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giovedì 30 gennaio 2020

Due parole sulla Brexit e l'Italia



Vorrei dire due parole sulla euforia da Brexit che promana dalle reti sociali. La Gran Bretagna non faceva parte dell'euro, non subiva, quindi, il corredo di vincoli alle politiche fiscali e spossessamento di sovranità che ne deriva. Su molte materie, aveva diritto di opting out. Insomma, era già un Paese in buona misura esterno alla Ue.

 L'uscita definitiva è ovviamente, oltre che il riflesso del timore degli effetti della globalizzazione dei ceti popolari, anche un buon affare per il capitalismo britannico ed è per questo che i conservatori hanno cavalcato l'onda: consente loro di risparmiare circa 8 miliardi all'anno di contributo netto al bilancio Ue e di impostare una politica fiscale e bancaria di vantaggio, in grado di attrarre investimenti e capitali finanziari dall'Europa continentale, diventando un mix fra Svizzera e Isole Cayman.

Noi invece, noialtri, checché ne dica Farage, stiamo dentro una moneta unica. Abbiamo un debito pubblico, per il 35% circa, detenuto da soggetti non residenti. Un sistema bancario non lontano dal collasso e una economia strutturalmente a bassa crescita per bassa produttività totale dei fattori ed una pressione fiscale galattica.

Vorrei capire bene, in queste condizioni, dove usciremmo, e verso dove andremmo uscendo. La scelta di uscire della Gran Bretagna ha una valenza strategica, e quindi è premiata dai mercati. Essi sanno bene che essa non prelude a nessun protezionismo ed a nessun rimpatrio degli immigrati, perché ad una economia altamente finanziarizzata e terziarizzata, che non ha più una rilevante industria interna da difendere, e che quel poco di produzione industriale lo deve multinazionali straniere, non conviene fare protezionismo, né conviene aizzare troppo le volontà indipendentistiche scozzesi o le nostalgie guerrigliere nordirlandesi con in accordo di separazione traumatica dalla Ue.

Nel caso italiano, una uscita non avrebbe alcuna valenza strategica, sarebbe il prodotto dell'insostenibilità delle politiche necessarie per restare nell'euro, quindi non una scelta ma una costrizione. I mercati, evidentemente, non premierebbero tale evento, come per Londra, l'aumento del rollover risk conseguente ad un calo del rating del debito sovrano lo renderebbe non più vendibile e sarebbe necessario assorbire il risparmio interno per rinnovare un debito pubblico fuori mercato, mente una crescita economica bassa per fattori strutturali non riuscirebbe a superare il tasso di interesse sul debito pubblico in crescita esplosiva e, ovviamente, la fiscal fatigue per ottenere avanzi primari crescenti sarebbe insostenibile (cfr. il commento del paper di Debrun, Ostry, Willems e Wyplosz sulle condizioni di sostenibilità del debito pubblico nell'articolo "Sostenibilità del debito pubblico e caso dell'Italia", presente su questo blog). Il crollo delle quotazioni dei titoli pubblici porterebbe le banche italiane al collasso finale, innescando una crisi di sistema. Un default sovrano associato ad una crisi bancaria, che renderebbe ben miseri gli eventuali guadagni di competitività di prezzo derivanti dalla reintroduzione di una lira svalutata (che peraltro avrebbe effetti negativi sui costi delle materie prime importate, che contro-bilancerebbero gli effetti positivi della svalutazione sull'export).

Con questo non sto ovviamente difendendo l'euro, né dicendo che non bisogna uscirne. Sto dicendo che non è minimamente pensabile una uscita unilaterale come quella britannica, che, per i motivi sopraddetti, mentre a loro conviene, per noi sarebbe un disastro.

Sarebbe invece necessario introdurre nel dibattito europeo il tema di una fuoriuscita concordata, ordinata e collettiva, ad esempio tornando ad un sistema di cambi semirigidi come il vecchio Sme, corretto con misure che ne evitino il principale difetto, ovvero la vulnerabilità ad attacchi speculativi sui tassi di cambio, ad esempio prevedendo riallineamenti semo automatici delle parità centrali quando un set di indicatori macroeconomici (tasso di inflazione, deficit/Pil, importo delle riserve valutarie della Banca Centrale, ecc.) ne segnalino la non sostenibilità. Un sistema di cambi semirigidi consentirebbe di scaricare in parte i differenziali interni di competitività di costo sul tasso di cambio, invece che sui salari, evitando di scavezzare ulteriormente la domanda interna.

Tale dibattito potrebbe far leva sulla stessa Germania, che sta iniziando a sperimentare sulla propria pelle, con una incombente recessione, gli effetti del gioco "fotti il compare" che ha per lunghi anni giocato ai danni dei propri partner, e che adesso si manifestano anche sulla sua domanda domestica, depressa dall'austerita' necessaria per sostenere esportazioni che non hanno più sbocchi, fra neoprotezionismo USA, rallentamento cinese e demolizione della domanda interna degli altri Paesi Ue. I tedeschi sono duri come i lecci, ma il miglior modo per addestrare un testone è quello di fargli provare dolore per le sue scelte inadeguate. Capiranno anche loro, ma in quel momento sarà necessario avere una strategia di uscita comune da poter imporre. Nel frattempo, sarebbe necessario lavorare ai fianchi il sistema, recuperando quanto più spazio fiscale possibile, ad esempio escludendo gli investimenti dal calcolo del deficit e recuperando spazi di politica industriale settoriale, allentando il divieto di aiuti di Stato. Ma ovviamente occorrerebbe avere una classe dirigente degna di questo nome. Il caso italiano è quello dei una selezione avversa nella quale la regola di affidarsi al vincolo esterno per disciplinare un Paese allo sbando dopo Tangentopoli del 1992 ha prodotto un ceto politico di inetti esterofili ed una borghesia del Nord più integrata con il circuito industriale tedesco che con il resto dell'economia nazionale.

Nel frattempo, nell'immediato, le conseguenze di una Brexit unilaterale che non ci possiamo permettere di imitare saranno di due tipi: dovremo coprire con soldi nostri i mancati contributi britannici al bilancio comune e dovremo subire la concorrenza fiscale della perfida Albione, con conseguente fuga di capitali. Non sono cose di cui, personalmente, mi rallegro e per le quali mi sento di condividere l'entusiasmo dei brexiter alla matriciana nostrani.

Un vecchio bollettino meteo inglese, ripreso dal Times negli anni Trenta, recitava "nebbia fitta sulla Manica: continente isolato". Mi sembra che renda bene l'idea.

domenica 26 gennaio 2020

Alcuni spunti di riflessione sul voto




Per i cultori della materia, ci sarà più tempo per una analisi su matrici territoriali e sociali. Alcune cose sono però evidenti:

- Salvini ha perso e anche male. In Emilia-Romagna Bonaccini ha succhiato circa due punti percentuali al centro destra con il voto disgiunto, tutto voto di destra moderata e forzista che si trovava a disagio con gli estremismi verbali del capitano, ed apprezzava la buona gestione amministrativa di questi anni; un altro punto di voto disgiunto è arrivato dal M5s (differenza voto di lista - voto al candidato) ma Bonaccini avrebbe vinto anche senza il voto disgiunto. Di fatto, la Borgonzoni è avanti solo in provincia di Piacenza, che però è proiettata sulla Lombardia, in alcune zone della Romagna, dove è più forte il radicamento leghista ed in montagna, ponendo un tema di riequilibrio territoriale. Ma il cuore emiliano, la rete di città medie e piccole di pianura, ha retto;

- non è mai corretto fare paragoni fra elezioni diverse, ma la Lega perde voti rispetto alle europee, non è più il primo partito in Emilia-Romagna, la sua candidata arranca a sette punti e passa dal vincitore e persino nella trionfale cavalcata calabrese deve cedere lo scettro di partito leader a Forza Italia. La sconfitta di Salvini non avrebbe potuto essere più rotonda. Ci accorgiamo che la Lega è stata in partita solo mediaticamente sui social. Perde persino nella simbolica Bibbiano. La politica è fatta di simboli, e simbolicamente Salvini si rivela un condottiero sconfitto. Di fronte alla crescita continua del partito della Meloni, che in Calabria ha gli stessi voti della Lega, e a tendenze dell'elettorato forzista a guardare altrove, che potranno essere capitalizzate dal partitino centrista di Renzi o da Calenda, la parabola di Salvini come condottiero di una destra unitaria si avvia al declino. L'uomo appare modesto politicamente ed intellettualmente, l'errore del Mojito agostano produce ancora effetti, l'aura comunicativa da vincitore si appanna. Tempo un anno e sarà marginale;

- le Sardine hanno fatto effetto, mobilitando un voto di sinistra deluso con un messaggio tutto in negativo, giocando sulla paura di un inesistente fascismo. Mentre non credo che i pesci ed i loro leader abbiano un futuro, essendo nati da una operazione in vitro di establishment, va riconosciuto che, in un Paese allo sbando, giocare sulle paure fa vincere sempre. Così come Salvini è cresciuto alimentando paure, le sardine hanno offerto una illusoria tranquillizzazione dalle paure di risorgente fascismo di una parte di elettorato, generalmente di età avanzata, rimasto prigioniero di schemi obsoleti e dalle paure, stavolta concrete, di emarginazione socio-economica e politica di segmenti giovanili sfruttati. 

- Conte non canti vittoria. Paradossalmente, il suo governo è più fragile. Le forze centrifughe che stanno distruggendo il M5s si accelereranno, Renzi è sempre più vicino a mandare a gambe all'aria l'esecutivo. Ma non ci saranno elezioni anticipate, ci sarà un nuovo governo, forse a guida Draghi, forse Franceschini. Lo ha chiarito Mattarella. Niente voto prima del referendum, e poi arriveremo a ridosso della nuova legge di bilancio, e non si fanno le elezioni a ridosso della legge di bilancio. Salvini si consumerà all'opposizione. Il potere logora chi non lo ha, diceva Andreotti;

- i 5Stelle sono scomparsi dalla geografia politica. Zingaretti, con brutale franchezza, ha detto loro che oramai siamo in uno scenario bipolare, quindi possono solo sciogliersi progressivamente dentro il Pd, o gravitargli attorno come partito satellite, senza più autonomia, come Leu;

- dal punto di vista di una ricostruzione a sinistra, è interessante capire dove siano fuggiti i voti del M5s rispetto alle europee. In Emilia-Romagna sono andati al Pd, a sostituire parzialmente il voto operaio in fuga verso la Lega, in Calabria sono andati al civico Tansi, permettendogli di fare un buon risultato. Anche in Umbria si sono verificati alcuni flussi dal M5s al candidato civico, accompagnati da ben più rilevanti flussi verso la Lega. Se ne ricava che l'elettorato pentastellato è caratterizzato da fluidità assoluta. La teoria di uno zoccolo duro di elettori del M5s si è rivelata errata. L'elettore-tipo del M5s non ha radicamento perché è a-ideologico e fluttua, guidato da una domanda manichea di onestà (ed al Sud anche di assistenzialismo) e da una radicata propensione maggioritaria: dove il candidato di maggioranza non è toccato da scandali, l'elettore pentastellato vi si dirige. Ecco perché il voto a Bonaccini e non alla Santelli (legata a Berlusconi). Questo tipo di elettorato, privo di riferimenti ideologici, mobile, moralista, maggioritarista, difficilmente può essere rieducato ad una causa di sinistra o socialista.  

venerdì 10 gennaio 2020

Craxi e la sinistra del futuro


Ultime considerazioni su Craxi, poi la faccio finita, anche perché non ha senso riaprire la diatriba degli sconfitti nel 2020. Il craxismo ha attraversato tre fasi, non sempre strettamente successive temporalmente, essenzialmente interrelate. La fase del Midas, quella dell'Ergife e quella di Hammamet.

Nella prima fase, che è quella che va salvata di questa esperienza storica, vi fu una intuizione straordinaria di ciò che avrebbe dovuto fare una sinistra nell'epoca del postfordismo, della liquefazione verso il centro delle classi otto-novecentesche, dell'avvio di fenomeni sempre più rapidi di globalizzazione, di indebolimento ed entrata in crisi, geopolitica ma soprattutto ideale, del mito e del modello del socialismo reale di oltre cortina dopo il 68.
Questa intuizione si può così grossolanamente riassumere:

A) la sostituzione di Marx con Proudhon, sostituzione che intendeva guardare ad una nuova composizione di classe della sinistra: con i nuovi modelli di organizzazione del lavoro toyotisti e di lean organisation e l'esplosione della grande fabbrica verticalmente integrata tramite l'outsourcing e i distretti, con la marcia dei 40.000, mal compresa dai sindacati, incapaci di aggiornare il loro schema di lettura, la classe operaia inizia la sua frammentazione e acquisisce elementi sovrastrutturali piccolo borghesi, entrando nel ceto medio. Lo stesso ceto medio inizia a rivendicare la sua centralità nella lotta per i diritti, rifiutando una sinistra dogmatica che continua a trattarlo come appendice del padronato. L'idea proudhoniana della centralità, nella dinamica sociale, del piccolo produttore alleato con il lavoratore, consente di andare oltre la rigida interpretazione del marxismo della sinistra di allora, prefigurando l'esigenza di un blocco sociale fra lavoratori e piccoli borghesi, che anticipa in modo lucidissimo l'emersione di nuove classi sfruttate della new economy, a metà strada fra proletariato e piccola borghesia, e prefigura ciò che sta avvenendo oggi, ovvero una ribellione contro la globalizzazione condotta dai ceti medi impoveriti, non dalla classe operaia tradizionale;

B) questa alleanza deve essere basata su un patto fra bisogno e merito, per dirla martellianamente. Occorre assecondare il desiderio di ascesa sociale dei ceti medi affluenti con il rafforzamento delle reti protettive per chi non gliela fa. Solo così si può restare protagonisti in una società nuova, dove persino a sinistra il libertarismo post sessantottino ha seminato il germe dell'individualismo e del desiderio di felicità personale, oltre la massificazione della sinistra tradizionale, e dove si sviluppano nuove povertà, che richiedono nuove forme di welfare, nello stridore fra ideologia lavorista della società tradizionale e progresso tecnico, che è labour saving;

C) in un mondo globale, serve una politica estera di nicchia, che crei un vantaggio distintivo non rimuovibile. Rimanendo dentro lo schema atlantico, l'Italia deve sapersi qualificare come ago della bilancia nel micro scacchiere mediterraneo. Da lì deriva il lavoro per farsi autorizzare la costruzione di una portaerei, che i trattati post bellici proibivano alla nostra Marina, perché una piccola potenza mediterranea necessita di un minimo di proiezione aeronavale. Da lì derivano l'amicizia con Ben Ali in Tunisia, l'intesa cordiale con Gheddafi in Libia, sottraendo al neocolonialismo francese in Nord Africa posizioni importanti. Al tempo stesso, lo Stato deve mantenere una presenza forte nell'industria, garantendo la sopravvivenza delle Ppss e usando la leva della spesa pubblica in deficit per alimentare la crescita. L'economia deve essere ancillare alla politica, anche al prezzo di meccanismi di corruzione, e non viceversa, e ciò richiede uno Stato forte, anche opprimente.

Dopodiché è vero che il Craxi della fase bonapartista rovino' tale disegno, in buona parte con le sue mani, in parte per le pressioni dei suoi alleati di governo, Dc in testa, e delle fameliche bramosie dei suoi sodali, generate dalla demolizione del partito, trasformato in comitato di affari, in parte a causa di un Pci e di un sindacato che si arroccarono su posizioni difensive e su letture miopi delle dinamiche sociali di quegli anni, anziché accettare la sfida della modernizzazione proposta da Craxi, dando avvio al proprio declino.

Però oggi, oggi che la globalizzazione è in crisi, il neoliberismo non ha più soluzioni da offrire, i ceti medi impoveriti, segmenti di classe operaia legati alle imprese a mercato domestico, e pezzi di sottoproletariato urbano danno vita ad ingenti fenomeni di protesta, ecco che le tre grandi intuizioni di Craxi (blocco sociale fra mondo del lavoro e piccola impresa a mercato interno, alleanza fra merito e bisogno, rafforzamento di nicchia dello Stato in proiezione esterna e dentro l'economia nazionale) diventano le tre leggi auree attraverso le quali la sinistra potrebbe ricostruire il suo radicamento sociale nel nuovo mondo in cui ci troviamo.

Il resto lasciamolo alle polemiche storiche, accademiche e da barrino del ponce. O ai perdenti con il loro fegato in mano.

sabato 4 gennaio 2020

Immigrazione: i cinque miti sfatati dai dati empirici



Uno spaccato interessante del comportamento familiare e riproduttivo della popolazione immigrata deriva dal rapporto Istat “Vita e percorsi di integrazione degli immigrati in Italia”. Tale rapporto indaga diversi aspetti, delle vita familiare e lavorativa degli immigrati, e costituisce quindi un buon punto di partenza per una analisi di tale popolazione. Una analisi attenta di questi dati serve per sfatare alcuni miti, diciamo così buonisti, sull'immigrazione nel nostro Paese. Vediamo quali miti vengono rimessi in discussione.

1° Mito. Gli immigrati servono per contrastare l'invecchiamento demografico. L'età media degli immigrati è nettamente più giovane di quella degli italiani: 34 anni a fronte dei 43 medi del nostro Paese. Tuttavia, negli anni, come effetto dei ricongiungimenti familiari, del calo della fecondità delle donne immigrate e della storia anagrafica degli immigrati di più vecchio arrivo, la piramide delle età tende a mostrare profili sempre meno divergenti rispetto a quello degli italiani.




Un motivo fondamentale risiede nella convergenza dei comportamenti riproduttivi: con l'unica eccezione delle donne nigeriane ed ucraine, i tassi di fecondità delle donne immigrate scendono notevolmente nel tempo, allontanandosi dai valori dei Paesi di origine ed avvicinandosi a quelli medi delle donne italiane. Il tasso di fecondità delle straniere residente in Italia passa da 2,79 a 1,95 fra 2005 e 2015, avvicinandosi all'1,26 delle italiane. Ciò deriva anche da una età in cui gli immigrati presenti da noi si sposano che è più avanzata rispetto alla media dei Paesi di origine. Gli immigrati, in altri termini, quando arrivano da noi, acquisiscono alcune nostre abitudini: si sposano più tardi e fanno meno figli. La numerosità media delle famiglie, quindi, è analoga al dato italiano, che è di 2,5 componenti. Si va dagli 1,8 componenti degli ucraini, ai 3,6 dei macedoni. 


Ed in ogni caso tale numerosità è sistematicamente inferiore a quella delle famiglie del Paese di origine. Ciò comporterà, inevitabilmente, un invecchiamento della popolazione immigrata che, anziché “pagarci le pensioni”, le chiederà, pesando sulla previdenza sociale e sulla sanità.

2° Mito. L'immigrazione deriva da tragedie e persecuzioni nei paesi di origine, e aiuta la nostra economia. L'immigrazione è sempre meno selettiva: fra 2007 e 2016, i permessi di soggiorno per motivi di lavoro passano dal 56,1% ad appena il 5,7%, mentre esplodono quelli legati a richiesti di asilo e motivi umanitari (dal 3,7% al 34,3%) e per motivi di ricongiungimento familiare (dal 32,3% al 45,1%). L'immigrazione, quindi, è sempre meno legata ad effettive esigenze lavorative della nostra economia e sempre più “subita” dal nostro Paese, costituita da persone che non necessariamente hanno le professionalità che ipoteticamente ci servirebbero. Fra i Paesi con gli arrivi più rilevanti per motivi di asilo ed umanitario, spiccano realtà, come il Ghana o il Pakistan, nelle quali non sono presenti guerre civili o regimi antidemocratici (al netto delle consuete scaramucce nel Kashmir nel caso del Pakistan). Vi è, di fatto, un disallineamento rilevante fra la crescente mole di richieste di asilo e di permessi per motivi umanitari e le reali motivazioni dei migranti: come riporta l'Istat, “le quattro motivazioni prevalenti che interessano l’85 per cento degli immigrati sono: i motivi affettivi e familiari che comprendono il ricongiungimento familiare (22,7 per cento), la volontà di migliorare la qualità della propria vita o della famiglia (22,1 per cento), la mancanza o la difficoltà di trovare un lavoro nel Paese di origine (20,8 per cento) e il desiderio di guadagnare di più (20,3 per cento). I problemi familiari, lo studio, le guerre e i conflitti sono motivazioni presenti, ma riguardano un numero decisamente inferiore di persone”. 




La discrepanza fra aumento dei permessi di soggiorno per asilo e motivi umanitari, e le reali motivazioni degli immigrati, dimostra plasticamente il fallimento delle politiche di accoglienza italiane: si accolgono con strumenti impropri, tipici di situazioni di discriminazione etnica, religiosa o politica, persone che non soffrono di tali discriminazioni, e sono a tutti gli effetti migranti economici. Tali persone sfruttano un canale di ottenimento del permesso di soggiorno, come la richiesta di asilo, che è più facilmente concedibile rispetto a quello per motivi lavorativi, pur essendo venute da noi per motivi di lavoro e reddito, non avendo quindi maturato un diritto automatico ad essere accolti, come quello legato agli aspetti umanitari.
Il grosso di chi ha scelto l'Italia come Paese di arrivo dentro Schengen lo ha fatto per motivi di ricongiungimento con familiari, fidanzati o parenti (quasi il 40%) e ciò evidenzia la natura “pull” del modello migratorio nel nostro Paese: in molte comunità di stranieri, partono per primi i “pionieri” che, una volta assestati nel Paese di destinazione, chiamano a sé gli altri familiari o membri del clan. Ciò deriva da una storia migratoria iniziata, nel nostro Paese, negli anni Ottanta, con le prime comunità di filippini e di africani, venuti da noi per fare, effettivamente, lavori che in quella fase storica gli italiani stavano abbandonando: badanti e personale di servizio nelle case, braccianti agricoli, operai dequalificati nelle costruzioni. Le condizioni di benessere dell'Italia di quegli anni consentivano di poter assorbire tale modello migratorio, ma i suoi effetti, in termini di ricongiungimenti, si verificano, tipicamente “a scoppio ritardato”, perché vengono dopo la fase di consolidamento dei pionieri, e stanno maturando proprio in questi anni, che sono caratterizzati da grandi difficoltà economiche e sociali. Da qui derivano particolari difficoltà di integrazione.


3° mito: l'immigrazione coinvolge i più disperati. Il 66% degli immigrati possedeva informazioni sull'Italia prima di entrarvi. Generalmente, chi si informa non appartiene agli strati sociali più deprivati, ha tempo, risorse, istruzione e predisposizione mentale per acquisire informazioni, quindi appartiene a strati sociali meno sfavoriti. 
Inoltre, il 75,3% di chi è venuto da noi ha reperito per proprio conto le risorse economiche necessarie per il viaggio e, spesso, specie per chi viene da Paesi subsahariani e deve attraversare territori molto estesi prima di imbarcarsi, tale costo non è indifferente (si parla di tariffe dai 3.000 ai 5.000 euro a persona da corrispondere ai trafficanti delle migrazioni). Come ammette l'Istat, “Questi dati confermano le ipotesi sul capitale sociale ed economico, mediamente abbastanza elevato, degli immigrati residenti in Italia”.
I matrimoni misti fra stranieri ed italiani sono un numero ancora molto piccolo rispetto ai matrimoni totali (il 12,4% di questi ultimi, nello specifico) e sono quasi interamente dominati dalle donne dell'Europa dell'Est che sposano cittadini italiani, cioè dalla componente culturalmente più affine agli italiani. Poiché i matrimoni misti sono generalmente considerati un indicatore di assimilazione (al netto di quelli celebrati per motivi opportunistici, ad esempio per l'ottenimento del permesso di soggiorno a tempo indeterminato) la scarsa rilevanza di tale fenomeno, e la sua concentrazione nella componente migratoria culturalmente più affine agli italiani, è una chiara manifestazione del fallimento di ogni politica di integrazione, soprattutto con la quota musulmana, o di altre religioni non cristiane, dell'immigrazione.

4° mito: gli italiani sono razzisti nei confronti degli immigrati. Se gli italiani sono razzisti, sicuramente gli immigrati non se ne accorgono. Il 69% di chi è arrivato pensa di rimanere da noi per sempre, senza tornare al Paese di origine o andare in altri Paesi europei (evidentemente da noi si vive bene). Solo il 5% di chi è arrivato in Italia sceglierebbe, se potesse tornare indietro, di non venire da noi. Dentro questo 5%, quelli che non sceglierebbero nuovamente l'Italia per motivi di discriminazioni o perché si sentono soli o non accettati o perché la gente è considerata poco cordiale o accogliente sono solo il 13,4%. Il grosso che non sceglierebbe più di venire in Italia lo imputa al costo della vita.



5° mito: i lavoratori stranieri sono segregati in occupazioni di livello infimo, che “gli italiani non vogliono più fare”. Premesso che, quando si emigra, molto difficilmente si mantiene lo status socio-professionale che si aveva in Patria, e ciò rappresenta una verità eterna dell'emigrazione, i dati mostrano che su 100 stranieri che, come primo lavoro, hanno ricoperto posizioni non qualificate, il 10% ascende, successivamente, ad un livello di operaio qualificato, il 22% ad operaio specializzato, l'11% a posizioni di vendita o servizi, impiegatizie e tecniche, o a posizioni di dirigenti o professionisti, cioè al ceto medio. Il tutto in un mercato del lavoro, come quello italiano, nel quale l'ascensore sociale è bloccato da decenni.
Il mistero è presto svelato: mentre gli italiani vivono in una società individualistica e atomizzata, senza alcuna assistenza da parte della politica e dei sindacati, oramai tutti votati al neoliberismo, gli stranieri si difendono grazie al mantenimento di reti di comunità: il 40% degli stranieri ha potuto cambiare lavoro rispetto a quello iniziale, migliorandolo, grazie all'aiuto di parenti o appartenenti allo stesso gruppo etnico.