Capire meglio la radice
delle guerre civili in Africa significa, per noi, impostare una
politica di sviluppo verso il continente africano che sia
effettivamente in grado di fermare i flussi migratori già alla loro
origine.
Nella vasta letteratura
sulle guerre civili spicca, per capacità di verifica empirica delle
ipotesi, il modello proposto originariamente nel 1998, e poi rivisto
nel 2004, da Collier e Hoeffler, dell'università di Oxford. Tale
modello cerca di spiegare le guerre civili, non solo in Africa ma in
generale, sulla base di due categorie concettuali: l'opportunità di
un guadagno economico che superi il costo-opportunità della guerra
civile (cioè il costo legato alla perdita di altre opportunità di
crescita economica “pacifica”) e la rivendicazione di maggiore
giustizia da parte di gruppi sociali o etnici isolati dal potere.
Tale modello si chiama
infatti “greed and grievance”, ovvero “profitto e
rivendicazione”. La verifica empirica di tali ipotesi si basa su un
panel di 1.167 Paesi del mondo, fra i quali 79 hanno subito guerre
civili di durata almeno quinquennale fra 1960 e 1999, tramite un
modello econometrico di tipo “logit”, cioè la cui variabile
dipendente è binaria (nel caso di specie, assume valore uno nei
paesi in guerra, e zero in quelli in pace).
I risultati sono in parte
ragionevoli, perché confermano analisi di senso comune, in parte
stupefacenti. Emerge in generale che la componente di profitto
economico è più rilevante, statisticamente, nello spiegare le
guerre civili, rispetto a quella rivendicativa. In particolare,
nell'area delle opportunità, un ruolo molto forte è da attribuirsi
al grado di dipendenza delle esportazioni da materie prime. Quando
tale dipendenza supera il 33%, la probabilità di guerra civile
schizza verso l'alto, come effetto sia del lucro derivante, per le
bande armate, dalla possibilità di acquisire il controllo di tali
materie prime, sia per una peggiore governance del governo legittimo,
spesso particolarmente corrotto in Paesi ad alto export di materie
prime.
Una diaspora di
popolazione a seguito di una guerra civile aumenta significativamente
il rischio di un nuovo conflitto. L'interpretazione qui non è
univoca: potrebbe aumentare tale rischio finanziando, dall'esterno, i
gruppi ribelli rimasti nel Paese, oppure potrebbe essere una
correlazione spuria: conflitti molto intensi, che per la loro
intensità sono passibili di una ripresa dopo un breve periodo di
pace, generano diaspore molto grandi. In questo caso la diaspora non
sarebbe una causa del riavvio di un conflitto di per sé, quanto
piuttosto una misura indiretta dell'intensità dello stesso, e quindi
della probabilità che esso scoppi nuovamente.
D'altro canto,
l'istruzione secondaria ed il tasso di crescita del Pil pro capite
riducono il rischio di guerra civile, perché costituiscono proxy di
redditi futuri conseguibili “pacificamente”, cui si deve
rinunciare per andare in guerra, quindi sono costi-opportunità.
Passando all'area della
“grievance”, si ottengono risultati sorprendenti: le variabili
che misurano il grado di frazionamento sociale ed etnico sono
pressoché insignificanti statisticamente, cioè non sembrano
esercitare effetti particolari sull'avvio di una guerra civile.
Soltanto il grado di democrazia interna ha un effetto significativo,
e negativo, sulla probabilità di avvio di un conflitto, perché
veicola il conflitto sociale dentro un quadro istituzionale e
pacifico.
Un certo effetto proviene
anche dalla variabile riferita alla dominanza etnica: i Paesi ad
elevata dominanza di un'etnia sulle altre (dominanza da intendersi in
termini numerici, cioè Paesi in cui un'etnia corrisponde ad una
percentuale della popolazione molto alta) sono a maggior rischio di
conflitto civile. Gli autori deducono che una crescente diversità
sociale ed etnica costituisca un fattore di pacificazione, riducendo
la dominanza di un gruppo etnico sugli altri e creando crescenti
problemi di comando e controllo, e in ultima analisi di coesione
interna dentro i gruppi ribelli, il che, per chi ricorda la ex
Jugoslavia, è piuttosto sorprendente.
Delle variabili di
contesto generale del Paese, solo la concentrazione della popolazione
ha un effetto misurabile statisticamente, nel senso (anche in questo
caso sorprendente) che una popolazione molto concentrata in poche
aree riduce significativamente il rischio di guerra civile.
Molte critiche possono
essere avanzate a tale modello, una delle quali è che esso prendere
in considerazione, nel panel, Paesi di tutti i cinque continenti,
quindi realtà politiche, sociali e culturali molto diverse fra loro,
mediandole in forma artificiosa mediante un modello statistico.
Una risposta a tale
critica è data da Anyanwu (2003) che riprende il modello di Collier
e Hoeffler, stimandolo soltanto per le guerre civili dell'Africa.
Come per questi ultimi, la dipendenza economica dall'esportazione di
materie prime è il fattore che spiega maggiormente le guerre civili.
Così come la crescita economica genera costi-opportunità, in
termini di redditi futuri acquisibili pacificamente, che
disincentivano la guerra civile. Anche il ruolo disincentivante della
democrazia rispetto all'avvio di guerre è confermato, fornendo
canali pacifici per il conflitto sociale.
A differenza del modello
originario, però, emergono altre variabili significative: la durata
della pace dopo un conflitto civile, in primis, che riduce la
probabilità che un nuovo conflitto riemerga, sia perché ha un
effetto “curante” sul rancore fra i diversi gruppi sociali o
etnici, sia perché il tempo trascorso pacificamente consente di
mettere in piedi meccanismi di democrazia e di crescita economica in
grado di dissuadere da nuove avventure militari.
E poi riemerge il ruolo
del frazionamento sociale, variabile che per Hoeffler e Collier era
non significativa. Ma emerge in modo strano: ci si aspetterebbe che
un alto frazionamento sociale o etnico possa indurre maggiori rischi
di conflitto. Invece è il contrario: similmente all'ipotesi di
Hoeffler e Collier riguardo alla diversità etnica come fattore di
diluizione della dominanza etnica, un elevato frazionamento sociale
riduce i rischi di guerra civile, perché ridurrebbe la capacità di
comando e controllo dei gruppi armati e la possibilità che un'etnia
diventi dominante numericamente, trasformando le altre in minoranze
represse. Spiegazione invero molto poco convincente. Diversamente, da
Collier e Hoeffler, non emerge un collegamento statistico con il
livello di dominanza numerica di un'etnia, per il semplice motivo che
la significatività di tale variabile viene assorbita da quelle
riferita al frazionamento socio-etnico (sono cioè due variabili
collineari, che interferiscono l'una con l'altra rappresentando, in
realtà, lo stesso fenomeno misurato in modo diverso; è cioè un bug
del modello).
Tali risultati darebbero,
secondo Anyanwu, una giustificazione per un approccio liberale allo
sviluppo dell'Africa, basato sulle famose “riforme” che tutti gli
enti internazionali, da sempre, impongono in modo del tutto inutile
in Africa: occorre, da un lato, promuovere maggiore democrazia,
ovviamente importando il modello occidentale che poco si attaglia
alle forme di democrazia diretta e di villaggio africane,
implementare forme di trasparenza di bilancio per mostrare come
vengono usati i proventi da esportazione di materie prime, e poi
lavorare sulla diversificazione economica e produttiva, per ridurre
la dipendenza dalle materie prime stesse, al contempo ricevendo
maggiori aiuti economici dai Paesi ricchi, per incrementare la
crescita economica potenziale. Si suggeriscono poi le consuete, ed
assolutamente “uneffective”, sanzioni internazionali sui gruppi
armati che esportano materie prime per finanziare l'acquisto di armi.
Mentre, positivamente, si suggerisce una politica di controllo delle
nascite di tipo cinese, che però in Paesi senza disciplina e senza
governance è molto difficile da implementare.
La stranezza dei
risultati dipende, in parte, da una non perfetta specificazione
statistica dei modelli: ci si concentra sulle guerre civili, ovvero
le situazioni in cui entrambe le parti accusano perdite non inferiori
al 5% dei propri effettivi militari, trascurando quindi i numerosi
episodi di massacro, in cui cioè un gruppo, quasi senza subire
perdite, ne stermina un altro. Se anche tali fenomeni fossero inclusi
nel panel, evidentemente il ruolo del frazionamento socio-etnico
diverrebbe molto più importante. Si tornerebbe cioè all'immagine
classica dell'Africa, continente in cui il conflitto etnico
sostituisce, in un certo senso, quello di classe, perché le classi
sociali hanno una forte base etnica.
Analogamente, il ruolo
equivoco e non del tutto consolidato della dominanza etnica potrebbe
risultare più significativo se, anziché usare la mera misura
quantitativa costituita dal numero di appartenenti ad ogni etnia, si
usasse una misura in grado di tenere in considerazione le relazioni
fra le varie etnie, ad esempio il numero di volte che in un dato
Paese le relative etnie hanno manifestato violenze reciproche, oppure
la distribuzione dei mandati dei Capi di Stato di un dato Paese per
etnia di appartenenza.
Ciò porterebbe ad una
immagine più fedele, ed al contempo complessa, delle guerre civili
africane, fuori da fattori meramente economicistici, oppure legati a
modelli occidentali da esportare ed imporre a culture completamente
diverse. Si potrebbe così capire meglio il ruolo necessario
dell'esistenza di autocrazie, ovviamente illuminate, per tenere
insieme Paesi con tante nazionalità diverse e tanti conflitti
storici, etnici e religiose. Si accetterebbe anche l'idea di un ruolo
positivo che un certo livello di corruzione attivati da investitori
esterni, ovviamente controllato entro livelli accettabili e non
estremizzato fino alla cleptocrazia di molti regimi africani, può
avere nel movimentare opportunità di business in Paesi dove tali
opportunità non esistono. E forse si accetterebbe anche l'idea di
una maggiore presenza militare occidentale nei Paesi-chiave, per
tutelare gli interessi economici e le frontiere dell'Europa.
La mappa di Murdoch sulle differenze etniche in Africa
Nessun commento:
Posta un commento