Consapevole di essere ripetitivo, farò un ulteriore tentativo per spiegare il mio punto di vista. Un movimento politico che si vuole populista non cerca di modificare gli assetti sociali esistenti, ma piuttosto, come peraltro bene ha spiegato Salvini, si mette in ascolto e tende a riprodurre la domanda sociale proveniente da tali assetti, dandoli in una certa misura per consolidati.
Ora, una analisi approfondita dei
flussi di voto svolta da Ipsos alle politiche del 2018 ed in base ai sondaggi a
dicembre del medesimo anno consegnano, per la Lega, un quadro per certi versi
sorprendente. La categoria sociale in cui la Lega è più rappresentata non è la
piccola borghesia classica, ma il ceto operaio: il partito di Salvini prende
circa il 40% del voto operaio, soprattutto nelle aree manifatturiere di tipo
distrettuale del Nord che per prime sono ripartite dopo la crisi, sfruttando la
combinazione fra flessibilità e economie di scala tipiche delle imprese di
medie dimensioni leader di distretto, l’immagine di eccellenza del “made in
Italy” e una capacità innovativa, nonostante tutto, ancora radicata: il
distretto della calzatura sportiva di Montebelluna, l’occhialeria del Veneto,
il distretto dell’automazione della Motor Valley emiliana, le piastrelle di
Sassuolo, i mobilieri della Brianza, e così via.
Perché gli operai di tali realtà,
sicuramente più dinamiche della media e più rapide a riprendere dopo la crisi,
votano Lega? Per due motivi fondamentali. Il primo è che, operando in piccole e
medie realtà a gestione padronale, sono meno sindacalizzati, hanno un rapporto
osmotico con la proprietà che li ha condotti a ragionare, spesso, più come “piccoli
imprenditori” che come proletari nel senso marxiano. Il secondo è che il
modello distrettuale italiano, grazie a Monti, Bersani, Renzi e l’allegra
combriccola, ed a causa della scarsità della italica borghesia, senza capitali
e con poco coraggio, nel momento in cui le tradizionali dinastie di
industrialotti sono entrate in declino per motivi anagrafici, è diventato
oggetto di shopping industriale da parte di cinesi, francesi, tedeschi,
statunitensi. La proprietà straniera dell’azienda è il primo passo per una sua
successiva chiusura con un fax non appena la casa-madre individui un Paese dove
la produzione è più conveniente, e questo i lavoratori lo sanno benissimo. Ad esempio,
la Brianza è una colonia franco-tedesco-cinese[1].
Senza contare i casi, come il distretto di Prato, nei quali il distretto
italiano è stato divorato letteralmente da un distretto cinese che lo ha fatto
praticamente sparire, sostituendo cinesi ad italiani[2],
usando prevalentemente come fattore di competitività l’illegalità, il nero, l’evasione
fiscale, il disprezzo delle regole dei CCNL e delle leggi sulla sicurezza del
lavoro, e poi ci si stupisce se l’operaio un tempo comunista ed internazionalista
oggi è ostile all’immigrazione e punta su un tema tradizionalmente di destra
come la sicurezza e la legalità! In altri termini, la globalizzazione stende il
suo manto di paura e di regole feroci della competizione sull’operaio dei
distretti industriali del Centro-Nord, il cuore del nostro sviluppo. Creando problemi
nuovi: non più solidarietà internazionalistica operaia, ma difesa del lavoro
italiano. Non più “sbirro maledetto” ma richiesta di sicurezza e legalità.
Questo è il punto su cui un
movimento politico come la Lega, che aspira a divenire destra nazionale, deve
poter incidere per garantirsi la crescita futura. La crisi economica produce
una domanda trasversale ai diversi gruppi sociali, fatta sì da sicurezza e
legalità (e su questo la Lega ha avuto successo con il suo messaggio
programmatico) ma anche da lavoro e welfare. Ulteriore dimostrazione della
centralità del tema lavoristico: le percentuali di consenso più importanti alla
Lega si registrano fra le classi di età lavorativa: fra chi ha un’età compresa
fra i 35 ed i 64 anni. Non fra gli studenti, che in larga misura si illudono di
poter trovare una collocazione vincente sul mercato del lavoro grazie ai loro
studi, e quindi non rivolgono una domanda “lavorista” alla politica, né fra i
pensionati, specie di fascia medio-alta, che costituiscono il serbatoio di voto
del Pd.
E poi, l’altra faccia della crescita
della Lega oltre i confini primigeni di movimento rappresentativo della rivolta
fiscale della piccola borghesia settentrionale è costituita dalla percentuale
di penetrazione nel sottoproletariato urbano: il voto leghista assorbe più del
28% del consenso dei disoccupati e degli inoccupati, il 38% delle casalinghe,
il 37% fra chi ha al più la licenza elementare. E’ il grande popolo degli
sconfitti, di chi è rimasto strutturalmente indietro e nella maggior parte dei
casi non è più recuperabile per un reingresso nel mercato del lavoro, perché il
gap di skill lavorativi e di curriculum ed età è troppo ampio.
Tutto questo significa che il
mantenimento di questi gruppi elettorali, che sono fondamentali per il successo
finale della Lega e pesano di più rispetto alla medio-piccola borghesia di
tradizionale insediamento della destra italiana (i liberi professionisti e
dirigenti e i commercianti, artigiani ed autonomi che votano Lega sono meno del
30% del totale) dipende dalla capacità di parlare di politiche economiche, del
lavoro e sociali. Non è più sufficiente la sola proposta fiscale incentrata sulla
flat tax: essa ha impatto soprattutto su quel ceto medio moderato sul quale la
proposta politica di Berlusconi ha fatto successo per un ventennio. Ma era un’altra
Italia: quel ceto medio moderato è in larga misura sprofondato nella crisi, o
ha mutato strutturalmente modo di produzione, subendo fenomeni di
precarizzazione, e di conseguenza ha una diversa visione politica. Secondo l’Istat
(Rapporto Annuale 2017) tale gruppo sociale è pari ad appena il 20% del totale
delle famiglie nel 2015, ed è certamente molto meno stabile e sereno di quello
pre-crisi.
I risultati dell'indagine Ipsos
In aggiunta alla flat tax, serve
una proposta di politica industriale anche innervata di elementi di
protezionismo, che sfidi i Trattati Europei sul divieto di fare politiche
settoriali e di erogare aiuti di Stato, che recuperi il recuperabile di
Industria 4.0 ritarandolo sulle esigenze tecnologiche più attualizzate delle
imprese, e che si sposti verso un incentivo al brevetto, cioè all’innovazione
di prodotto, anziché al processo, ovvero all’acquisto di macchinari innovativi
per la produzione.
E serve una politica sociale che,
oltre al giusto e sacrosanto principio per cui l’accesso ad ogni prestazione
socio-sanitaria sia riservato prioritariamente agli italiani, investa per
creare più alloggi popolari, più ambulatori, più servizi contro le dipendenze,
smantellando quel sistema di corruttele pubblico-private costituito dalle
cooperative sociali e case-famiglia rosse e bianche, recuperando al pubblico
anche un ruolo gestionale, oltre che meramente programmatorio, finanziario e di
controllo.
Più in generale, serve un nuovo
Patto sociale che rimetta lo Stato al centro della sovranità delle politiche, e
ciò necessariamente implica il coinvolgimento generale della società dentro
tale Patto. Le risorse si prenderanno aumentando il deficit oltre il mantra
assurdo del 3% e recuperando risorse dall’evasione fiscale con metodi civili
(fra i quali certamente la flat tax, che disincentiva l’evasione) e non con
metodi deduttivi come gli studi di settore.
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