Il 15 giugno scorso si è tenuta
l’assemblea di Oltre la Sinistra, il tentativo di dare forma politicamente
organizzata al gruppo aggregatosi attorno al Manifesto per la Sovranità
Costituzionale, promosso dall’associazione di Fassina (cui aderii anche io
quando ero ancora scemo, essenzialmente attratto dal proposito, veramente
rivoluzionario in quel momento, di costituire un piano B per il superamento
dell’euro. Poi capii tutto quando vidi il suo leader salire a bordo di nave
Diciotti, manifestando, nel migliore dei casi, l’incapacità di capire che la
ricostruzione di un concetto di Patria passa per il tramite della sua difesa
dall’invasione che proviene dall’altra sponda del Mediterranea), da quella di Boghetta, Formenti e Porcaro
e da Senso Comune. Quest’ultima associazione, per la cronaca, è nata attorno
ad un Manifesto per il Populismo Democratico, all’inizio anche molto
promettente, non demonizzando il trumpismo, e rivendicando espressamente la
costruzione di un populismo in grado di riconnettere la domanda sociale
inascoltata dalle forme tradizionali ed istituzionali dell’agone politico e
sindacale italiano.
L’assemblea di Oltre la Sinistra ha rappresentato una tappa di un processo di sintesi di
quella che, al netto di alcuni soggetti, sotto il profilo intellettuale, morale
e culturale è senza ombra di dubbio la componente più avanzata di ciò che resta
del socialismo italiano. Il fatto stesso che questa componente sia, nella
sfasciata e iper minoritaria sinistra italiana, un frammento microscopico, già
la dice lunga, senza bisogno di tante analisi, sullo stato catatonico di quest'ultima.
Ad ogni modo, quella che è la
componente più avanzata della sinistra, nella dichiarazione finale del 15
giugno segna, con un passaggio esplicito, un evidente regresso, in termini di
comprensione delle dinamiche in atto e di tattica politica. Viene infatti
scritto che l’attuale coalizione di governo è incapace di rimettere in
discussione il giogo dell’euro in quanto, oltre ad una generica confusione
strategica, in essa “non prevalgono le idee e gli interessi degli strati
sociali più disagiati, ma quelli di strati intermedi danneggiati dalla crisi ma
ancora legati agli equilibri attuali”. L’esperienza del governo gialloverde,
che poi si ispira, seppur genericamente ed insufficientemente, lo ammetto, ad
altri modelli, dal trumpismo all’orbanismo al
lepenismo, viene liquidata come un mix inadeguato di redistribuzione parziale e
di liberismo, nonché come una forma di “liberismo protezionista”.
Da qui, nell’ordine del giorno
finale, la reiterazione della velleità di ricostruire un soggetto socialista
nazionale autonomo, in grado di riconnettersi con le “classi subalterne”
(espressione infelice, ahimé, e molto rivelatrice del pensiero di chi la
utilizza) al fine di ricollegarle con “l’interesse nazionale”, per evitare la
“chiusura nazionalista” di cui evidentemente si accusano i gialloverdi, nel
segno di un nuovo internazionalismo cooperativo e paritario. Nemmeno un cenno,
ovviamente, viene fatto alla questione migratoria, da questi paladini
dell’interesse nazionale, che non sono capaci di prendere partito chiaramente
contro quella che è una invasione mirata a minare detto interesse alla base,
eliminando l’identità nazionale in un meticciato senza storia e senza radici.
E’ del tutto evidente, quindi, il
regresso assoluto di tale linea di pensiero rispetto alle timide aperture
favorevoli al trumpismo ed al populismo che comparivano nei primi documenti
delle associazioni costitutive di tale esperimento. Una vera e propria
enantiodromia difensiva, nella quale si torna indietro fingendo di andare
avanti, in un ripiegamento identitario attorno ad una radice oramai socialmente
e politicamente essiccata. Essiccata pour cause:
perché la ruota della storia è girata, e ha superato il conflitto fra capitale
e lavoro (per la semplice ragione che quest’ultimo, frammentato e conflittuale
al suo interno, ha perso, e ogni spezzone diverso, senza più possibilità di
rappresentazione politico/sindacale unitaria, si è alleato con i diversi
spezzoni di capitale in lotta fra loro) andando verso un conflitto interno al
capitale, fra la componente finanziarizzata, postcapitalista e globalizzata, ed
il piccolo e medio capitale nazionale. Questo conflitto non è più mosso da una
dinamica capitalista/anticapitalista, ma sovranista/globalista. E, esattamente
come non ci si può posizionare nel mezzo di due trincee di eserciti nemici, non
è immaginabile che esista una terza posizione, un sovranismo buono, in grado di
contrapporsi contemporaneamente sia a quello cattivo, sia all’altro campo,
quello globalista. Sia perché tenere una simile posizione di conflitto in due
direzioni richiederebbe truppe e forza di fuoco, in termini di comunicazione,
organizzazione e consenso, assolutamente non all’altezza di queste poche e
scoraggiate truppe rotte ad ogni sconfitta storica. Ma soprattutto perché
sparare al sovranismo di destra finisce per essere un enorme favore fatto al
campo globalista.
E la dimostrazione empirica di
quanto sto affermando si vede nel fatto che questo sovranismo di sinistra è
assolutamente minoritario ed avversato nel campo stesso dissestato della sinistra, non riuscendo nemmeno a riconvertire alle sue ragioni i
microscopici gruppi sociali che ancora vi sono agganciati, e non riesce ad
emergere neanche fuori dai confini nazionali, dove la sinistra è ancora
relativamente radicata e meno sputtanata di quella nostrana: il presunto brexiter Corbyn è costretto a contrastare la Brexit perché
non ha la forza di imporre le sue posizioni al suo partito ed ai suoi elettori,
Mélenchon è in declino, le posizioni sovraniste della sinistra tedesca di
Lafontaine e della Wagenknecht sono poco più che curiosità intellettuali, non
certo un fronte in grado di dare battaglia dentro la società tedesca. ‘Un si
frigge mia ‘on l’acqua, si dice dalle mie parti.
Alla fine, la posizione espressa
dall’ordine del giorno del 15 giugno è assolutamente di retroguardia, e fa
anche un po’ tenerezza, perché si risolve in un nostalgico rivangare attorno a
forme tradizionali di socialdemocrazia che, come ognuno sa, propone ricette
economiche di tipo keynesiano che funzionano efficacemente solo in condizioni
di economia chiusa. Tale rincorsa all’indietro è un riflesso psicologico
difensivo di chi ha preso troppe legnate, e si trincera dietro a palizzate ben
conosciute, ed anche il frutto di evidenti lacune culturali e di elaborazione
teorica.
Fondamentalmente, questa
componente di sinistra non capisce a fondo (o forse fa finta di non capire) il fenomeno salviniano ed il
leghismo. Rispetto agli idioti che strillano al fascismo o al razzismo è più
avanti, però non abbastanza da comprendere bene quello che sta succedendo, e
tende a rinchiudere l’esperienza dei populismi di destra dentro un recinto ideologico
comodo, ma mistificatore, ovvero quello del liberismo condotto con altri mezzi
rispetto al liberismo da Washington Consensus. Nel tentativo di definire questo
“liberismo condotto con altri mezzi”, cade in contraddizioni irrisolvibili: il
“liberismo protezionistico”, senza capire che dove ci sono dazi non c’è più
liberismo ortodosso, il “liberismo associato a forme parziali di
redistribuzione”, senza capire che il liberismo non redistribuisce, perché è
permeato dall’idea mistica che il mercato redistribuisce da solo in modo
efficiente, sulla base dei rendimenti marginali dei fattori produttivi.
Allora, io capisco che Salvini
stia facendo di tutto per non chiarire la situazione, perché è ancora un leader
giovane, ed è ancora prigioniero, culturalmente e politicamente, di una sorta
di berlusconismo aggiornato, fra proposte di politica fiscale chiaramente
lafferiane e una allergia paralizzante rispetto all’idea di un intervento
pubblico nell’economia, persino di fronte a conclamate crisi di interi settori
produttivi, però questo errore è tipico di giovani leader che vengono
culturalmente da un campo di destra: Orban, nella sua prima fase di governo, fu
un liberista. Oggi, concede aiuti per il pagamento delle bollette, organizza
programmi di lavoro socialmente utile, proibisce ai suoi laureati di emigrare,
ripubblicizza la Banca Centrale. Tutta roba certamente molto lontana dal
liberismo. La Le Pen proviene dalla tradizione poujadista del padre, ma oggi
propone politiche sociali e di contrasto alla povertà, protezionismo economico,
controllo pubblico della moneta. Bisognerà dargli tempo, ed anche Salvini
capirà che la stessa composizione sociale del suo elettorato di riferimento lo
dovrà portare ad abbandonare posizioni liberiste rigide. Tale composizione è
infatti un miscuglio, che alla piccola borghesia del Nord ed ai “ceti medi
impoveriti ma ancora legati agli equilibri esistenti”, come dicono i nostri
amici di Oltre la Sinistra, affianca operai, disoccupati, casalinghe e
pensionati a basso reddito.
Perché questo è il problema
teorico fondamentale: una sinistra autonoma sovranista non ha spazio per
“riconnettersi” con le “classi subalterne”, perché tali classi sono ampiamente
fuggite nel corpaccione dell’elettorato populista, hanno contribuito ad
aiutarlo a prendere il potere, ne costituiscono una componente elettorale
fondamentale, e sono, quindi, potenzialmente, solo che si voglia, in grado di
orientare la politica del soggetto populista verso maggiori concessioni di
sinistra. Ma per farlo occorre decidere di agire, cioè occorre decidere di
sporcarsi le mani nel campo populista, non scegliere di non agire standosene
accucciati nella propria ridotta ideologica e politica. Perché altrimenti il
sospetto è che si voglia far cadere l’esperimento populista per far tornare al
governo quelli che c’erano prima, agendo sostanzialmente da quinta colonna (e purtroppo temo che alcuni dei soggetti che partecipano a questa iniziativa, ovviamente non tutti, lo siano).
Orban è partito da posizioni
neoliberiste ad è diventato il paladino del popolo ungherese, portando molte
più proposte welfaristiche di quanto abbia fatto la controparte socialista.
Volendo, ed ovviamente senza nessun intento di fare stupidi paragoni fra
Mussolini e Salvini, come fanno i piddini più sciocchi, fu il fascismo, partito
da politiche neoliberiste (come quella della lira forte) a costruire il welfare
state del nostro Paese. Ciò serve solo per dire che tutto è in movimento, ma
per far muovere verso politiche più popolari il corpaccione del populismo
salviniano occorrono forme di entrismo e di collaborazione politica, sia pur da
posizioni di relativa autonomia e di interlocuzione costruttiva su alcuni temi,
non sdegnose ed antistoriche conflittualità. Non sto dicendo che una operazione
di avvicinamento politico alla Lega senza finirne schiacciati sia facile, dico
solo che è necessaria per riconnettersi con quelle classi popolari che oramai
si sono posizionate lì, e non torneranno indietro, perché non ha senso tornare
verso chi non è capace nemmeno di superare una soglia di sbarramento.
Anche perché, cari i miei amici
di Oltre la Sinistra (e uso il termine amici e non compagni a ragione veduta)
la vostra confusione culturale, nel tentativo poco saggio di distinguervi dal
leghismo, è tale che, involontariamente, non fate altro che esprimere un
obiettivo politico-ideologico di tipo peronista: nel documento del 15 giugno
avete, infatti, scritto che vi proponete di “legare l’interesse delle classi
subalterne all’interesse nazionale”. Tale frase costituisce esattamente la base
programmatica del peronismo: proporre un punto di equilibrio complessivo che
conduca il conflitto sociale all’interno di una visione della
superiorità dell’interesse nazionale. “Como doctrina politica, el Justicialismo
realiza el equilibrio del derecho de las clases populares con la comunidad
nacional, y sin independencia economica nacional no hay justicia para la
comunidad ni para el pueblo”, diceva Perón.
Cari miei, se volete veramente
andare oltre la fallimentare sinistra, siate coerenti con il vostro peronismo
di fondo ed inconscio, accettatelo e traetene le conseguenze.