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lunedì 24 giugno 2019

I populismi sono la cura, non il male

Alla disperata ricerca di approfondimenti intelligenti, mi attrae un editoriale di Ferrera sul Corriere, dal titolo “La base sociale dei partiti populisti”. Ma in realtà si tratta del solito polpettone di materiale organico, che spiega l' onda populista italiana con la minore percentuale di laureati, l’alta incidenza di casalinghe e di lavoratoro autonomi nei settori a basso valore aggiunto, l’alta frequenza di dropout scolastici che confluiscono nei Neet, ecc. Questa composizione sociale che per il Nostro somiglia al letame avrebbe innescato l’onda populista nel momento in cui la crisi economica ha spazzato via le antiche sicurezze welfaristiche e lavoristiche dei ceti popolari.
E’ la narrazione auto rassicurante delle élite in crisi. Ma è una narrazione che fa acqua da molte parti. Io, e molti altri come me, non siamo buzzurri scontenti e puzzoni. Abbiamo studiato, ci siamo laureati, facciamo lavori di concetto. Il M5s e’ la prima opzione elettorale del precariato del general intellect e dei lavoratori creativi della new economy. E poi non e’ vero che vi sia un degrado recente che giustifichi l’avvento dei populisti. L’ Italia degli anni Settanta ed Ottanta era un Paese in cui residuavano sacche di analfabetismo, in cui la quota di laureati e post laureati era inferiore al dato attuale, in cui la tanto vituperate famiglie monoreddito con casalinga incorporata, che secondo Ferrera sarebvero la fonte di ogni populismo, era la norma e non piu’ una eccezione tipica delle aree rurali e periurbane del Sud, come e’ oggi. E quel Paese, oramai perduto nel ricordo, era attraversato da tensioni, paure e violenze forse diverse da quelle attuali, ma non meno intense. Le crisi economiche erano presenti, la droga distruggeva migliaia di vite incapaci di progettare un futuro.
Se il teorema di Ferrera fosse vero, allora in quell’Italia li i populismi avrebbero dovuto fermentare quanto oggi o anche di piu’. Tuttavia quell’Italia aveva sconfitto il qualunquismo ed era saldamente in mano a partiti di massa e sindacati, una democrazia parlamentare dove i corpi intermedi erano il perno del sistema, dove la consapevolezza politica era piu’ diffusa, anche se il Paese era piu’ ignorante.
Il problema risiede altrove, non nella base sociale ma nei vertici. La politica, dalla caduta del muro di Berlino, ha perso il calore comunitario e la capacita’ di generare sogni, regredendo a mero tecnicismo attuativo di un pensiero unico incapace di pensiero collettivo che non sia quello del mercato, il luogo alienante per eccellenza.
I cittadini si sono ritrovati soli in un mondo freddo e crudele, senza più il luogo aggregante e metaforico del partito e del sindacato, svuotati dalla liquefazione delle classi sociali e dall'annacquamento della lotta di classe e già' proiettati in un futuro 2.0 in cui sarebbero stati ridotti a comitati elettorali al servizio del leader (Berlusconi fu il primo a capire questa degenerazione, usandola) o a cinghie di trasmissione dei dettami inflessibili del mercato.
La paura che si sente, allora, e' più sottile e devastante: la paura di non-esistere in una società che non riconosce i perdenti, perché basata sul concetto di vittoria continua, la paura di perdere la propria identita’, la rabbia per il sogno perduto e non piu’ riproposto dal format spettacolare di una politica tecnocratica e ancillare rispetto a poteri anonimi, apolidi e qiindi non piu’ riconoscibili ed affrontabili.
Questo fallimento, che unisce nella paura e nella rabbia la casalinga, il coatto di borgata, il giovane laureato con master e senza futuro, il professionista ed il bottegaio, e’ stato il rosultato del fallimento di una politica che non conosce frontiera ideale che vada oltre la crescita del Pil, che e’ ridotta a tecnicismo per competenti conoscitori della materia, una politica squallida in mano a tetri e grigi optimates.
Ed e’ in questo brodo primordiale di paura, sradicamento identitario e rabbia, che rode dentro uno stomaco non piu’ avvezzo a volare sulle ali dell’utopia, costretto a strisciare a terra dal peso di in quotidiano senza domani, che sorge il populismo. Che non e’, come credono gli optimates come Ferrera, una condensazione dell’ignoranza sociale nella figura di un leader semplificatore, di un rizzabischeri imbonitore. È qualcosa do molto diverso: è la cura di una società malata, è un rimedio omeopatico basato sul principio “ il simile cura il simile”, è il bisogno disperato di tornare a volare incarnato in un rapporto mistico fra il leader ed il suo popolo, in cui i due poli diventano uno, in cui il bisogno identitario frustrato trova alfine il suo nutrimento nel corpo e nel sangue di un leader e della sua terra, della sua comunità. È un riflesso tipico di società in crisi, che sentono minacciata la loro esistenza, se vogliamo il primo populista fu Gesù Cristo, uno dei tanti predicatori a metà fra religione e politica che affollavano la Palestina dominata ed umiliata dai romani.
Questa cura sbocca, in genere, in rivoluzioni o enormi cambiamenti dell' ordine sociale, si pensi ai populismI russi che incubarono il socialismo sovietico, o a quelli statunitensi che precedettero il New Deal. Ferrera caro, qui il tema non e’ riconducibile ad elettori ignoranti e spaventati in modo oscuro e semi inconscio, o di rizzabischeri imbonitori. Qui stiamo parlando di un meccanismo strutturale messo in atto dalla storia, innescato dal fallimento tuo e dei tuoi amici.

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