Noi italiani
facciamo fatica ad analizzare le questioni, e spesso ricorriamo a
semplificazioni o a posizioni puntuali del momento, in base alle convenienze
specifiche. Questo vale anche per le (apparenti) contraddizioni in seno ai
sovranismi europei. Che da un lato candidano Salvini alla Presidenza della
Commissione o lo considerano, come Orban, una sorta di compagno di destino, e
poi lo randellano sulla manovra economica.
Ora,
evidentemente, per definizione, un sovranismo guarda essenzialmente agli interessi
propri. L'Afd guidato dalla Weidel non è più, ed in una certa misura non è mai
stato, un partito dell'uscita dall'euro, quanto piuttosto un partito di
creazione di un'euro-area iper-liberista di satelliti della Germania, dove la
posizione tedesca di rifiuto di condivisione del rischio sia spinta verso
l'estremo, espellendo i Paesi mediterranei ad alto debito, evidentemente per
poi confinarli in accordi doganali penalizzanti. L'Austria di Kurz, che è
legata alla Germania da forme di Anschluss economico, segue la stessa linea e,
credo, quando la tempesta passerà, anche Orban si allineerà all'Afd, ancora una
volta a causa delle forti relazioni esistenti fra economia ungherese e tedesca,
con la seconda che è di fatto una appendice della delocalizzazione del manifatturiero
germanico.
Né la Weidel
né Kurz sono culturalmente dei popolari di destra, come invece lo è la Le Pen e
lo è Salvini (e lo è diventato Orban con il tempo), ed il programma politico di
questi due partiti è fortemente neoliberista nell'impostazione. Cose come le
proposte di reddito di cittadinanza o di tetti per i pensionamenti, che Salvini
porta avanti, sono da loro considerate inaccettabili. La Weidel, che ha un
passato da consulente nelle più importanti istituzioni finanziarie globali, ha esplicitamente
criticato gli accordi politici della Lega con il M5S, considerandole troppo
progressiste. Le sue posizioni in politica economica sono paradossalmente più
vicine a quelle di Berlusconi che di Salvini.
Di fatto,
l'unica posizione comune fra i sovranismi europei è quella della chiusura delle
frontiere, del securitarismo e della creazione di un modello culturale di tipo
assimilatorio e non integrativo dei migranti regolari. Su quello, ovvero su una
Italia che accetti di essere prima linea in un blocco navale che arresti le
ondate migratorie da Sud, prevedendo di spostare nei Paesi di transito e di
partenza le fasi dell'identificazione e respingimento dei migranti, insieme a
politiche europee di espulsione dei clandestini e di irrigidimento dei criteri
di protezione internazionale, Salvini può essere l'alleato, e persino il
candidato Presidente, di un blocco sovranista.
Ma sul
fronte delle politiche economiche non vi può essere un fronte sovranista
comune, se non nella misura in cui si accettino forme di uscita dall'euro con
accordi penalizzanti per l'economia italiana.
In questo
senso, occorrerà giocare di sponda con la parte più intelligente delle sinistre
europee che, pur non accettando l'impostazione delle scelte di bilancio, appare
disposta a difendere l'autonomia di scelta nazionale, ed a combattere la
battaglia della demolizione dei parametri di Maastricht e dei meccanismi del
Six Pack.
Questa sfida
verso una convergenza fra destra popolare e sinistra patriottica è difficile
per ambedue le parti, perché da un lato una simile sinistra, se non vuole
rimanere isolata e farsi fagocitare dalla ben più consistente (numericamente)
sinistra globalista e diritto-civilista, dovrà necessariamente farsi promotrice
di un certo allentamento della severità di giudizio su determinati aspetti, in
particolari quelli riferiti al programma fiscale della Lega. Per la Lega, soprattutto
quella della sua pancia più profonda che è ancora legata alle origini, l'idea
di associarsi alla sinistra appare molto indigesta. Evidentemente,
però, la convergenza è necessaria per entrambi. Salvini non potrà contare su una
solidarietà sovranista nella battaglia economica con la Troika, che poi è la
madre di tutte le battaglie.
Ma, a
prescindere dagli interessi immediati, tale convergenza fra destra popolare e
sinistra patriottica è strutturalmente necessaria, e si realizzerà nei fatti.
Per il semplice motivo che, adesso e per ancora diversi anni, la linea del
conflitto politico si giocherà fra globalismo e sovranità nazionale. O si sta
di qua o si sta di là, ed in termini di classe un simile conflitto si gioca
tutto all'interno delle contraddizioni del capitale, perché i riferimenti di
fondo, sia il liberismo estremo delle élite globaliste, sia il sovranismo del
piccolo e medio capitale a basso livello di internazionalizzazione, sono tutti
interni al capitale.
Il mondo del
lavoro si spacca lungo la stessa faglia, fra élite proletarie legate alla
componente più internazionalizzata dell'economia, interessate a rimanere dentro
un'area valutaria e commerciale comune, e lavoratori della piccola e media
impresa nei settori più tradizionali dell'economia (nel senso della definizione
di settori tradizionali data da Pavitt) che dipende dal mercato interno.
Ed il
lumpenproletariat urbano, quello che Fassina chiama il popolo delle periferie,
è chiaramente schierato con le destre popolari, per ovvi motivi di
deideologizzazione di tale classe sociale (ampiamente descritta già da Marx) ed
interesse concreto alla sopravvivenza materiale.
Così come le
classi emergenti della new economy, troppo spesso derubricate a segmenti
sociali irrilevanti numericamente, ma che invece esercitano una grande
influenza su stili di vita e modi di produzione del nuovo capitalismo
smaterializzato e precarizzato, rifuggono dalle sinistre tradizionali, per dare
consenso a movimenti ideologicamente trasversali e fondati su un mito di
partecipazione diretta, come i pentastellati.
In fondo,
nel partecipare ad un rapporto dialettico con la destra popolare non si fa
peccato rispetto alle grandi direttrici culturali della sinistra. Fu lo stesso
Lenin, nello stigmatizzare il massimalismo rigido, ad affermare che i
compromessi sono necessari, perché la teoria non è dogma inflessibile, ma linea
di azione. Ostinarsi nell'idea di un ipotetico terzo polo dove ricostruire
l'autonomia della sinistra significa votarsi ad un isolamento permanente
rispetto al proprio elettorato potenziale, e condannarsi all'inazione politica
ed all'emarginazione. Un polo richiede voti. I voti si prendono andando ad
immergersi dentro le ragioni di chi un tempo ti votava e poi oggi non ti vota
più, non farneticando di ipotetici compiti educativi di un altrettanto
ipotetico partito. L'elettorato non è più costituito da masse di contadini ed
operai generici analfabeti. Il rapporto fra alto e basso tende a rovesciarsi, o
quantomeno a riequilibrarsi, rispetto alla tradizionale visione verticalistica
del partito-massa.
Ovviamente,
tale riavvicinamento non sarà né rapido né facile, e richiederà figure
politiche di mediazione, intermedie, che si assumano il compito di traghettare
le due parti verso una terra comune, elaborando uno sforzo in primis culturale
e programmatico per riavvicinare i poli dei dissensi più aspri, come quelli riferiti
alle politiche fiscali.
Ma attenzione:
la ricostruzione di una sovranità nazionale, che sta a cuore a Salvini come a Fassina,
richiede la ricostruzione di un popolo, altrimenti ciò non è possibile. Ed un
popolo si ricostruisce mettendo insieme gli interessi di classe strutturalmente diversi ma assimilabili al fondo in funzione dell'interesse a riavere un Paese forte ed autorevole, sintetizzandoli nell’interesse
superiore del Paese, non segmentandosi dentro un antagonismo inutile e di
bandiera.
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