delle sue figlie venne portata via da scuola per aiutare a spacchettare la cocaina nascosta nei pannelli delle auto importate, ed inserire l'eroina nelle bottiglie di shampoo.
Il salto quantico da questa condizione di “ombra” delle donne nella ‘Ndrangheta avviene negli anni Settanta. Non, come si crede, per permeabilità delle istanze del nascente movimento femminista, che nella Calabria di quegli anni, e soprattutto nelle ‘Ndrine, non penetrano. Ma per una strategia, che dimostra tutto il grado di flessibilità di questa organizzazione: le donne possono svolgere ruoli più importanti, proprio perché raramente finiscono imputate per il reato di associazione mafiosa. E quindi godono, rispetto agli uomini, di una sorta di “franchigia” giudiziaria. Che consente loro di poter svolgere con maggiore sicurezza attività particolarmente pericolose in termini di rischio di arresto, come il trasporto dello stupefacente (che possono nascondere più facilmente degli uomini nel loro apparato genitale, oppure simulando una gravidanza). Infatti, con la prima guerra di ‘Ndrangheta iniziata nel 1974, le leve emergenti (i De Stefano, i Mammoliti, gli Strangio) alleate con Mommo Piromalli eliminano la vecchia guardia, raccolta attorno a don Antonio Macrì o don Mico Tripodo, contraria all’estensione dell’attività al business della droga.
Ma non solo: negli anni, i boss hanno fatto studiare le figlie, che non sono più contadine semianalfabete, ma possono essere utilizzate, con le loro competenze, nel crescente riciclaggio nel settore finanziario, dove non sono richieste doti di violenza e coraggio fisico, e quindi dove le donne possono essere impiegate. Inizia allora la lunga marcia delle donne dentro i clan, non certo una vera emancipazione criminale, ma certamente una riconfigurazione profonda del loro ruolo. Che le evidenze investigative iniziano a manifestare, e che appaiono soprattutto nelle filiazioni dei clan nel Nord Italia, dove è più normale che le donne siano più indipendenti, nel lavoro legale come nel crimine.
Alcuni casi sono clamorosi, e sembrano testimoniare di una vera e propria ascesa anche nei vertici dei clan, fino a quel momento coperti solo da uomini. Un esempio è quello di Angelica Riggio, nata e vissuta a Monza al di fuori del contesto mafioso- si tratta di una giovane ragazza madre che diventa amante e poi convivente di Pio Domenico, uno sgarrista della Locale di Desio controllata dal clan Iamonte (proveniente da Melito di Porto Salvo), accedendo al clan nel ruolo di contabile; quando viene arrestato il 13 luglio 2010 nell’ambito dell’operazione Infinito, la Riggio avrebbe, secondo gli inquirenti, preso il suo posto nella gestione del racket: iniziando a farsi chiamare “Vanessa” sarebbe andata a riscuotere i soldi del racket dalle vittime, con una tenacia e un’aggressività dimostrata, a detta degli inquirenti, in più occasioni. Angelica non si tirerebbe indietro nemmeno quando c’è da alzare le mani, visto che gli inquirenti avrebbero accertato almeno un paio di occasioni in cui ha schiaffeggiato violentemente cattivi pagatori. Come quando in una trattoria di Mornico al Serio sarebbe stata lei, arrivata insieme al compagno, a schiaffeggiare il figlio della titolare, indietro con le cambiali. Arrestata nell’ottobre 2010, Angelica Riggio si trova così a rispondere dell’accusa di usura. Durante le perquisizioni la magistratura trova un numero elevato di titoli di credito, molti dei quali intestati alla Riggio, titolare anche di alcuni immobili di provenienza incerta. Nel dicembre 2012 viene condannata in primo grado a 6 anni e 6 mesi di carcere.
Luana Paparo (classe 1988) è un altro esempio. Figlia di Marcello Paparo, che la procura considera il capo della ‘ndrina di Isola di Capo Rizzuto Arena-Nicoscia, estesasi a Cologno Monzese. Il suo nome compare nell’inchiesta Isola, un’operazione che nel marzo 2009 manda in carcere più di venti elementi considerati organici alle ‘ndrine Arena e Nicoscia. I Paparo, secondo l’accusa, mirerebbero a insinuarsi nei grossi appalti di facchinaggio e trasporto in catene di supermercati con il Consorzio di cooperative Ytaka di Brugherio, e nei grossi subappalti di movimento terra nei cantieri del quadruplicamento della linea Milano-Venezia delle Ferrovie dello Stato con la P&P di Cernusco sul Naviglio. È la stessa Luana Paparo a gestire il consorzio Ytaka, ma i magistrati le imputano di essere la custode dell’arsenale del clan. Il processo di appello ha condannato Luana (4 anni e 8 mesi) e Marcello Paparo (12 anni e 7 mesi) e altri imputati legati alla famiglia per il reato associativo.
Terzo esempio: Maria Valle, cresciuta a Bareggio, è la figlia di Fortunato Valle. I Valle, capeggiati dal nonno don Ciccio Valle, sono un clan della ‘Ndrangheta insediatosi a Vigevano e originari del quartiere Archi di Reggio Calabria. Nel luglio 2006 sposa Francesco Lampada, suggellando l’unione di due importanti famiglie ‘ndranghetiste: un matrimonio celebrato in grande stile all’Hotel Villa D’Este sul lago di Como – lo stesso che ogni anno ospita il forum Ambrosetti – che testimonia come le ragazze di ‘Ndrangheta siano tutt’oggi merce di scambio nelle politiche matrimoniali dei clan. Secondo la procura, la donna contribuirebbe al rafforzamento economico delle attività criminose – soprattutto usura ed estorsione – rendendosi intestataria fittizia delle quote di una immobiliare riconducibile alla famiglia Valle, affinché gli altri componenti dell’associazione mafiosa possano eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale. Nel luglio 2012 è stata condannata in primo grado a 7 anni di carcere.
Significtiva la storia di Angela Bartucca. Moglie di Rocco Anello, capobastone dell’omonimo clan catanzarese, una storia come tante di donne di ‘Ndrangheta ritrovatesi spose di capi clan per matrimoni combinati. Che però rompe la tradizionale passività che le donne di ‘Ndrangheta devono subire. Ed anche questa è una rottura del codice comportamentale della “società”, del tutto impensabile, che dimostra la crescita dell’autonomia delle donne di ‘Ndrangheta: Angela ha delle storie con due picciotti del clan, mentre il marito è detenuto. Entrambi i picciotti scompaiono nel nulla. Si sospettano di omicidio due sicari del clan, che però vengono assolti. La tradizionale fedeltà della sposa di ‘Ndrangheta viene quindi meno, bruciata sull’altare dell’emancipazione sessuale, una cosa che nella vecchia ‘Ndrangheta era impensabile.
E ancora, Ilenia Bellocco, la moglie del boss Ciccio Pesce, detto “O Testuni”, che a 47 anni avrebbe, secondo gli inquirenti, ereditato la gestione del clan dopo l’arresto del marito. Anche lei figlia di un clan, suo padre, Umberto, detto “Assu i mazzi”, capobastone della piana di Gioia Tauro. Durante la latitanza del marito, avrebbe le redini del clan anche incassando i soldi delle estorsioni e dei traffici. Ha un carattere acido e spigoloso che spesso si esprime in un turpiloquio grondante bestemmie, tale da sbalordire persino gli investigatori abituati ai peggiori sicari. Il giorno delle nozze ai suoi mille ospiti ha offerto come bomboniera un cobra in lalique con occhi in pietre preziose. Ilenia, nessun reddito denunciato al Fisco, avrebbe un tenore di vita principesco.
Siamo ad un livello oramai molto più avanzato della teoria per la quale la donna di ‘Ndrangheta può assumere ruoli di comando solo in una funzione suppletiva e di sostituzione del marito assente per latitanza o carcerazione. Lo dimostra il caso di Angela Ferraro. 50 anni, è moglie del boss di Palmi Salvatore Pesce, detto " U babbu". A giudizio degli inquirenti e del giudice che l’ha condannata, Angela Ferraro avrebbe una posizione speciale, non da supplente.  Avrebbe lo stesso rango degli uomini, interloquendo "alla pari" con il fratello, occupandosi di racket a Milano e di traffico di droga fra il capoluogo lombardo e la Calabria. La donna deciderebbe le estorsioni senza chiedere le autorizzazioni ai maschi della 'ndrina ed entrando nelle discussioni del clan, anche quelle relative agli omicidi da commissionare.

Il quadro che emerge è quindi molto lontano dal tradizionale paternalismo giudiziario, che esime in parte le donne di ‘Ndrangheta dalla loro responsabilità criminale. Al contrario: vista da dentro, tale organizzazione appare già in origine comandata, con un ruolo solo formalmente secondario, dalle sue donne. Ed oggi sembra in grande cambiamento, tanto da vedere l’altra metà del cielo abbandonare anche le ipocrisie formali di un maschilismo solo apparente, e prendere con sempre maggiore decisione le redini delle ‘Ndrine, anche agli occhi degli osservatori esterni. 

domenica 26 giugno 2016

L'arresto di Fazzalari


2 Maggio 1991. Taurianova, antico e grosso borgo agricolo collocato della Piana di Gioia Tauro, posto alle prime pendici dell’Aspromonte, quella “terra grassa e felice abitata da persone infelici” di cui si parla per definirla: agrumeti, olio di oliva di qualità, produzioni artigianali di torrone che si vendono in tutta Italia. Rocco Zagari, ufficialmente di professione infermiere generico presso la Usl, consigliere comunale in quota Dc, si reca dal barbiere per farsi fare la barba prima di riprendere servizio, dopo il giorno di festa del Primo Maggio. Un uomo fa irruzione nella barberia armato di una semi-automatica calibro 7,65mm ed esplode diversi colpi in sequenza, scomparendo immediatamente nel nulla. Zagari muore fulminato sulla sedia del barbiere, probabilmente senza nemmeno essersi accorto di niente, con la schiuma da barba ancora sulla faccia.
Si tratta di uno degli episodi della faida di Taurianova, esplosa nel 1989, che contrappone due coalizioni di ‘Ndrine locali, da una parte gli Asciutto-Neri-Grimaldi e dall’altra gli Zagari-Giovinazzo-Viola-Fazzalari. Taurianova è da anni un crocevia strategico, e con prospettive crescenti grazie al progetto di costruzione del porto di Gioia Tauro, del traffico internazionale di stupefacenti e la sua amministrazione comunale, di marca democristiana, è totalmente infiltrata. Solo di regolari, le ‘Ndrine di un paese di 15.000 anime contano su un esercito di 400 fra picciotti e sgarristi regolarmente affiliati. Più altre centinaia di “contrasti onorati”, come si dice nel gergo mafioso, ovvero collaboratori esterni in via di iniziazione, e contatti con i clan Rom e Sinti stanziali ivi ubicati, che forniscono manovalanza di fuoco estremamente preziosa.
La guerra di ‘Ndrangheta di Taurianova si origina da conflitti politici nel tentativo di controllare l’amministrazione comunale ed i soldi degli appalti. Nel 1986, la maggioranza democristiana del sindaco Francesco Macrì, detto “Mazzetta”, si spacca. Proprio il consigliere comunale Zagari, braccio destro del boss Mimmo Giovinazzo, produce la spaccatura, ed alle successive elezioni anticipate fa convergere il suo bacino di voti sul genero, Marcello Viola, boss dell’omonima ‘Ndrina. Roba di appalti, di controllo delle gare. Mazzetta Macrì, sconfitto, va dai carabinieri. Denuncia infiltrazioni mafiose nella nuova amministrazione. La nuova Giunta cade, alle ennesime elezioni Macrì vince e coopta Zagari nella nuova maggioranza. Ma la frattura rimane: la pax mafiosa si è rotta, in un rovente 2 luglio 1989 Rocco Neri, capobastone accusato di voler diventare troppo potente ed oscurare Don Mimmo Giovinazzo, viene ucciso. Inizia una sanguinosa guerra, nella quale cade anche Giovinazzo. Zagari viene ucciso perché si teme possa prenderne il posto, stanti i legami molto stretti fra i due.
Ventiquattr’ore dopo l’uccisione di Zagari, si scatena la terribile faida, un episodio di particolare ferocia e sangue, il cosiddetto “venerdì nero”. Alle 12.30 cade, crivellato da 19 colpi di fucile, Pasquale Sorrento, ragazzo di 29 anni. Lo stesso gruppo di fuoco, con armi nuove, si presenta davanti all’ufficio postale, quattro ore dopo, in pieno centro storico: vengono presi di mira due fratelli, Giovanni e Giuseppe Grimaldi, di 54 e 59 anni, incensurati ma con legami di sangue con la ‘Ndrina Grimaldi. Cercano di scappare, ma inutilmente. Il primo ad essere abbattuto è Giovanni. Giuseppe cerca rifugio nella sua bottega di salumiere ed afferra un coltello per difendersi. Il killer gli spara, e mentre è ancora vivo, agonizzante in terra, gli toglie il coltello dalla mano e gli taglia la testa. Poi esce dal negozio con la testa mozzata in mano e, davanti ad almeno venti persone terrorizzate, la getta in aria e si diverte, con il suo complice, a fare tiro al bersaglio sulla testa che vola. Alle 20,30 viene ucciso Rocco La Ficara, venditore di bombole a gas, 36 anni, cognato di Pasquale Sorrento, la prima vittima. Quattro morti in un solo giorno nello stesso paese.
Tre giorni dopo, di sera, tre manovali di ‘Ndrangheta, di cui due zingari, vengono uccisi in un bar di Laureana di Borrello, a trenta chilometri da Taurianova, a colpi di fucile e di pistola. Si tratta di Emilio Ietto, di 32 anni, Leonardo Minzoturo, di 20 anni e Luigi Berlingeri di 25. I corpi di Minzoturo e Berlingeri sono stati trovati all' esterno del locale, all'interno il terzo. Nove giorni dopo viene ucciso, a Carmignano del Brenta, un affiliato del clan Pesce, che si trovava lì al soggiorno obbligato.
Complessivamente, la faida di Taurianova, durata dal 1989 al 1992, produce 32 morti, ci sono casi di uccisioni persino a Genova, ed ha un impatto enorme sull’opinione pubblica, per l’efferatezza di scene come quella della testa mozzata lanciata nella piazza di paese. L’esigenza di smantellare, sotto questa ondata emotiva, la collusione dei clan di Taurianova con l’amministrazione comunale produrrà la norma che consente lo scioglimento delle amministrazioni comunali per infiltrazione mafiosa.


Ernesto Fazzalari, è stato arrestato oggi dopo una latitanza durata per ben vent’anni, in uno dei bunker sotterranei nei quali, complice l’omertà e la presenza di reti di collaborazioni, i latitanti vivono per anni come topi, vicinissimo al loro feudo. Una latitanza di lusso, nel bunker si trovano elettrodomestici di tutti i tipi, ivi compresa una televisione satellitare, sigari, champagne di marca. Ed è sospettato di aver preso parte attiva alla faida di Taurianova. Questo spiega la sua caratura criminale, che lo ha portato a diventare il secondo più importante ricercato. Secondo la Dia, oggi il clan Fazzalari sarebbe alleato con gli Avignone e gli Asciutto, con un cambiamento di campo rispetto ai fatti sopra ricordati. 

lunedì 16 maggio 2016

L’ombra della Società Foggiana sulle rapine della A 14?



L’autostrada A 14 è oggetto, da mesi, di continui assalti a furgoni portavalori, condotti da uomini armati estremamente determinati e ben addestrati. Anche se alcune modalità operative cambiano di volta in volta, il canovaccio è sempre lo stesso (l’obiettivo – i portavalori, il luogo - l’autostrada, il blocco del traffico operato mettendo di traverso automobili o camion fermati con la minaccia delle armi, spesso anche incendiati per aumentare l’efficacia, l’uso di armi, fucili di assalto, probabilmente anche kalashnikov, come mezzo per terrorizzare le guardie giurate ed indurle a fermare il furgone).

Vediamo gli episodi:

- 6 dicembre 2013: all’altezza dell’uscita di Cerignola della A14, dieci uomini danno l’assalto ad un furgone portavalori della NP Service, mettendo di traverso un camion e seminando chiodi per bucare le gomme del furgone. Il bottino è di oltre 2 milioni di euro;

- 15 maggio 2015: sempre sulla stessa autostrada, nello steso tratto, dieci uomini tentano l’assalto ad un portavalori, con le stesse modalità di cui sopra. Nonostante la gragnuola di colpi di kalashnikov, le guardie giurate riescono a sigillarsi dentro il furgone ed attivare l’antifurto satellitare. I rapinatori fuggono a mani vuote.

- 30 settembre 2015: assaltato un portavalori a colpi di kalashnikov nel tratto marchigiano della A14 tra Ancona Sud e Loreto-Porto Recanati, bottino 5 milioni di euro;

- 26 aprile 2016: nella tratta fra tra Francavilla e Chieti all'altezza di San Giovanni Teatino, quattro uomini armati ed incappucciati a bordo di una Giulietta e di un furgone rubati, hanno bloccato intorno alle 6.30 la corsa del mezzo dell'istituto di vigilanza Aquila che era partito da Ortona ed era diretto a L'Aquila. Il veicolo ha tagliato la strada del furgone gettando a terra, ancora una volta, dei chiodi. Subito dopo i quattro malviventi hanno lanciato un fumogeno o forse un ordigno, finito sotto il furgone. Quindi hanno fatto scendere le due guardie giurate costringendole a stare a terra, le hanno disarmate e poi hanno cercato di entrare nel mezzo tagliando la carrozzeria. Per bloccare il traffico sull'autostrada hanno costretto un mezzo articolato in transito a mettersi di traverso sulla corsia. Nel corso dell'assalto hanno esploso dei colpi da fuoco sicuramente con delle pistole ma anche con dei fucili che potrebbero essere dei Kalashnikov. Il colpo però stavolta fallisce perché un automobilista in transito nella corsia opposta dell’autostrada avverte la Polizia Stradale;

- 16 maggio 2016: almeno sei uomini armati e mascherati assaltano a colpi di pistola e kalashnikov un portavalori nella tratta fra Valle del Rubicone e Cesena Sud. I malviventi hanno incendiato tre auto dopo averle intraversate sulla carreggiata nord, bloccando il portavalori. Con un flessibile sono riusciti ad aprirlo e a vincere la resistenza delle due guardie giurate dentro la parte posteriore del mezzo e a portare via un bottino imprecisato. Per fuggire hanno rapinato della sua Mercedes un automobilista.

Durante l’evento del 16 aprile, le testimonianze parlano di rapinatori che parlano in italiano con accento pugliese. Potrebbe essere un primo indizio del coinvolgimento della Società Foggiana, una organizzazione mafiosa autoctona di particolare ferocia[1], impiantatasi grazie al sostegno della NCO di Raffaele Cutolo, e che ha strappato il territorio alla Sacra Corona Unita nelle faide degli anni Ottanta, che hanno visto l’ascesa del boss Rocco Moretti, detto “ Il porco”, anche grazie ad una capacità organica di dialogare con camorra, ‘Ndrngheta e Cosa Nostra. I colpi sono infatti molto ben organizzati sotto il profilo tecnico; i responsabili conoscono alla perfezione i tempi ed i percorsi di portavalori di diverse aziende (segno che hanno una infiltrazione in diverse ditte, oppure che osservano preliminarmente i passaggi e segnano gli orari) hanno numerose competenze criminali (la capacità di pianificare con esattezza il colpo, la capacità di rubare automobili, l’assalto guidando ad alta velocità, la capacità di aprire un furgone blindato e poi di fuggire, la freddezza di non fare vittime); infine, i responsabili hanno un armamento pesante, da guerra, difficilmente reperibile, se non da organizzazioni criminali strutturate. I primi due colpi avvengono nel foggiano, e ciò è significativo: infatti, i primi colpi, che sono anche di tipo sperimentale e quindi rischiosi, vengono condotti in territorio amico e conosciuto, al fine di poter fuggire più agevolmente nel caso in cui qualcosa andasse storto.

La stessa Direzione Investigativa Antimafia crede in questa ipotesi: nella relazione sul primo semestre 2015, scrive infatti che “nel basso Tavoliere, la città di Cerignola si conferma per la peculiare presenza di gruppi criminali strutturati, in grado di proiettarsi fuori regione sia per la gestione dei traffici di stupefacenti che per la realizzazione di assalti ai portavalori con tecniche militari”. Nel 2014, dettaglio significativo, proprio a Cerignola è stato trovato un enorme deposito di armi: decine di pistole di tutti i tipi, fucili mitragliatori, fucili a canne mozze, fucili a pompa, kalashnikov, una mitragliatrice con il treppiede da terra, bombe a mano, giubbetti antiproiettile, 18.000 proiettili di tutti i calibri. In particolare, su Cerignola operano i clan Di Tommaso ed i Piarulli-Ferraro, quest’ultimo clan colpito, di recente, da importanti provvedimenti di sequestro di beni. Tali clan operano con il principio organizzativo della Stidda siciliana, quindi con strutture piuttosto autonome, poco strutturate, con un tratto federativo e scarsamente piramidale. Una mafia di ferocia incredibile. Cerignola è divenuta la piattaforma logistica di smercio dello stupefacente e delle armi provenienti dall’Europa dell’Est, grazie ai contatti con la mafia albanese.



[1] I Carabinieri hanno scoperto che, durante i summit della Società, veniva esibita la testa mozzata di Giuseppe Laviano, boss della SCU, ucciso dalla Società per rafforzare il suo potere sul foggiano. pare che Vito Lanza, uno dei luogotenenti di Moretti, portasse con sé un osso del cadavere di Laviano a mo' di reliquia, tanto da utilizzarlo come soprammobile mentre pranzava.

giovedì 21 aprile 2016

Infiltrazioni di mafie e degrado sociale: la fine del mito emiliano


Lo scioglimento per infiltrazione mafiosa del Comune di Brescello, il Paese in cui Guareschi ambientò le figure di Peppone e Don Camillo, come simboli di un’Italia contadina, ingenua ma appassionata, apparentemente divisa ma profondamente coesa, è un evento simbolicamente devastante, e che va studiato. Anche perché si verifica in una regione storicamente considerata immune da derive di questo genere. Anche perché di dubbi su questo provvedimento ce ne sono pochi: gli indicatori di infiltrazione sono tutti presenti. Le gare di appalto manovrate e destinate sempre ai soliti noti, i cambiamenti sospetti di destinazione d’uso di terreni, una certa ossequiosità della classe dirigente locale nei confronti di esponenti di famiglie notoriamente ndranghetiste, assunzioni sospette in Comune.
Un tema di riflessione molto rilevante per capire il grado di dissoluzione della coesione sociale del Pese è costituito dal livello di infiltrazione mafiosa anche in territori non tradizionalmente vocati, e storicamente considerati pieni di anticorpi. La mafia, infatti, ha un funzionamento diverso da quello di una normale organizzazione criminale. A differenza di quest'ultima, infatti, la mafia ha bisogno di legittimazione, di consenso. E', seppur in una forma degenerata, una organizzazione "politica". Spesso, addirittura, il business illegale è asservito al bisogno di controllare. Tutta la sottocultura mafiosa è costruita attorno ad un bisogno di legittimazione. Ad iniziare dalla nobilitazione mitologica delle origini: il mito dei tre cavalieri nobili Osso, Mastrosso e Carcagnosso, fondatori delle tre organizzazioni mafiose (Cosa Nostra, camorra e ‘Ndrangheta) per aver difeso l’onore di una donzella, che serve per dare nobiltà ad origini invero piuttosto modeste e miserelle, il complesso rituale di iniziazione, pieno di riferimenti mistici e religiosi, mirato a creare nel nuovo adepto la sensazione di entrare in un club nobile ed esclusivo (è peraltro significativo il riferimento centrale a San Michele Arcangelo, comandante in capo delle milizie celesti ,e quindi figura di potere nella simbologia cristiana). Così come è legata ad una esigenza di legittimazione e di ricerca di consenso la produzione e divulgazione di uno “stile di vita” mafioso attraverso la musica folk calabrese (i canti di ‘Ndrangheta) oppure una parte della musica neomelodica napoletana. Questo tratto spiega la sopravvivenza delle organizzazioni mafiose attraverso i secoli: come tutte le organizzazioni di potere, l’esigenza del gruppo prevale su quella dei singoli, e le regole di comportamento costruiscono una società parallela ed altamente disciplinata, nel caos fisiologico del mondo criminale.
Questo tratto di ricerca di consenso deriva dalla storia di queste organizzazioni: nate, come Cosa Nostra, per aiutare i possidenti nel controllo sociale del bracciantato (esercitato sia con la violenza, sia con una forma molto efficace e sottile, ovvero il controllo delle fonti d’acqua comunitarie) o, come la ‘Ndrangheta, nato come fenomeno rurale in aree poco o punto presidiate da poteri pubblici e leggi, o, per finire, come la camorra, che i Borboni utilizzavano come polizia e come tribunale di giustizia nei bassi di Napoli, esse tendono sin da subito a prendere lo spazio lasciato libero dallo Stato, costituendosi come contropotere, sfruttando anche le caratteristiche oppressive che il nuovo potere sabaudo dell’Italia postunitaria esercita sulle popolazioni meridionali. L’incapacità di risolvere la questione meridionale da parte dello Stato non fa che perpetuare questa propensione a formarsi, nell’immaginario collettivo, come contro Stato, spesso anche considerato “più giusto” o più efficace nell’amministrare la giustizia dello Stato stesso.
Naturalmente questa costruzione delle mafie come strutture alla ricerca di potere e legittimazione sociale nasce e si sviluppa nelle contraddizioni storiche tipiche del Mezzogiorno. Ma a partire dagli anni Cinquanta, inizia una lenta progressione al Nord. Dapprima si tratta di organizzare affari mafiosi fra le comunità di emigrati dal Mezzogiorno verso il Settentrione industrializzato del boom economico. Il meccanismo del soggiorno obbligato, pensato originariamente per strappare il mafioso al suo ambiente sociale e al suo territorio, è controproducente. Inviti al soggiorno obbligato, i mafiosi ritrovano fra i paesani emigrati il loro humus. Il Nord presenta inoltre enormi vantaggi in termini di colonizzazione:
a) È ricco; ci sono quindi maggiori spazi di mercato per l’estorsione, il gioco d’azzardo e, successivamente, per il traffico di stupefacenti;
b) E’ in espansione demografica, e quindi edilizia. La tradizionale capacità di penetrazione politica di organizzazioni con un connotato “politico” come le mafie si traduce in enormi spazi per accedere al ciclo dell’edilizia tramite gli appalti pubblici;
c) Il modello abitativo è spesso ideale: molte aree del Nord (si pensi alla Brianza, a molte aree del Veneto o dell’Emilia Romagna) sono “città diffuse”, ovvero reticoli di città piccole e medie, sufficientemente piccole da facilitare il radicamento mafioso da conoscenza diretta e personale, e comunque in grado, nel loro insieme, da andare a costituire una zona densamente abitata, imprenditorializzata e cementificata, cioè un bacino di mercato;
d) Nel sistema giudiziario settentrionale, non esiste spesso una professionalità specifica per combattere i fenomeni mafiosi, che quindi si sviluppano in modo relativamente indisturbato;
e) Nel Nord Est, quando inizia la colonizzazione mafiosa negli anni del boom economico, molte aree sono state strappate dalla miseria solo di recente, ed hanno quindi ancora una piccola criminalità locale, spesso attiva in reati di tipo rurale (abigeato, furti in mercati agricoli) o in fattispecie  di reati urbani “poveri” (usura, piccolo racket di prossimità, gioco d’azzardo). Questa criminalità è spesso ben disposta ad allearsi con le mafie emergenti al Nord, mettendo a loro disposizione la conoscenza del territorio e le proprie reti, al fine di poter fare il salto di qualità criminale. E’ la storia della mala del Brenta, evolutasi da una piccola organizzazione di rubagalline, attiva nell’abigeato o nei piccoli furti di generi alimentari, ad una mafia di alto livello e strutturata in modo sofisticato, grazie alla relazione coltivata fra il suo capo, Felice Maniero, ed i boss mafiosi trasferiti al soggiorno obbligato in Veneto.
Però i motivi dell’infiltrazione mafiosa in territori storicamente immuni non possono spiegare il successo dell’operazione. Né basta richiamare, in verità in modo piuttosto razzista, il radicamento nelle comunità di immigrati. Gli amministratori ed i politici che forniscono occasioni di lavoro e legittimazione ai padrini emigrati a Nord non sono meridionali. E’ gente del posto, così come gli imprenditori che accettano di lavorare con le cosche, certi giornalisti locali troppo compiacenti, o le reti criminali locali pronte a cooperare.
Il motivo è purtroppo più profondo: nel declino del Paese, anche i territori dotati delle più forti tradizioni di cooperazione, solidarietà ed associativismo, come l’Emilia Romagna, si meridionalizzano. Le reti di cooperazione si allentano. La società si sbriciola in monadi. L’individualismo metodologico prevale sul solidarismo. Perché? Perché si diffonde il sentimento di disprezzo o di disillusione per lo Stato e per le istituzioni. La politica ed il sindacato vengono associati al magna magna, della giustizia non si fida più nessuno, la scuola pubblica, abbandonata a sé stessa, senza finanziamenti e con riforme liberiste che ne stravolgono la missione, produce disoccupati oppure analfabeti funzionali. In questa disperazione, nel deserto che avanza, allora si riproducono gli stessi meccanismi di legittimazione che sono alla base del potere mafioso nei suoi territori storici di provenienza. Constatiamo che, nella deriva generale, i vecchi motivi fondanti del meridionalismo storico, che si basavano su uno stato di “eccezionalità” del Sud, sono superati. Ma non perché il Sud ha raggiunto il Nord. Ma perché il Nord è sprofondato a Sud.

lunedì 4 aprile 2016

L'attentato di Calanna: vendetta o riarticolazione territoriale delle aree di influenza delle 'Ndrine?


I due uomini escono sul terrazzino stretto di una modesta casetta di Calanna, microscopica frazione di Reggio Calabria, un pezzo di Calabria rurale incastrato fra la città e l’Aspromonte. Una casetta in pieno paese, anonima e piuttosto dimessa, non la casa opulenta di un boss in fortuna, piuttosto il “buen retiro” di un capobastone in declino. Forse i due uomini volevano prendere una boccata d’aria, con i primi caldi primaverili che rendono profumata e piacevole la sera calabrese. Il silenzio della notte viene rotto da una scarica di colpi di arma da fuoco, e dallo sgommare di una macchina che si allontana. A terra rimangono Domenico Polimeni, 48 anni, con precedenti penali, ma non legati alla ‘Ndrangheta, e Giuseppe Greco, Peppe, 56 anni, capobastone dell’omonima ‘Ndrina che, storicamente, comanda a Calanna. Il primo è morto. Il secondo, raggiunto alla testa, al volto ed a un polmone, miracolosamente ancora vivo, anche se grave. Gli inquirenti sono sicuri che l’obiettivo era quest’ultimo. Il Polimeni è stato sfortunato, si è trovato nel punto sbagliato al momento sbagliato. Forse, è solo una ipotesi, era uno degli ultimi soldati rimasti al servizio del boss in declino.

Figlio di Ciccio, boss storico di Calanna, attivo nel traffico di stupefacenti nella periferia reggina, alleato degli emergenti guidati, nel reggino, dal boss De Stefano durante le prime due guerre di ‘Ndrangheta, morto di recente di morte naturale, Peppe Greco eredita la ‘Ndrina dal padre, e nell’organizzazione complessiva della ‘Ndrangheta arriva al grado di santista, come emerge da una intercettazione. Uno dei gradi più alti dell’organizzazione, un componente della cosiddetta “Società maggiore”, che raggruppa e coordina più “Locali” ed a livello inferiore più ‘Ndrine su un territorio vasto. Una vita di violenza, come qualsiasi esponente della ‘Ndrangheta. A vent’anni, emigra in Francia, e cerca di mettere in piedi, senza successo, un giro di mazzette su locali notturni in Costa Azzurra. Cerca di prendere il controllo di una bisca clandestina gestita da una ‘Ndrina della Locride. Si presenta nel locale con il mitra in mano. Si fa pagare ed esce. Si salva la vita dalla vendetta dei derubati solo grazie all’intercessione del potente boss Paolo De Stefano, amico del padre.  Poco tempo dopo, a Gallico, periferia di Reggio Calabria, un imprenditore, Domenico Falcomatà gli spara, per un litigio legato ad una storia di donne. Il cassiere di un supermercato viene ucciso accidentalmente, Peppe si salva la pelle. Succede al padre nel controllo di Calanna. Nominalmente imprenditore edile, controlla l’amministrazione comunale e si fa assegnare le gare di appalto, usando la violenza per intimidire la popolazione e allontanare le ditte concorrenti. Contrariamente ad altri capibastone, la sua indole particolarmente violenta lo rende poco amato fra i paesani. In una informativa dei carabinieri del 1993, si dice infatti che “trattasi di elemento che in pubblico gode scarsa stima e reputazione, facente parte della presunta omonima cosca mafiosa capeggiata dal proprio padre Francesco nato a Calanna l`1.1.1930, con precedenti penali per favoreggiamento, furto, apertura e sfruttamento abusivo di cava”.

Viene arrestato nell’ambito dell’operazione Meta, dopo aver collezionato un curriculum criminale per omicidio volontario in pregiudizio di un vigile urbano, truffa, furto, associazione per delinquere di tipo mafioso, lesioni personali, porto abusivo di coltello di genere vietato, rimpatrio con foglio di via obbligatorio. Dopo l’arresto, decide di collaborare come pentito, una decisione assolutamente singolare, dato che nella ‘Ndrangheta non si pente quasi mai nessuno. E contribuisce ad inguaiare, per voto di scambio, l’ex consigliere regionale del Pdl Santi Zappalà, che secondo il suo racconto gli avrebbe promesso 30.000 euro in cambio di un pacchetto di 500 voti. Proposta che però sarebbe stata declinata dal Greco, perché giudicata poco redditizia. Ma anche la sua storia di pentito è piena di stranezze. Più volte ricoverato in istituti psichiatrici o in centri per la disintossicazione, essendo dipendente da cocaina,  nel 2015 sparisce, per qualche mese, dal luogo dove veniva tenuto nell’ambito del programma di protezione dei testimoni. E, arrivato alla deposizione processuale ad ottobre scorso, come un personaggio del Padrino, dichiara all’improvviso di non voler più collaborare, e di rinunciare alla protezione, gettando gli inquirenti nella disperazione. Evidentemente per salvare la pelle da possibili vendette.


Torna quindi nella casa paterna, in paese, a scontare ai domiciliari la pena di 4 anni inflittagli per traffico di stupefacenti. Senza più il potere di un tempo. Qualcuno inizia a fargli terra bruciata attorno. A febbraio tentano di uccidere Antonino Princi, considerato da Alessia Candito, di Repubblica, vicino a Greco, in un inseguimento in auto da film poliziesco. E ieri l’attentato. Greco, dopo il pentimento, non era più considerato un intoccabile, evidentemente. Ma vi è anche un'altra ipotesi, e la fa  il procuratore capo della Dda, Federico Cafiero de Raho, collegando l'episodio all'ondata di violenza che ha colpito Reggio Calabria di recente, e che potrebbe essere indicativa dell'esplosione di una possibile guerra di 'Ndrangheta, mirata a ristrutturare i rapporti di potere territoriale dei diversi clan. 

venerdì 8 gennaio 2016

El Chapo Guzmán e la tragedia del Messico


E’ stato nuovamente arrestato, dopo sei mesi di latitanza dalla sua evasione da un carcere di massima sicurezza teoricamente inespugnabile, el Chapo Guzmán. Ed è prevedibile che, con il suo potere e la sua capacità di influenza su polizia e magistrati, la sua vicenda non sia finita qui.
Figura oramai assurta a leggenda del narcotraffico, un po’ come il colombiano Escobar qualche anno fa, El Chapo ha costruito il suo sistema di potere dal nulla. Figlio di Emilio Guzmán Bustillos e di Maria Consuelo Loera Perez, Joaquín Archivaldo Guzmán Loera nasce forse il 25 Dicembre 1954, forse il 4 aprile 1957 (e l’incertezza sulla data di nascita contribuisce all’alone di leggenda del personaggio) in un paesino microscopico, Badiraguato, nello Stato di Sinaloa, nord-ovest del Messico. Il suo destino è segnato sin da piccolo. Badiraguato è l’epicentro del traffico di oppio sin dagli anni Quaranta.  Impiantato da un cinese e da alcuni statunitensi, e finanziato dal Governo Roosevelt che abbisognava di grandi quantità di stupefacenti per le truppe impegnate in guerra, e successivamente alla fine della guerra monopolizzato da Esercito e Forze dell’Ordine per crearsi un business redditizio, il “cultivo” di oppio sfruttava i contadini locali, chiamati “gomeros”, che da questo ricco traffico guadagnavano solo pochi spiccioli per la sopravvivenza.
Lo stesso padre di Joaquín è un gomero, ed il ragazzo cresce in condizioni di miseria ed emarginazione sociale, in una famiglia di nove fratelli, dei quali tre muoiono di malattia in età infantile. La scuola più vicina è a sessanta chilometri di distanza, la famiglia ha bisogno di una mano sul lavoro, ed a 13 anni il giovane Joaquín lascia i libri per lavorare nella raccolta di arance. Ma il ragazzo è intraprendente. Non vuole restare per sempre uno straccione come il padre, ed a 15 anni, insieme allo zio, Pedro Avilez Perez, inizia a coltivare marihuana, vendendola sul mercato di Culiacán, la capitale dello Stato. I suoi clienti sono spesso esponenti delle forze dell’ordine corrotti.  Si conquista allora il soprannome di Chapo, ovvero “tappo”, per la sua bassa statura. Lo zio Pedro, soprannominato “León de la Sierra”, è uno dei precursori del narcotraffico messicano, il primo ad aver intuito le opportunità di mercato della marihuana, il primo ad aver inventato il sistema degli idrovolanti per trasportare i carichi negli USA. Ma viene assassinato nel 1978 da un gruppo di militari corrotti, ed El Chapo si ritrova solo.
Viene però notato dagli uomini di Miguel Angel Felix Gallardo, detto El Padrino, il più grande narcotrafficante messicano dei tempi, divenuto lo zar della cocaina grazie all’alleanza con il cartello di Medellín di Pablo Escobar.  Gli propongono il reclutamento, il ragazzo è abbastanza intelligente da capire che non può continuare a operare in proprio nel territorio del Padrino, se ci tiene alla vita, ed entra nell’organizzazione dimostrando importanti qualità di lealtà e di capacità organizzativa, ascendendo verso incarichi di sempre maggiore responsabilità. Coordinando i carichi di droga oltre il confine con gli USA, acquisisce esperienza operativa, capisce l’importanza di difendere i sottoposti e di avere buone relazioni con le popolazioni locali, che forniscono una copertura alle attività dell’organizzazione. Vede come opera il suo capo, El Padrino, che gestisce buoni rapporti con le autorità politiche e giudiziarie, e che manovra i matrimoni delle sue figlie per stabilire buone relazioni con le altre organizzazioni.
Nel 1989, El Padrino Gallardo viene arrestato, per il sequestro ed omicidio dell’agente infiltrato della DEA “Kiki” Camarena[1], ed il suo impero si disintegra, spartendosi fra i suoi colonnelli. I due fratelli Arellano Felix si infiltrano nella Baja, creando il cartello di Tijuana, mentre El Chapo fonda il cartello di Sinaloa, insieme ad altri ex collaboratori del Padrino come Héctor Palma Salazar, detto “El Güero”, uno dei più sanguinari sicari di Gallardo, inizialmente il primo capo del cartello, e Adrián Gómez González. Inizia una sanguinosa guerra con i clan rivali, specie con gli altri scissionisti del gruppo del Padrino, quelli di Tijuana. Il 24 Maggio 1993, i sicari del cartello di Tijuana organizzano un agguato contro di lui all’aeroporto di Guadalajara. Ma scambiano la Ford Grand Marquis del cardinale Juan Jesús Posadas Ocampo per quella del Chapo, ed ammazzano per errore l’alto prelato, insieme ad altre sei persone.
Questo evento è eccessivamente grave, e la Chiesa sollecita una riparazione alle Autorità messicane. Due settimane dopo, quindi, El Chapo, lasciato senza protezione politica, viene catturato nel Chiapas, nel Sud del Paese, alla frontiera con il Guatemala. Viene condannato a venti anni e nove mesi e carcerato nell’istituto penale di Puente Grande, nello Stato di Jalisco, non lontano dal suo feudo territoriale di Sinaloa. Corruzione e influenza politica si fanno sentire: praticamente il periodo carcerario è una sorta di vacanza. Può utilizzare un telefono cellulare per parlare con i suoi complici, organizzando affari da dentro il carcere,  può ricevere giornali in galera, gli viene riconosciuto un diploma di maturità, nonostante sia semianalfabeta. Gli altri reclusi lo temono e lo rispettano, viene chiamato El Jefe, oppure don Joaquín, ed amministra la giustizia fra i detenuti, proteggendoli persino da maltrattamenti da parte delle guardie. Il fratello Arturo, detto “El Pollo” fa da reggente dell’organizzazione (e verrà poi egli stesso arrestato nel 2001 e ammazzato in carcere tre anni dopo mentre parla con il suo avvocato). Il 18 Gennaio 2001, evade dal carcere nascosto in un carrello di lavanderia pieno di panni sporchi. Dall’indagine condotta, risulteranno coinvolte nella sua fuga 71 persone, fra le quali 15 funzionari del sistema penitenziario.
Nel frattempo, El Güero viene arrestato nel 1995 dall’Esercito federale messicano, e quindi El Chapo, formalmente latitante ma ben inserito nel suo territorio di Sinaloa, si ritrova a essere capo incontrastato. Riorganizza, rafforzandola, l’organizzazione, associandosi a Ignacio Coronel, detto “Nacho”, Juan José Esparragoza, “El Azul”, Ismael Zambada, “El Mayo” e Arturo Beltrán Leyva, “el Barbas”. I quattro erano stati i luogotenenti del capo del cartello di Juaréz, Amado Carrillo Fuentes, chiamato “El señor de los Cielos”, fintanto che il vero signore dei cieli lo richiamò a sé, nel 1997, a seguito di una sparatoria. In questo modo, il cartello di Sinaloa assorbe ciò che resta di quello di Juaréz, ampliando il suo raggio di azione.  El Chapo è un leader mafioso autentico: intreccia relazioni intense con la comunità di Sinaloa, radicandosi dentro la vita civile e politica, e circondandosi da una rete di rispetto e protezione. Migliaia di persone lavorano nelle sue imprese, create con il riciclaggio del denaro sporco, chi ha bisogno di un lavoro o di un favore può bussare alla sua porta. Evita, però, di scadere in atteggiamenti troppo appariscenti, o di mostrare troppo il suo potere, come invece fanno i colombiani. Rimane discreto, non si candida ad elezioni locali, ma manovra da dietro le quinte i suoi candidati, non organizza festini lussuriosi, non va in giro con automobili troppo appariscenti, se ne sta perlopiù chiuso nella sua lussuosa villa. Unico vizio, peraltro che gli costerà caro: le donne. Si sposa tre volte, ed ha una infinità di relazioni, generalmente con fotomodelle ed ex reginette di bellezza locali. Tutte donne che, dopo, testimonieranno contro di lui.
Ma gestisce il potere in modo sanguinario: centinaia di persone vengono uccise e decapitate, oppure sciolte nell’acido. La guerra con i cartelli rivali irrora di sangue tutto il Messico settentrionale. Si muove nella sua città con la sicurezza di un intoccabile. Ci sono diversi racconti in cui viene visto mangiare tranquillamente al ristorante, scortato addirittura dai militari che avrebbero dovuto arrestarlo. Quando entra in un locale, chiede a tutti, con gentilezza e voce bassa, di consegnare ai suoi uomini i cellulari. E li restituisce quando se ne va. Si dice che a Ciudad Juaréz entra in un ristorante scortato da un centinaio di guardie del corpo, mangia e poi paga il conto per tutti i clienti. Nel 2008, un suo figlio, Edgar, pubblica tranquillamente su You Tube un video nel quale afferma che a Sinaloa tutti sanno dove è suo padre, persino i militari. Pochi giorni dopo, viene crivellato di colpi nel parcheggio di un centro commerciale di Culiacán, da esponenti del cartello rivale del Golfo. Secondo il cantautore Lupillo Rivera, il giorno del suo funerale non si trovavano rose da nessuna parte, in città. Tutti le avevano comprate per il funerale del ragazzo.
Innovatore geniale dei metodi di trasferimento dello stupefacente negli USA, inventa una rete di gallerie sotterranee che corrono sotto il confine, attraverso le quali portare la droga, e riesce così ad eludere la DEA. Stipula alleanze strategiche con la malavita delle gang di emigrati messicani e centroamericani negli Usa, fra cui “La Mafia Mexicana”, utilizzandole come terminali per lo spaccio di strada nelle città statunitensi. Una organizzazione chiamata Organización Herrera trasporta per suo conto la droga dal Sudamerica alla frontiera fra Messico e Guatemala. Fra 1990 e 2008, introduce più di 200 tonnellate di cocaina negli Stati Uniti, e riporta in Messico 5,8 miliardi di dollari in contanti.
Il vento comincia a cambiare nel 2008. Il nipote Alfonso viene arrestato con altre cinque persone dopo una sparatoria di strada a Culiacán. A febbraio 2009, una maxi-operazione della DEA porta all’arresto di 750 affiliati al cartello negli USA, con il sequestro di una ingente quantità di denaro e veicoli. A marzo viene arrestato uno dei colonnelli, “Vicentillo” Zambada. Ad agosto dello stesso anno, la DEA disarticola la rete del cartello a Chicago. Nel giugno 2010, “Nacho” Coronel viene abbattuto dall’Esercito durante una sparatoria. A giugno 2011, l’Esercito federale messicano scopre uno dei più importanti laboratori di stupefacenti usato dal cartello, a Jalisco, arrestando uno dei periti chimici del Chapo, Hector Villalobos, detto “El Ranger”. Nel 2013, “El Azul” muore di infarto dopo un incidente stradale, e vengono arrestati Jesús Salazar Ramirez, “El Muñeco”, che controllava per El Chapo la produzione di droga nell’area di Sonora, nonché Rosalina Carrillo Ochoa, “La Estrella”, a capo del cartello di Jalisco, considerato una emanazione di quello di Sinaloa. Ad inizio 2014, José Arechiga Gamboa, detto “El Chino Antrax”, capo del gruppo “Antrax”, essenzialmente un gruppo paramilitare di guardie del corpo dei leader del cartello, viene arrestato all’aeroporto di Amsterdam (probabilmente stava cercando di espandere l’attività del cartello in Europa).
E così, a febbraio 2014 tocca al Chapo. Viene arrestato durante una operazione congiunta fra Marines messicani, DEA e Marshalls statunitensi, in un edificio a Mazatlan, elegante città turistica costiera appartenente al suo feudo di Sinaloa. Trasferito in un carcere “di massima sicurezza”, finalmente lontano dal suo feudo territoriale, vicino a Toluca, nel Sud, si fa notare per essere, per così dire, un carcerato molto vivace. A Luglio, cerca di iniziare uno sciopero della fame, protestando contro i maltrattamenti ricevuti.  A Febbraio, compare un manoscritto in cui si denunciano torture e condizioni di insalubrità. Il dato interessante è che tale manoscritto è firmato sia da Guzmán che da esponenti del cartello nemico di Tijuana, che in teoria dovrebbero essere separati in luoghi diversi del carcere, e non avere contatti fra loro. Evidentemente, la “massima sicurezza” non è proprio tale, e la comune condizione carceraria induce ad alleanze inedite. D’altra parte, le coperture politiche e giudiziarie continuano: al Chapo viene evitata l’umiliazione di doversi rasare a zero i capelli, come gli altri detenuti, e riceve visite non previste dal regolamento da parte della moglie, ma anche di alcuni esponenti politici locali.



Tra l’altro, El Chapo non è affatto isolato. Nel giorno del suo secondo arresto, si verificano manifestazioni popolari a suo sostegno nell’area di Sinaloa. Tanti messicani devono qualcosa al Capo.
 L’11 luglio 2015, dopo appena 17 mesi di galera, El Chapo fugge per la seconda volta nella sua vita. Alle nove di sera, le telecamere di sorveglianza lo vedono entrare in una cella non coperta dalle telecamere stesse. Le guardie vanno a vedere, e trovano la cella vuota. El Chapo è fuggito attraverso un tunnel sotterraneo scavato dai suoi uomini sotto il carcere “di massima sicurezza”. Torna nel suo territorio di Sinaloa e ricomincia a lavorare per riorganizzare il cartello. Stringe un tregua con gli ex rivali del cartello del Golfo, e con altri gruppi, come Los Caballeros Templarios, contro la fazione rivale composta dal cartello di Tijuana, Juárez e gli ex alleati Beltran Leyva, oggi dissolti e sostituiti dai Guerreros Unidos (i presunti responsabili del recente omicidio del sindaco Gisela Mota). Ad ottobre, in un tentativo di cattura da parte dei marines messicani, riesce a fuggire, seppur ferito ad una gamba ed al volto. Oggi, viene ricatturato per la terza volta, dai “marinos”, nella città di Los Mochis, nel territorio di Sinaloa, a seguito di una violenta sparatoria nella quale perdono la vita cinque persone. L’impressione è che le coperture politiche e sociali siano ancora tali da non mettere la parola “fine” alla sua storia.
Il sostegno popolare per un criminale violento e senza scrupoli come El Chapo, dovrebbe far riflettere. Segnala un modello di sviluppo sbagliato, che ha inteso praticare un outsourcing nel Messico settentrionale del modello industriale statunitense di quaranta o cinquant’anni fa. Generando un miscuglio esplosivo in cui una borghesia nazionale malformata e compradora, abituata più alla negoziazione ed all'intermediazione politica che alla promozione dello sviluppo, è costretta, per le sue carenze culturali, ad adottare forme di controllo politico poco democratiche e clientelari. I terminali stranieri di questa borghesia corrotta ed incapace sono interessati a mantenere uno sviluppo combinato e diseguale, dove a fronte di investimenti di ammodernamento dell'industria e delle sue infrastrutture si mantiene la popolazione in condizioni di relativa povertà, replicando non di rado forme di stratificazione sociale pre-capitalistiche, al fine di avere manodopera docile ed a basso costo.
Gli Stati del nord del Messico, dove tuta questa tragedia del narcotraffico si svolge, sono fra le zone più densamente industrializzate del Paese. Città di frontiera con gli USA come Ciudad Juarez, Tijuana o Mexicali sono poli industriali di prim'ordine nell'automotive, nella fabbricazione di camion, nell'elettronica di consumo, nella chimica, nella metallurgia e siderurgia, nella produzione di macchinari industriali. Senza contare un afflusso turistico enorme dagli USA limitrofi, ed un ampio bacino di economia illegale, legato, oltre che al narcotraffico anche all'industria (perché di questo si tratta) dell'emigrazione clandestina. Nonostante ciò, gli indici di benessere e di distribuzione dei redditi non sono particolarmente migliori rispetto a quelli del Sud del Paese, dove una industrializzazione meno intensa ha preservato, spesso, modelli sociali e comunitari più equilibrati. In cambio, il Nord risente di tutto il pattume del capitalismo: sfruttamento, diseguaglianza, consumismo. La distruzione di modelli socio-culturali endogeni, in cambio degli aspetti più predatori del capitalismo, ha creato un enorme spazio per lo sviluppo della criminalità legata al narcotraffico: gli ha fornito manodopera fra gli strati sociali più alienati, ed anche una giustificazione culturale ("el narco" viene spesso identificato come una sorta di reincarnazione degli eroi della Rivoluzione, in un più che giustificato relativismo rispetto ad uno Stato che ha la faccia violenta del "federal", o quella corrotta del funzionario) ed un radicamento sociale, nella misura in cui El Chapo fornisce lavoro e servizi essenziali ad una popolazione indigente, in assenza dello Stato.




[1] Si scoprirà poi che Camarena fu ucciso dalla CIA, perché aveva scoperto che parte dei proventi della vendita di droga del cartello di Guadalajara venivano usati per finanziare i Contras in Nicaragua.