Da anni, ogni progetto di riforma
della giustizia, annunciato o prodotto, viene accompagnato dalla retorica della
“certezza della pena”. E’ una retorica avvincente, per certi versi, perché fa
presa su un Paese che ha, insieme, una sfiducia radicata nelle istituzioni
(quindi anche nella giustizia) e dall’altro è innervato da un giustizialismo
forcaiolo, riflesso di una rabbia sociale e di un sentimento di insicurezza
diffusi.
Ma chiediamoci che cosa
significhi l’espressione “certezza della pena”: nell’accezione comune, quella
dell’uomo della strada, essa significa una sorta di automatismo fra commissione
di un reato e espiazione carceraria dello stesso. Addirittura, la volontà di
anticipare la carcerazione rispetto alla stessa condanna, cancellando l’ovvio
concetto di civiltà giuridica per il quale chiunque è innocente fino a prova
contraria. La giustizia, spettacolarizzata dai media, è divenuta uno sfogatoio
di rabbie latenti: la sofferenza indotta dalla punizione (giusta o ingiusta)
crea un palcoscenico nella quale, in parte, autoconsolarsi (c’è chi sta peggio
di me, io almeno non sto al fresco) ed in parte proiettare sul reo le proprie
frustrazioni personali.
Anche fuori da tale visione
completamente distorta, il concetto di “certezza della pena” implica una idea
di automatismo, per il quale ad ogni evento debba, necessariamente,
corrispondere una determinata pena, una volta che la rilevanza penale
dell’evento sia stata accertata giudiziariamente. Tale idea di automatismo
confligge, però, con il naturale ed ovvio buon senso. Esso implica che le
Procure e le Forze dell’Ordine siano sempre, indifferentemente, in grado di
trovare e consegnare ai Tribunali gli autori effettivi dei reati, che il
giudice agisca come un automa, applicando in automatico una previsione
normativa penale perfetta, tale, cioè, da non essere suscettibile di alcuna
interpretazione o di alcun adattamento alla situazione concreta per la quale si
sta agendo, e che le circostanze attenuanti o aggravanti, perlomeno di tipo
generico, non siano mai applicate.
Nel «Contratto per il
cambiamento» firmato da Lega e M5S per il governo giallo-verde, emerge
esattamente tale interpretazione della “certezza della pena” declinata dal
principio di automatismo fra reato e carcere e dalla severità estrema della
concezione penale. Tale proposta, infatti, punta su “più carcere per tutti”,
inteso sia come quantità di galera da far scontare a chi commette reati sia
come quantità di prigioni da costruire per ospitare una popolazione di detenuti
destinata ad aumentare per la preannunciata eliminazione di misure alternative
e di benefici di ogni genere. Carcere chiuso, insomma, anzi chiusissimo. Per
garantire “più sicurezza per tutti”.
Qualche elemento di Costituzione e di teoria della pena
Evidentemente, tale approccio
confligge con l’ordinario buon senso, che evidenzia come il diritto sia per sua
natura incerto, e richieda quindi, caso per caso, una interpretazione del
giudice basata, oltre che su criteri tecnico-professionali e sulla
giurisprudenza, anche sul suo libero convincimento in relazione all’area grigia
non interpretabile secondo criteri tecnici a priori, ma soltanto in base ad una
opinione che si forma sul caso concreto che viene giudicato.
Ma tale approccio confligge anche
con la natura della pena prevista dalla nostra Costituzione. L’articolo 27,
infatti, recita “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al
senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La
Costituzione si inserisce, con una scelta precisa, in un dibattito sulla natura
della pena che dura sin da Beccaria. In estrema sintesi, l’approccio giuridico
anglosassone si concentra sulla natura espiativa della pena, che ha una valenza
triplice: essa deve, in tale concezione, servire da deterrente a chi voglia
commettere un reato, e quindi essere sufficientemente severa da scoraggiare chi
volesse intraprendere una azione criminosa, ed al contempo deve servire da
“contrappasso”, da compensazione morale per il male arrecato alla società da
parte di chi delinque, ed in questo senso trovano ospitalità istituti penali
tipicamente anglosassoni, come il lavoro forzato, inteso in termini di compensazione
economica ad un danno economico arrecato alla società, oppure la pena di morte,
come parallelo di un omicidio commesso. Infine, la pena deve “togliere di
mezzo” individui ritenuti inadatti ad una vita sociale ordinata per la gravità
dei reati commessi, o con la morte oppure con l’ergastolo effettivo, quello in
cui effettivamente non si esce più dal carcere. Tale concezione della pena è
definibile come “retributiva”, per la parte in cui intende “compensare” con la
pena il danno sociale arrecato, ed in parte come “funzionalistica”, nella misura
in cui intende eliminare dalla vita sociale individui considerati pericolosi ed
irredimibili.
Già Beccaria si discosta da tale
approccio, ritenendo la pena come un deterrente sociale alla commissione del
reato e, in una logica marginalista, prevedendo la fissazione della stessa
esattamente al punto di congiunzione fra il beneficio ottenibile tramite la
commissione di un reato e il costo da pagare in caso di condanna. In questo
approccio, Beccaria rigetta quindi le pene puramente espiative, cioè
eccessivamente severe rispetto alla gravità del fatto commesso, ivi compresa la
valutazione di totale inadeguatezza dell’individuo rispetto alla società che ne
giustificherebbe la “sparizione” (egli infatti è avverso alla pena di morte) ma
al contempo rigetta ogni finalità rieducativa della pena. Ciò perché egli
ragiona in termini puramente razionali e non etici: il criterio etico di
inadeguatezza sociale non ha fondamenti razionali, e non può quindi essere
assunto a criterio-guida di pene tendenti ad eliminare per sempre il reo dal
consesso sociale. La pena ha quindi, nella costruzione teorica di Beccaria, una
funzione essenzialmente deterrente: eliminando il beneficio del reato con una
sanzione di entità almeno pari allo stesso, scoraggia l’individuo che vorrebbe
delinquere. E’ evidente come tale approccio sconti l’assunzione di razionalità
degli agenti sociali tipica dell’intera impalcatura neoclassica e
utilitaristica/marginalista. Il crimine dipende soltanto da una valutazione
razionale fra costi e benefici effettuata dal potenziale delinquente, non da
aspetti socio-psicologici o culturali, o dall’interazione di cause
bio-psico-sociali, come un filone moderno di criminologia statunitense ritiene.
Con il progressivo (anche se
momentaneo) affermarsi della componente meramente sociologica della
criminologia, emerge invece la possibilità di pensare alla pena come occasione
di redenzione e reinserimento sociale attivo del reo. La condizione criminale
non è più vista come una mera condizione fisiologica dell’individuo, come nelle
teorie lombrosiane, che giustificano l’idea di una impossibile redenzione dell’individuo,
che va meramente messo in condizione di non nuocere più alla società, né come
una scelta razionale, che calibra la pena al punto di intersezione con l’utilità
marginale dell’azione criminale. Emerge l’idea che l’ambiente socio-educativo
in cui cresce l’individuo è alla radice del comportamento criminale, per cui la
pena può, in qualche modo, “rieducare” il reo, fornendogli i valori di rispetto
della legge e delle regole della collettività che le condizioni socio-educative
in cui è cresciuto non gli hanno consegnato. La dottrina marxista fornisce un
quadro in cui, se da un lato la criminalità comune è condannata fermamente come
sottoprodotto del capitalismo, essa è però considerata come una conseguenza
delle condizioni sociali di sfruttamento dell’uomo sull’uomo tipiche dello
sfruttamento capitalistico. Altri filoni non marxisti, come la teoria delle
sottoculture di Cohen, adottata per spiegare forme specifiche di devianza, come
quella giovanile, insistono comunque anch’esse sulle condizioni sociali,
abitative, educative e di opportunità lavorativa e di ascesa sociale in un
contesto sociale molto competitivo come quello statunitense.
Detta corrente di pensiero evolve
fino ad assumere una forma teoricamente completa negli anni Sessanta, tramite
la teoria del “labelling” (etichettatura). Secondo tale teoria, il livello di
allarme sociale dei diversi reati è influenzato dalle classi dominanti della
società in modo da reprimere in misura più forte i ceti sociali più deboli e disagiati,
che più frequentemente li commettono. La reazione sociale a queste specifiche
categorie di reato (che includono, tipicamente, la microcriminalità urbana, il
piccolo spaccio di stupefacenti, i piccoli reati contro il patrimonio, il
vandalismo, ecc.) condurrebbe alla conseguenza negativa di “etichettare” in
modo negativo e permanente chi li commette, generalmente un membro delle classi
sociali disagiate o delle minoranze, producendo, sia all’interno del sistema
carcerario che all’esterno, nella società, forme di autopercezione negativa di
sé e una reputazione che ostacola qualsiasi tentativo di inserimento sano
dentro il tessuto lavorativo. Al contempo, l’etichettatura induce gli
etichettati a formare una “sottocultura”, come direbbe Cohen, frequentandosi
fra di loro e quindi autoalimentando nuovi propositi criminali.
In sostanza, secondo la labelling
theory, come esposta nella sua versione più completa da Howard Becker nel suo
libro “Outsiders” del 1973, sostiene che è la società a “criminalizzare” gli
individui, come forma di lotta di classe, producendo forme di ghettizzazione, sia
carceraria che sociale, che paradossalmente portano alla recidiva ed alla
cronicizzazione delle carriere criminali. In questo filone, si sviluppa una
classe di teorie chiamate “convicting theories”, che criticano il sistema
carcerario per la sua assoluta carenza di attenzione alle tecniche ed alle
modalità di rieducazione sociale e psicologica dei rei, ed anzi, nelle
condizioni tipiche del sovraffollamento degli istituti penitenziari, mostrano
come il contatto fra piccoli criminali e delinquenti di professione porti ad un
aumento della probabilità di recidiva dei primi.
In questo contesto teorico,
dunque, la nostra Costituzione si pone nell’obiettivo, tipico della
criminologia sociologica di sinistra, della funzione rieducativa della pena. Un
obiettivo peraltro molto combattuto a livello di interpretazione della norma
costituzionale, soprattutto da parte delle componenti democristiane di destra
che parteciparono ai lavori della Costituente: “i primi anni cinquanta hanno rappresentato un periodo caratterizzato da
alti indici di criminalità, che ha sicuramente costituito il terreno fertile
per interpretazioni dottrinali tese a
comprimere la portata
innovativa del principio
rieducativo. Come sempre avviene
in periodi di forte allarme sociale, anche in questi anni tendono a prevalere preoccupazioni
di tipo generalpreventivo, cui
si accompagna la mortificazione delle teorie di prevenzione
speciale e un pericoloso ritorno a
teorie retributive per lo
più orientate in
senso religioso, derivanti
dall'affermarsi nel dopoguerra dell'egemonia
culturale cattolica (…) La
posizione più significativa, anche
perché non è
semplice riproposizione del passato, ma è spesso indirizzata verso
nuovi fronti, è quella di Bettiol. Egli, in una serie continua di saggi,
nell'arco di un quarantennio, ribadendo la finalità retributiva della pena, ha
preso di mira sia la
prevenzione speciale che
quella generale, accusando
entrambe di fare dell'uomo un oggetto pieghevole alle finalità del gruppo,
della società, dello Stato53. Ma la sua analisi più attenta si è rivolta al
«mito della rieducazione» dal momento che, proprio questa idea rieducativa e
risocializzatrice, vulnererebbe l'uomo nella sua libertà interiore e sarebbe in
agguato per soffocarne l'individualità in nome della prepotenza politica e del
totalitarismo” (Zanirato, 2013). Tale impostazione ha finito per guidare
diverse sentenze della Corte Costituzionale, tese a ridurre il contenuto
rieducativo della pena ed a affiancarlo alla funzione “retributiva” della stessa.
Funzione rieducativa della pena e tasso di recidiva
Ma rispetto al contenuto ancora “rieducativo”
della pena, che comunque rimane nella nostra Costituzione, cosa possiamo
affermare? Il tasso di recidiva in Italia non è significativamente diverso da quello
del resto dei Paesi occidentali: esso è del 68% per i detenuti negli istituti
penitenziari, a fronte del 66% circa negli USA. Tuttavia, esso crolla al 19%
per chi è sottoposto a misure alternative alla carcerazione, come ad esempio i
domiciliari, ed è assistito dai servizi sociali (Leonardi, 2007). E qui
misuriamo già in modo chiaro il fallimento del modello penitenziario italiano,
affetto da sovraffollamento (le nostre carceri hanno più di 54.000 detenuti a
fronte di appena 49.700 posti disponibili), scarsa capacità di separare i
piccoli criminali da quelli cronici e professionali (il 46% dei detenuti
italiani sconta pene inferiori ai 5 anni, quindi è un piccolo criminale, spesso
occasionale) modeste risorse assegnate per percorsi di formazione culturale,
civica e lavorativa (soltanto il 4,6% dei detenuti segue corsi professionali,
solo il 30% ha un lavoro in carcere).
Anche i tentativi di sminuire l’enorme
differenza statistica fra la recidiva in carcere e quella per le misure
alternative allo stesso, tramite la considerazione che i detenuti nelle carceri
tradizionali sono generalmente reclusi per reati più gravi (e quindi indicativi
di una “professionalizzazione” o cronicizzazione del comportamento criminale)
rispetto a chi è ai domiciliari o in carceri “sperimentali”, vengono meno alla
luce del lavoro empirico di ricerca.
Come riferisce Donatella Stasio, “Daniele Terlizzese (dirigente di Banca
d’Italia e direttore dell’Istituto Einaudi per l’Economia e la Finanzia, Eief)
e Giovanni Mastrobuoni (Università di Essex), dal 2012 al 2014 hanno misurato
gli effetti sulla recidiva di un carcere “aperto” – Bollate a Milano – dove il
rapporto tra il dentro e il fuori è continuo e dove le attività di studio,
lavoro, formazione preparano i detenuti alle misure alternative e poi alla
libertà. (…) I risultati della ricerca sono infatti estremamente significativi,
e incontestabili, sul fronte della recidiva: «La sostituzione di un anno in un
carcere “chiuso e duro” con un anno in un carcere “aperto e umano” riduce la
recidiva di 6-10 punti percentuali (tra il 15 e il 25% della recidiva media dei
detenuti sfollati a Bollate)» spiega Terlizzese, aggiungendo che «l’effetto è
maggiore per i detenuti con più bassi livelli di istruzione e per detenuti alla
loro prima esperienza carceraria». Particolarmente interessante è il maggior
effetto sui detenuti sfollati, i quali, non essendo passati per il processo di
“selezione” con cui vengono invece scelti gli ospiti di Bollate, sono molto più
simili al detenuto medio delle carceri italiane. Il che rafforza la “validità
esterna” di questa ricerca (e demolisce l’argomento secondo cui la maggior
recidiva per chi è in carceri chiuse tradizionali dipende dalla maggior gravità
del comportamento criminale, indice di maggiore professionalizzazione e
cronicizzazione ab origine, NdA). Più in generale, lo studio dimostra quanto
sia determinante – ai fini della recidiva – scontare la pena in condizioni che
non umilino i detenuti ma li responsabilizzino, lasciando loro spazi di
autodeterminazione”.
D’altra parte, la maggior parte degli
studi empirici condotti dimostra come la tipologia di relazioni intrattenute in
carcere incida direttamente sulla recidiva, rendendo di fatto l’esperienza
carceraria una sorta di “scuola criminale”, anziché una occasione per
redimersi. Persino l’amministrazione di destra di Bush, nel 2004, ha approvato
una legge (il c.d. “Second Chance Act”) mirata ad abbattere i tassi di recidiva
soprattutto fornendo opportunità lavorative, già a partire dal carcere, e di
reperimento di un alloggio e di cure mediche idonee dopo la scarcerazione. La valutazione
dell’impatto d itale misura è controversa, ad esempio D’Amico-
A partire dal 2008, 36 Stati
americani hanno sperimentato un calo drastico dei tassi di incarcerazione. 33
di questi, a partire dal 2007, hanno introdotto misure di espiazione alternativa
al carcere per i reati di basso impatto sociale, sperimentando un forte calo
del tasso di recidiva.
Per il nostro Paese, il Rapporto
2019 di Antigone sottolinea come “delle
44.287 misure (alternative alla detenzione carceraria – detenzione domiciliare,
semilibertà, messa in prova, liberazione condizionale, NdA) in esecuzione nel primo semestre del 2018 ne
sono state revocate in tutto 1.509, il 3,4%. E di queste solo 201, lo 0,5%, per
la commissione di nuovi reati”. Ciò sostanzialmente conferma i bassi tassi
di recidività di chi gode di misure alternative al carcere.
Conclusione
In conclusione, lungi dall’accogliere
proposte draconiane e apocalittiche sulla “certezza della pena”, sul ritorno di
concezioni retributive e funzionalistiche della pena, in contrasto con il
nostro dettato costituzionale, noi sappiamo, oggi, che le misure riabilitative
riducono la recidiva, quindi migliorano la qualità della vita delle nostre
comunità, abbattendo la criminalità, e contribuiscono a ridurre il costo economico
del mantenimento di un gran numero di detenuti in carceri sovraffollate e
fatiscenti.
Sappiamo anche, in barba ai
profeti della “certezza della pena” intesa come automatismo fra reato e
carcere, che la misura più efficace per ridurre la recidiva è l’assegnazione di
pene alternative alla detenzione, come ad esempio i domiciliari, i lavori di
pubblica utilità, la messa in prova, o la condizionale. Noi siamo già un Paese
forcaiolo: appena il 44,8% dei rei è condannato a misure alternative al carcere,
a fronte del 71,7% in Germania, del 70,3% in Francia, del 63,7% in Gran Bretagna,
o del 52,1% in Spagna. Non abbiamo quindi bisogno di maggiore severità per
sovraffollare ulteriormente carceri inadatte a costruire percorsi di
reinserimento socio-lavorativo dei detenuti, al contrario abbiamo bisogno di
rispettare il dettato costituzionale.
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