Il 2 Gennaio scorso, nel carcere
Anisio Jobim di Manaus, nel nord amazzonico del Brasile, uno dei più importanti
centri di detenzione di un sistema carcerario inumano ai limiti dell’immaginabile[1],
si è consumato un massacro: sessanta detenuti sono morti, con scene al limite
di un film horror: corpi decapitati gettati fuori dalle finestre, cadaveri
fatti a pezzi messi dentro carrelli della spesa.
Si tratta dell’ultimo episodio di
una lunga scia di massacri dentro gli istituti penitenziari del Paese, che ha
aggiunto ad una storia di sangue fra poliziotti e detenuti, e fra bande diverse
di detenuti, un nuovo capitolo particolarmente efferato, tale capitolo si
chiama Primeiro Comando da Capital (PCC). Si tratta di una organizzazione
criminale con velleità politiche, nata proprio dalle durissime condizioni
carcerarie e dalle grandi ingiustizie che si consumano dentro le galere brasiliane.
E’ del 1992 il massacro del carcere di Carandiru. A seguito di una sommossa
carceraria, la polizia militare dello Stato di San Paolo entra nel carcere ed
ammazza 111 detenuti, spesso anche chi si vuole arrendere o si rifugia nelle
celle. Il successivo processo contro i responsabili si risolve in una bolla di
sapone, e nel 2002, come a voler cancellare tutto, la prigione viene demolita.
Alcuni dei detenuti di Carandiru,
quelli più pericolosi, vengono trasferiti, dopo i fatti del 1992, nel carcere
di Taubaté, chiamato “Piranhao”, ad un’ora da San Paolo. Un carcere di massima
sicurezza, pensato per i detenuti più incalliti e la criminalità peggiore, un
carcere terribile, dove i detenuti
rimangono dentro le loro celle per 23 ore al giorno, senza televisione,
radio o computer, e grandi limitazioni rispetto alle visite dall’esterno. Ed è
lì, in quell’inferno, che si forma il PCC, con l’intento iniziale di “vendicare”
i detenuti uccisi durante i fatti di Carandiru. Il suo intento “ufficiale” è
più politico che criminale, nella misura in cui pretende di voler “combattere l’oppressione
nel sistema carcerario paulista”. Il gruppo si dota di uno Statuto, in cui si
afferma, al punto 16, di voler “rivoluzionare il Paese dall’interno delle
prigioni”, in una sorta di guerra civile di tipo carcerario. Il motto del
gruppo è “paz, justica e liberdade”, in una sorta di scimmiottamento del
zapatismo, ed utilizza il simbolo cinese dello ying e yang, in un bizzarra
contaminazione, ben poco rivoluzionaria, con il confucianesimo. Ed in effetti, apparentemente
in linea con i suoi intenti pseudo-rivoluzionari, il PCC si rende responsabile
di numerose ribellioni violente dentro le carceri pauliste, spesso coordinate
centralmente da uno dei leader dell’organizzazione tramite cellulare. Come nel
caso del 2001, quando Idemir Carlos Ambrosio, detto “Sombra”, dalla sua cella
dentro il Piranhao coordina via cellulare una ribellione simultanea in 29 case
penitenziarie dello Stato di San Paolo, che terminerà con sedici detenuti
uccisi.
Così come le grandi ondate di
omicidi di membri della polizia militare paulista sono apparentemente giustificate
dalla vendetta per i fatti di Carandiru: nel 2006, in particolare, una ondata
di attacchi a membri della polizia militare, a civili (in particolare, vengono
incendiati autobus di linea) ed a caserme dell’Esercito e dei Vigili del Fuoco,
accompagnati da ribellioni carcerarie, attribuiti al PCC, producono quasi 300
morti. Nel 2012, si produce una analoga ondata di violenze, anche questa
diretta soprattutto verso poliziotti militari ed esponenti del sistema
giudiziario di San Paolo.
Uno dei leader del Pcc, Marcos
Camacho, detto “Marcola” o “Playboy”, un rapinatore di banche con pretese
intellettuali, in una intervista del 2007 a O Globo, espone strampalate idee
politiche e rivoluzionarie. Si autodefinisce “il principio della coscienza
sociale di voialtri borghesi”, parla di una nuova classe sociale rivoluzionaria:
“non ci sono più proletari o infelici o sfruttati. C’è una terza forza che cresce
lì fuori, coltivata nel fango, educandosi nell’analfabetismo più assoluto,
diplomandosi nelle carceri, come un mostro Alien nascosto negli angoli della
città…i miei soldati sono una mutazione della specie sociale”. Questa nuova
forza, una sorta di sottoproletariato criminale che alligna nelle carceri,
sarebbe il frutto della “post-miseria”, ovvero di un misto di povertà, società
dell’informazione e tecnologia.
Ma non ci si illuda. Tutto questo
non ha niente a che vedere con la politica, con la rivoluzione, con la
giustizia e con la miseria delle favelas. Il PCC non è altro che una
organizzazione criminale, con alcune caratteristiche mafiose. Come le mafie,
infatti, si insedia laddove non esistono lo Stato e la legge, e si propone di
creare un anti-Stato, uno Stato alternativo: nelle carceri brasiliane in
condizioni disumane, dove persino la speranza muore, il PCC utilizza una
retorica dell’ingiustizia e della “vendetta” contro la polizia per attrarre
nuove reclute e per generare quella legittimazione che gli serve per condurre
in tranquillità le sue operazioni criminose. Pertanto, se si vuole ricercare
una qualche base “sociale” del fenomeno, essa è simile a quella delle mafie:
laddove vi sono comunità abbandonate dallo Stato e mantenute in condizioni di
deprivazione o ingiustizia, o sotto leggi particolarmente disumane, queste
comunità tendono ad autorappresentarsi come esterne, o aliene, all’organizzazione
statuale, e quindi sono facili prede di chi cerca di presentare loro un
anti-Stato più giusto, o più a loro misura. poiché ogni Stato si autolegittima
sulla scorta di una etica fondante, la retorica para-rivoluzionaria del PCC ne
costituisce la base di propaganda.
L’ondata di omicidi di poliziotti e giudici
del 2006 e del 2012, così come le ribellioni carcerarie “pilotate”,
corrispondono a fasi in cui la giustizia cerca di condurre operazioni mirate a
disarticolare l’organizzazione. Dietro alla sconclusionata retorica della
vendetta contro gli sbirri assassini, si nasconde più semplicemente il
tentativo di intimidire e influenzare gli inquirenti ed i magistrati. Oppure,
esattamente come nel caso degli attacchi mafiosi in Italia del 1993, per
indurre il legislatore ad abolire il regime carcerario di rigore, chiamato
regime disciplinare differenziato (l’equivalente brasiliano del 14-bis italiano).
Per questo motivo, sembra che Marcola abbia ordinato l’omicidio del giudice
Antonio Machado Dias.
Il PCC vive, infatti, di attività
criminali: si finanzia con lo spaccio di cannabis (chiamata maconha in Brasile)
e cocaina, con le estorsioni a carcerati o a civili e con rapine a banche e portavalori.
E’ presente nel 90% delle carceri pauliste, con 6.000 affiliati dietro le
sbarre ed altri 1.600 esterni, ed un rete che si dirama in quasi tutto il
Paese, con le gang rivali che, via via, vengono sconfitte, sottomesse e ridotte
a “filiali” locali del gruppo. Vi sono anche segnali di internazionalizzazione
del gruppo in Paraguay e Bolivia, lungo le rotte che riforniscono di cocaina il
Brasile. sono attestati anche rapporti con la ‘Ndrangheta[2].
Sotto il comando di “Geleiao” e “Cesinha”, il PCC si accorda inizialmente con un
altro gruppo criminale brasiliano, il Comando Vermelho, attivo a rio de
Janeiro, salvo poi accaparrarsi il mercato della droga carioca, iniziando una
sanguinosa guerra con il Comando Vermelho stesso, sconfitto ridotto a gruppo “vassallo”. Lo stesso
massacro di Manaus, citato ad inizio articolo, è il frutto di una guerra per il
controllo dello spaccio di stupefacente contr un altro gruppo criminale, la
Familia Do Norte, molto forte negli Stati amazzonici settentrionali, dove il
PCC cerca di entrare.
La struttura del gruppo è verticale: al suo apice, vi è
Marcola, insieme ad un certo “Cabeicao”. Le diverse unità che operano nelle carceri
o nelle città brasiliane sono legate al vertice da vincoli di fedeltà, unità ed
omertà, presenti nel già citato Statuto, esattamente come qualsiasi
organizzazione criminale o paramafiosa. Esattamente come una organizzazione
mafiosa, i nuovi arruolati devono seguire un percorso di affiliazione
complesso, in cui il nuovo adepto deve essere presentato da un membro anziano già
attivo, ed essere sottoposto ad una cerimonia di “battesimo”, avendo tre altri
membri come padrini. Qualcosa che ricorda lontanamente le cerimonie di
affiliazione della ‘Ndrangheta. Ogni componente del PCC deve versare alla cassa
comune una somma di denaro mensilmente, differenziata fra membri carcerati e
membri liberi. Una consuetudine diffusa in gruppi criminali di tutte le
latitudini, nei quali si creano vincoli di solidarietà e mutua assistenza fra
componenti in libertà e componenti in prigionia.
In conclusione, non si cerchino
spiegazioni politiche laddove ci si trova di fronte a classici fenomeni
criminali organizzati. Piuttosto, ci si preoccupi dell’espansione del gruppo
criminale oggetto del presente articolo, oramai uscita fuori dai confini
originari di San Paolo e delle sue carceri, per assumere un ruolo di player
globale nel traffico della cocaina.
[1]
E’ del 2015 la scoperta che nel carcere di Pernambuco si uccidevano e mangiavano
i detenuti più deboli. Il sistema ha una popolazione di circa 230.000 persone
superiore rispetto alla capienza massima. Le condizioni carcerarie sono tali
che è consuetudine, da parte delle guardie carcerarie, consegnare ai capi delle
bande più importanti le chiavi delle celle, lasciando che siano loro, spesso
con l’ausilio di vere e proprie milizie armate, ad amministrare la discipina.
[2] In particolare,
nel 2014 si scopre che, tramite un intermediario soprannominato “Dido, il PCC
rifornisce di coca la ‘Ndrangheta, per la vendita sul mercato italiano ed
europeo.
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