Con i dati sulla produzione industriale appena pubblicati, è
certificato l’ingresso in recessione (per l’economia italiana) ed in
stagnazione (per le altre economie dell’area euro). Mentre la grande crisi
economica iniziata nel 2008 è facilmente spiegabile con dinamiche di tipo
finanziario, quindi con il modello di Minsky, adesso non sembra che vi siano le
caratteristiche tipiche di un “Minsky moment”. I valori degli asset finanziari
non sembrano in crollo libero dopo una fase di crescita incontrollata. Piuttosto,
la causa va ricercata nell’economia reale, e quindi nella spiegazione
keynesiana tradizionale del ciclo: ad un determinato momento, la crescita della
dotazione di beni capitali e la fluttuazione delle aspettative degli operatori
fanno decrescere l’efficienza marginale del capitale, ovvero la redditività
attesa dei progetti di investimento. Ciò induce gli operatori economici a
ridurre gli investimenti, quindi la domanda aggregata ristagna, e si entra in
recessione.
Di elementi che fanno pensare ad una inversione in senso
pessimistico delle aspettative degli operatori ne abbiamo assai: i venti
protezionistici che spirano da oltre Atlantico, il rallentamento dell’economia
cinese, forse alle soglie di una enorme bolla immobiliare, il ritorno a politiche
monetarie restrittive sul versante del costo del denaro annunciate, seppur con
molta prudenza, dalla Fed, il possibile
rialzo del prezzo del petrolio, dopo una lunga discesa, innescato dai tagli
produttivi decisi dall’Opec e dalla Russia, le incertezze perduranti sulla
Brexit.
In effetti, se nel periodo della ripresa post crisi una proxy della redditività del capitale, data dal rapporto fra valore aggiunto e stock di capitale al netto degli ammortamenti, passa dallo 0,25 del 2013 al 0,27 del 2017, è nel 2018 che tale redditività tende a calare. Al terzo trimestre del 2018, infatti, i redditi da capitale sono inferiori del 3,5% rispetto al valore del terzo trimestre dell'anno precedente, innescando una possibiel recessione "keynesiana", cioè interamente spiegabile da fattori reali e non dagli investimenti finanziari.
In queste situazioni, ammonisce Keynes, non è sufficiente
far scendere il tasso di interesse con politiche monetarie distensive. Le aspettative
pessimistiche degli operatori potrebbero radicarsi al punto tale che, per
tornare all’espansione, occorrerebbe una fase lunga di svalutazione dei beni
capitali esistenti, al fine di rendere nuovamente necessario investire in nuovi
beni capitali. Oppure, come dice, per superare il blocco degli investimenti
causato da aspettative negative persistenti, aprire una fase di “socializzazione
degli investimenti”, cioè una fase di collaborazione pubblico/privato per
riattivare grandi progetti di investimento, su infrastrutture strategiche,
opere pubbliche, progetti di ricerca industriale, oppure formazione della
manodopera.
Il consiglio che mi sento di dare al Governo attuale è
quello di perorare un programma europeo di rilancio degli investimenti, molto
più consistente finanziariamente dell’inutile Piano Juncker, anche rilanciando
l’idea, abortita per l’opposizione tedesca, di raccogliere risorse sul mercato
tramite eurobond, estromettendo alcune categorie strategiche di investimento
(ad esempio quelle in R&S) dal calcolo del saldo strutturale di bilancio
valido per il Six Pack. Il nuovo ingresso in recessione, che si annuncia
generalizzato per tutti i Paesi euro, anche per la Germania, potrebbe rendere
la Merkel e gli altri più disponibili ad ascoltare, rispetto ad un passato nel
quale si illudevano di poter scaricare il peso del ciclo negativo sulle
economie euromediterranee. Il M5S abbandoni le remore ideologiche sui grandi
investimenti: non è questo il momento di fare ambientalismo di risulta, o,
peggio ancora, filosofeggiare sull’incidenza delle grandi opere sul tasso di
corruzione del sistema.
Dovrebbe essere chiaro che una nuova recessione, che segue a
breve la grande crisi 2008-2015, darebbe il colpo di grazia alle economie
europee, il cui livello di domanda aggregata è ancora debole, e la situazione
finanziaria delle imprese e del sistema bancario è ancora molto problematica.
Una nuova recessione rischia di far saltare il banco, con danni per tutti.
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