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sabato 31 agosto 2019

Certezza della pena, funzione rieducativa e recidiva: alcune riflessioni

Concerto di Johnny Cash nel carcere di massima sicurezza di Saint Quentin, febbraio 1969


Da anni, ogni progetto di riforma della giustizia, annunciato o prodotto, viene accompagnato dalla retorica della “certezza della pena”. E’ una retorica avvincente, per certi versi, perché fa presa su un Paese che ha, insieme, una sfiducia radicata nelle istituzioni (quindi anche nella giustizia) e dall’altro è innervato da un giustizialismo forcaiolo, riflesso di una rabbia sociale e di un sentimento di insicurezza diffusi.
Ma chiediamoci che cosa significhi l’espressione “certezza della pena”: nell’accezione comune, quella dell’uomo della strada, essa significa una sorta di automatismo fra commissione di un reato e espiazione carceraria dello stesso. Addirittura, la volontà di anticipare la carcerazione rispetto alla stessa condanna, cancellando l’ovvio concetto di civiltà giuridica per il quale chiunque è innocente fino a prova contraria. La giustizia, spettacolarizzata dai media, è divenuta uno sfogatoio di rabbie latenti: la sofferenza indotta dalla punizione (giusta o ingiusta) crea un palcoscenico nella quale, in parte, autoconsolarsi (c’è chi sta peggio di me, io almeno non sto al fresco) ed in parte proiettare sul reo le proprie frustrazioni personali.
Anche fuori da tale visione completamente distorta, il concetto di “certezza della pena” implica una idea di automatismo, per il quale ad ogni evento debba, necessariamente, corrispondere una determinata pena, una volta che la rilevanza penale dell’evento sia stata accertata giudiziariamente. Tale idea di automatismo confligge, però, con il naturale ed ovvio buon senso. Esso implica che le Procure e le Forze dell’Ordine siano sempre, indifferentemente, in grado di trovare e consegnare ai Tribunali gli autori effettivi dei reati, che il giudice agisca come un automa, applicando in automatico una previsione normativa penale perfetta, tale, cioè, da non essere suscettibile di alcuna interpretazione o di alcun adattamento alla situazione concreta per la quale si sta agendo, e che le circostanze attenuanti o aggravanti, perlomeno di tipo generico, non siano mai applicate.
Nel «Contratto per il cambiamento» firmato da Lega e M5S per il governo giallo-verde, emerge esattamente tale interpretazione della “certezza della pena” declinata dal principio di automatismo fra reato e carcere e dalla severità estrema della concezione penale. Tale proposta, infatti, punta su “più carcere per tutti”, inteso sia come quantità di galera da far scontare a chi commette reati sia come quantità di prigioni da costruire per ospitare una popolazione di detenuti destinata ad aumentare per la preannunciata eliminazione di misure alternative e di benefici di ogni genere. Carcere chiuso, insomma, anzi chiusissimo. Per garantire “più sicurezza per tutti”.

Qualche elemento di Costituzione e di teoria della pena

Evidentemente, tale approccio confligge con l’ordinario buon senso, che evidenzia come il diritto sia per sua natura incerto, e richieda quindi, caso per caso, una interpretazione del giudice basata, oltre che su criteri tecnico-professionali e sulla giurisprudenza, anche sul suo libero convincimento in relazione all’area grigia non interpretabile secondo criteri tecnici a priori, ma soltanto in base ad una opinione che si forma sul caso concreto che viene giudicato.
Ma tale approccio confligge anche con la natura della pena prevista dalla nostra Costituzione. L’articolo 27, infatti, recita “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La Costituzione si inserisce, con una scelta precisa, in un dibattito sulla natura della pena che dura sin da Beccaria. In estrema sintesi, l’approccio giuridico anglosassone si concentra sulla natura espiativa della pena, che ha una valenza triplice: essa deve, in tale concezione, servire da deterrente a chi voglia commettere un reato, e quindi essere sufficientemente severa da scoraggiare chi volesse intraprendere una azione criminosa, ed al contempo deve servire da “contrappasso”, da compensazione morale per il male arrecato alla società da parte di chi delinque, ed in questo senso trovano ospitalità istituti penali tipicamente anglosassoni, come il lavoro forzato, inteso in termini di compensazione economica ad un danno economico arrecato alla società, oppure la pena di morte, come parallelo di un omicidio commesso. Infine, la pena deve “togliere di mezzo” individui ritenuti inadatti ad una vita sociale ordinata per la gravità dei reati commessi, o con la morte oppure con l’ergastolo effettivo, quello in cui effettivamente non si esce più dal carcere. Tale concezione della pena è definibile come “retributiva”, per la parte in cui intende “compensare” con la pena il danno sociale arrecato, ed in parte come “funzionalistica”, nella misura in cui intende eliminare dalla vita sociale individui considerati pericolosi ed irredimibili.
Già Beccaria si discosta da tale approccio, ritenendo la pena come un deterrente sociale alla commissione del reato e, in una logica marginalista, prevedendo la fissazione della stessa esattamente al punto di congiunzione fra il beneficio ottenibile tramite la commissione di un reato e il costo da pagare in caso di condanna. In questo approccio, Beccaria rigetta quindi le pene puramente espiative, cioè eccessivamente severe rispetto alla gravità del fatto commesso, ivi compresa la valutazione di totale inadeguatezza dell’individuo rispetto alla società che ne giustificherebbe la “sparizione” (egli infatti è avverso alla pena di morte) ma al contempo rigetta ogni finalità rieducativa della pena. Ciò perché egli ragiona in termini puramente razionali e non etici: il criterio etico di inadeguatezza sociale non ha fondamenti razionali, e non può quindi essere assunto a criterio-guida di pene tendenti ad eliminare per sempre il reo dal consesso sociale. La pena ha quindi, nella costruzione teorica di Beccaria, una funzione essenzialmente deterrente: eliminando il beneficio del reato con una sanzione di entità almeno pari allo stesso, scoraggia l’individuo che vorrebbe delinquere. E’ evidente come tale approccio sconti l’assunzione di razionalità degli agenti sociali tipica dell’intera impalcatura neoclassica e utilitaristica/marginalista. Il crimine dipende soltanto da una valutazione razionale fra costi e benefici effettuata dal potenziale delinquente, non da aspetti socio-psicologici o culturali, o dall’interazione di cause bio-psico-sociali, come un filone moderno di criminologia statunitense ritiene.
Con il progressivo (anche se momentaneo) affermarsi della componente meramente sociologica della criminologia, emerge invece la possibilità di pensare alla pena come occasione di redenzione e reinserimento sociale attivo del reo. La condizione criminale non è più vista come una mera condizione fisiologica dell’individuo, come nelle teorie lombrosiane, che giustificano l’idea di una impossibile redenzione dell’individuo, che va meramente messo in condizione di non nuocere più alla società, né come una scelta razionale, che calibra la pena al punto di intersezione con l’utilità marginale dell’azione criminale. Emerge l’idea che l’ambiente socio-educativo in cui cresce l’individuo è alla radice del comportamento criminale, per cui la pena può, in qualche modo, “rieducare” il reo, fornendogli i valori di rispetto della legge e delle regole della collettività che le condizioni socio-educative in cui è cresciuto non gli hanno consegnato. La dottrina marxista fornisce un quadro in cui, se da un lato la criminalità comune è condannata fermamente come sottoprodotto del capitalismo, essa è però considerata come una conseguenza delle condizioni sociali di sfruttamento dell’uomo sull’uomo tipiche dello sfruttamento capitalistico. Altri filoni non marxisti, come la teoria delle sottoculture di Cohen, adottata per spiegare forme specifiche di devianza, come quella giovanile, insistono comunque anch’esse sulle condizioni sociali, abitative, educative e di opportunità lavorativa e di ascesa sociale in un contesto sociale molto competitivo come quello statunitense.
Detta corrente di pensiero evolve fino ad assumere una forma teoricamente completa negli anni Sessanta, tramite la teoria del “labelling” (etichettatura). Secondo tale teoria, il livello di allarme sociale dei diversi reati è influenzato dalle classi dominanti della società in modo da reprimere in misura più forte i ceti sociali più deboli e disagiati, che più frequentemente li commettono. La reazione sociale a queste specifiche categorie di reato (che includono, tipicamente, la microcriminalità urbana, il piccolo spaccio di stupefacenti, i piccoli reati contro il patrimonio, il vandalismo, ecc.) condurrebbe alla conseguenza negativa di “etichettare” in modo negativo e permanente chi li commette, generalmente un membro delle classi sociali disagiate o delle minoranze, producendo, sia all’interno del sistema carcerario che all’esterno, nella società, forme di autopercezione negativa di sé e una reputazione che ostacola qualsiasi tentativo di inserimento sano dentro il tessuto lavorativo. Al contempo, l’etichettatura induce gli etichettati a formare una “sottocultura”, come direbbe Cohen, frequentandosi fra di loro e quindi autoalimentando nuovi propositi criminali.
In sostanza, secondo la labelling theory, come esposta nella sua versione più completa da Howard Becker nel suo libro “Outsiders” del 1973, sostiene che è la società a “criminalizzare” gli individui, come forma di lotta di classe, producendo forme di ghettizzazione, sia carceraria che sociale, che paradossalmente portano alla recidiva ed alla cronicizzazione delle carriere criminali. In questo filone, si sviluppa una classe di teorie chiamate “convicting theories”, che criticano il sistema carcerario per la sua assoluta carenza di attenzione alle tecniche ed alle modalità di rieducazione sociale e psicologica dei rei, ed anzi, nelle condizioni tipiche del sovraffollamento degli istituti penitenziari, mostrano come il contatto fra piccoli criminali e delinquenti di professione porti ad un aumento della probabilità di recidiva dei primi.
In questo contesto teorico, dunque, la nostra Costituzione si pone nell’obiettivo, tipico della criminologia sociologica di sinistra, della funzione rieducativa della pena. Un obiettivo peraltro molto combattuto a livello di interpretazione della norma costituzionale, soprattutto da parte delle componenti democristiane di destra che parteciparono ai lavori della Costituente: “i primi anni cinquanta hanno rappresentato un periodo caratterizzato da alti indici di criminalità, che ha sicuramente costituito il terreno fertile per interpretazioni dottrinali  tese  a  comprimere  la  portata  innovativa  del  principio  rieducativo.  Come sempre avviene in periodi di forte allarme sociale, anche in questi anni tendono a prevalere preoccupazioni di tipo  generalpreventivo,  cui  si  accompagna  la mortificazione delle teorie di prevenzione speciale e  un pericoloso ritorno a teorie retributive  per  lo  più  orientate  in  senso  religioso,  derivanti  dall'affermarsi  nel dopoguerra dell'egemonia culturale cattolica (…) La  posizione  più  significativa,  anche  perché  non  è  semplice  riproposizione  del passato, ma è spesso indirizzata verso nuovi fronti, è quella di Bettiol. Egli, in una serie continua di saggi, nell'arco di un quarantennio, ribadendo la finalità retributiva della pena, ha preso di mira  sia  la  prevenzione  speciale  che  quella  generale, accusando entrambe di fare dell'uomo un oggetto pieghevole alle finalità del gruppo, della società, dello Stato53. Ma la sua analisi più attenta si è rivolta al «mito della rieducazione» dal momento che, proprio questa idea rieducativa e risocializzatrice, vulnererebbe l'uomo nella sua libertà interiore e sarebbe in agguato per soffocarne l'individualità in nome della prepotenza politica e del totalitarismo” (Zanirato, 2013). Tale impostazione ha finito per guidare diverse sentenze della Corte Costituzionale, tese a ridurre il contenuto rieducativo della pena ed a affiancarlo alla funzione “retributiva” della stessa.

Funzione rieducativa della pena e tasso di recidiva

Ma rispetto al contenuto ancora “rieducativo” della pena, che comunque rimane nella nostra Costituzione, cosa possiamo affermare? Il tasso di recidiva in Italia non è significativamente diverso da quello del resto dei Paesi occidentali: esso è del 68% per i detenuti negli istituti penitenziari, a fronte del 66% circa negli USA. Tuttavia, esso crolla al 19% per chi è sottoposto a misure alternative alla carcerazione, come ad esempio i domiciliari, ed è assistito dai servizi sociali (Leonardi, 2007). E qui misuriamo già in modo chiaro il fallimento del modello penitenziario italiano, affetto da sovraffollamento (le nostre carceri hanno più di 54.000 detenuti a fronte di appena 49.700 posti disponibili), scarsa capacità di separare i piccoli criminali da quelli cronici e professionali (il 46% dei detenuti italiani sconta pene inferiori ai 5 anni, quindi è un piccolo criminale, spesso occasionale) modeste risorse assegnate per percorsi di formazione culturale, civica e lavorativa (soltanto il 4,6% dei detenuti segue corsi professionali, solo il 30% ha un lavoro in carcere).
Anche i tentativi di sminuire l’enorme differenza statistica fra la recidiva in carcere e quella per le misure alternative allo stesso, tramite la considerazione che i detenuti nelle carceri tradizionali sono generalmente reclusi per reati più gravi (e quindi indicativi di una “professionalizzazione” o cronicizzazione del comportamento criminale) rispetto a chi è ai domiciliari o in carceri “sperimentali”, vengono meno alla luce del lavoro empirico di ricerca.
Come riferisce Donatella Stasio, “Daniele Terlizzese (dirigente di Banca d’Italia e direttore dell’Istituto Einaudi per l’Economia e la Finanzia, Eief) e Giovanni Mastrobuoni (Università di Essex), dal 2012 al 2014 hanno misurato gli effetti sulla recidiva di un carcere “aperto” – Bollate a Milano – dove il rapporto tra il dentro e il fuori è continuo e dove le attività di studio, lavoro, formazione preparano i detenuti alle misure alternative e poi alla libertà. (…) I risultati della ricerca sono infatti estremamente significativi, e incontestabili, sul fronte della recidiva: «La sostituzione di un anno in un carcere “chiuso e duro” con un anno in un carcere “aperto e umano” riduce la recidiva di 6-10 punti percentuali (tra il 15 e il 25% della recidiva media dei detenuti sfollati a Bollate)» spiega Terlizzese, aggiungendo che «l’effetto è maggiore per i detenuti con più bassi livelli di istruzione e per detenuti alla loro prima esperienza carceraria». Particolarmente interessante è il maggior effetto sui detenuti sfollati, i quali, non essendo passati per il processo di “selezione” con cui vengono invece scelti gli ospiti di Bollate, sono molto più simili al detenuto medio delle carceri italiane. Il che rafforza la “validità esterna” di questa ricerca (e demolisce l’argomento secondo cui la maggior recidiva per chi è in carceri chiuse tradizionali dipende dalla maggior gravità del comportamento criminale, indice di maggiore professionalizzazione e cronicizzazione ab origine, NdA). Più in generale, lo studio dimostra quanto sia determinante – ai fini della recidiva – scontare la pena in condizioni che non umilino i detenuti ma li responsabilizzino, lasciando loro spazi di autodeterminazione”.
D’altra parte, la maggior parte degli studi empirici condotti dimostra come la tipologia di relazioni intrattenute in carcere incida direttamente sulla recidiva, rendendo di fatto l’esperienza carceraria una sorta di “scuola criminale”, anziché una occasione per redimersi. Persino l’amministrazione di destra di Bush, nel 2004, ha approvato una legge (il c.d. “Second Chance Act”) mirata ad abbattere i tassi di recidiva soprattutto fornendo opportunità lavorative, già a partire dal carcere, e di reperimento di un alloggio e di cure mediche idonee dopo la scarcerazione. La valutazione dell’impatto d itale misura è controversa, ad esempio D’Amico-
A partire dal 2008, 36 Stati americani hanno sperimentato un calo drastico dei tassi di incarcerazione. 33 di questi, a partire dal 2007, hanno introdotto misure di espiazione alternativa al carcere per i reati di basso impatto sociale, sperimentando un forte calo del tasso di recidiva.
Per il nostro Paese, il Rapporto 2019 di Antigone sottolinea come “delle 44.287 misure (alternative alla detenzione carceraria – detenzione domiciliare, semilibertà, messa in prova, liberazione condizionale, NdA)  in esecuzione nel primo semestre del 2018 ne sono state revocate in tutto 1.509, il 3,4%. E di queste solo 201, lo 0,5%, per la commissione di nuovi reati”. Ciò sostanzialmente conferma i bassi tassi di recidività di chi gode di misure alternative al carcere.

Conclusione

In conclusione, lungi dall’accogliere proposte draconiane e apocalittiche sulla “certezza della pena”, sul ritorno di concezioni retributive e funzionalistiche della pena, in contrasto con il nostro dettato costituzionale, noi sappiamo, oggi, che le misure riabilitative riducono la recidiva, quindi migliorano la qualità della vita delle nostre comunità, abbattendo la criminalità, e contribuiscono a ridurre il costo economico del mantenimento di un gran numero di detenuti in carceri sovraffollate e fatiscenti.
Sappiamo anche, in barba ai profeti della “certezza della pena” intesa come automatismo fra reato e carcere, che la misura più efficace per ridurre la recidiva è l’assegnazione di pene alternative alla detenzione, come ad esempio i domiciliari, i lavori di pubblica utilità, la messa in prova, o la condizionale. Noi siamo già un Paese forcaiolo: appena il 44,8% dei rei è condannato a misure alternative al carcere, a fronte del 71,7% in Germania, del 70,3% in Francia, del 63,7% in Gran Bretagna, o del 52,1% in Spagna. Non abbiamo quindi bisogno di maggiore severità per sovraffollare ulteriormente carceri inadatte a costruire percorsi di reinserimento socio-lavorativo dei detenuti, al contrario abbiamo bisogno di rispettare il dettato costituzionale.

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