Quando si parla di immigrazione,
sarebbe il caso di partire dai dati, invece di affidarsi a mozioni dei
sentimenti, che lasciano il tempo che trovano.
I dati ufficiali del Ministero
dell’Interno ci dicono, che nel periodo 1 gennaio-26 luglio 2016, gli sbarchi
in Italia sono stati 88.360. Nel corrispondente periodo del 2017, sono saliti a
94.448, per poi crollare, nel 2018, a 18.130, l’81% in meno rispetto all’anno
precedente. Perché tale repentino crollo? Non certo per un altrettanto
repentino miglioramento della situazione nei Paesi di origine dei flussi (cfr. in un prossimo articolo per una analisi di sintesi della situazione politica e sociale dei Paesi di partenza). Ma per un semplice motivo. Il
Ministro Minniti, in prima battuta, e il Ministro Salvini, in modo molto più
efficace, hanno iniziato a contrastare il fenomeno, a stringere accordi
specifici con la Libia (che da sola assorbe il 95% delle partenze nel 2017), ad
armare la sua Guardia Costiera, ad istituire hotspot nelle aree di imbarco.
Salvini, a partire da giugno, cioè all’inizio del periodo estivo di picco delle
partenze, ha chiuso i porti, ha dissuaso l’attività delle ONG, soprattutto ha
lanciato chiaramente un messaggio di chiusura agli arrivi, dopo l’insensata
politica delle porte aperte varata dal 2011 in poi e poi ripresa ed amplificata
da Renzi.
Questo dato non significa, come
furbescamente prova a dire D’Alema, che non c’è una emergenza migratoria.
Quella c’è eccome. In due anni e mezzo sono sbarcati da noi circa 319.000
migranti, una popolazione non molto lontana da quella di una città medio-grande
come Firenze. Senza contare gli anni pre-2016. Si stima che i soli immigrati
irregolari che si aggirano nel nostro Paese siano circa 570.000. Gli stranieri non
comunitari presenti in forma regolare, a fine 2017, sono 3,16 milioni. Stiamo parlando,
fra regolari ed irregolari, di quasi 4 milioni di persone. I ricollocamenti in
altri Paesi della Ue, al 16 luglio 2018, riguardano meno di 13.000 unità, una
goccia nell’oceano. Sono numeri tipici di una popolazione di un piccolo Stato.
E’ come se ci fossimo messi in casa, in un decennio, un altro Paese.
I costi economici e sociali,
presenti ma soprattutto futuri, di questa popolazione aggiuntiva, povera e
destinata ad occupare i ranghi inferiori del mercato del lavoro, in termini di
servizi welfaristici, sicurezza, interventi di accoglienza ed integrazione,
pressione al ribasso sui salari (soprattutto quelli già più bassi, poiché la
competizione avviene sulle professioni meno qualificate) sono inimmaginabili.
Il loro apporto al sistema previdenziale è irrisorio, stanti i modesti livelli
retributivi medi sui quali sono calcolati i contributi, e, spingendo verso il
basso anche i salari degli autoctoni, come conseguenza di ovvi meccanismi
concorrenziali dal lato dell’offerta sul mercato del lavoro, tendono ad
impoverire anche il gettito pensionistico degli italiani. Nel frattempo, essi
pesano sui servizi pubblici a costo unitario fisso finanziati dalla fiscalità
generale (sanità, trasporti, scuola, ecc.) e sulle politiche di contrasto alla
povertà ed al disagio socio-abitativo (soltanto le pensioni sociali erogate a
migranti sono cresciute di oltre il 100% in circa un decennio) senza al
contempo, ancora una volta a causa dei modesti livelli retributivi, contribuire
al loro finanziamento (è lo stesso Inps a dichiarare nel suo Rapporto Annuale
che i salari dei lavoratori immigrati oscillano, a seconda dei settori, dal 66%
al 91% dei loro omologhi italiani). La forbice si aggraverà sempre più nei
prossimi anni.
I conti sono presto fatti: la
spesa pubblica al netto del pagamento degli interessi per il debito pubblico è
di 9.332 euro ad abitante all’anno. Il gettito fiscale e contributivo è di 8.916 euro ad abitante (Ragioneria Generale
dello Stato, anno 2017). Siamo già in situazione di squilibrio, ed
evidentemente l’ingresso di una popolazione aggiuntiva di poveri, che guadagna
poco e paga poche imposte (e quindi contribuisce ad abbassare il dato medio di
entrate per abitante) ma che pesa finanziariamente esattamente quanto gli italiani
sui servizi welfaristici (perché curare o far studiare un immigrato costa
esattamente quanto un italiano) non potrà che allargare il disavanzo pubblico. Altro
che immigrati che ci pagano le pensioni!
Se moltiplichiamo le spese di comparti a costo rigido unitario (sanità, scuola,
sicurezza e giustizia) per il numero di extracomunitari, regolari e non, residenti
nel nostro Paese, otteniamo una spesa aggiuntiva di 4,2 miliardi all’anno,
soltanto per questi servizi.
E rispetto ai dati di Boeri per
le pensioni, occorre una precisazione: l’INPS stesso, nel suo trionfalistico
Rapporto Annuale in cui magnifica l’apporto dei lavoratori extracomunitari al
sistema previdenziale, lascia passare informazioni piuttosto discordanti. In particolare,
l’apporto contributivo dei lavoratori extracomunitari già iscritti all’INPS non
sembra molto brillante: l’INPS stima un contributo positivo per 36,5 miliardi,
fra contributi e prestazioni, ma lo stesso Rapporto, in una noticina scritta in
carattere minuscolo e inchiostro simpatico, specifica che dal conto delle
prestazioni sono stati esclusi 40,3 miliardi di prestazioni già maturate ma non
ancora erogate, a favore di lavoratori extracomunitari che non hanno ancora l’anzianità
contributiva necessaria per accedere alla pensione di anzianità. Ma evidentemente,
quando essi potranno accedervi, il saldo positivo fra contributi e prestazioni
diverrà leggermente negativo.
Non parliamo poi delle stime sull’apporto
al sistema previdenziale degli immigrati futuri: la dinamica retributiva reale
di tali lavoratori viene posta pari ad una crescita dell’1,5% annuo. Troppa grazia
Sant’Antonio! Nell’ultimo decennio, le retribuzioni medie degli italiani sono cresciute
di solo l’1,1% annuo in termini nominali, e sono state negative in termini
reali. E’ ovvio che se si sopravvaluta la dinamica retributiva, si sopravvaluta
il gettito contributivo, e quindi il saldo netto degli apporti pensionistici
degli immigrati diventa artificiosamente positivo. Inoltre, dal calcolo delle
prestazioni stimate per il futuro l’INPS esclude le pensioni assistenziali, che
però costituiscono il segmento in cui è più rapido l’incremento di beneficiari
stranieri. Infatti, le pensioni assistenziali (che come è noto non richiedono
il versamento di contributi), che nel 2007 venivano erogate a 28.516
beneficiari extracomunitari, per un valore medio annuo dell’indennità pari a
6.330,58 euro, nel 2016 sono erogate a 88.860 beneficiari extracomunitari
(+211,6%) per un importo medio annuo di 7.068,93 euro (+11,7%). Di fatto, nel
2016, il 61,2% dei cittadini extracomunitari titolari di una pensione erogata
dall’Inps hanno una pensione assistenziale. E’ evidente che eliminare dal
calcolo tali pensioni, che sono così diffuse e così in crescita fra gli
extracomunitari, significa sottovalutare il flusso di spesa previdenziale. L’imbroglio
è presto fatto: entrate contributive sovrastimate, uscite contributive
sottostimate, ed ecco che l’apporto dei lavoratori extracomunitari futuri al
sistema previdenziale diventa positivo!!!
In sostanza: i dati ci mostrano
che già oggi, se le frontiere fossero, per ipotesi, completamente chiuse, l’immigrazione
extracomunitaria E’ una emergenza sul versante della tenuta dei conti pubblici
e di quelli previdenziali. Lo è sul versante della percezione di insicurezza
della popolazione, su quello dell’accesso ai servizi welfaristici, su quello
dell’identità culturale ed etnica di un popolo. I numeri mostrano come, con un
po’ di determinazione, i flussi in ingresso possono essere largamente
contenuti, e forse anche fermati. La retorica dell’immigrazione non frenabile e
benefica non ha quindi alcun riscontro empirico. Se anziché spendere circa 4,3
miliardi all’anno per l’accoglienza (per i quali, bontà sua, la Ue ci rimborsa
soltanto 80 milioni) spendessimo di più per cooperazione con i Paesi di
partenza e di transito (per il 2017, si stima una spesa di soli 200 milioni per
il dialogo con i Paesi nordafricani di transito, e solo 256 milioni per
iniziative di promozione della pace, oltre agli inutili 950 milioni dati in
cooperazione allo sviluppo, cioè in donazioni a regimi spesso non molto democratici
o distributivi) probabilmente otterremmo molto di più, e daremmo prospettive
reali anche a chi oggi si imbarca.
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