Uno spaccato interessante del comportamento familiare e riproduttivo della popolazione immigrata deriva dal rapporto Istat “Vita e percorsi di integrazione degli immigrati in Italia”. Tale rapporto indaga diversi aspetti, delle vita familiare e lavorativa degli immigrati, e costituisce quindi un buon punto di partenza per una analisi di tale popolazione. Una analisi attenta di questi dati serve per sfatare alcuni miti, diciamo così buonisti, sull'immigrazione nel nostro Paese. Vediamo quali miti vengono rimessi in discussione.
1° Mito. Gli
immigrati servono per contrastare l'invecchiamento demografico. L'età
media degli immigrati è nettamente più giovane di quella degli
italiani: 34 anni a fronte dei 43 medi del nostro Paese. Tuttavia,
negli anni, come effetto dei ricongiungimenti familiari, del calo
della fecondità delle donne immigrate e della storia anagrafica
degli immigrati di più vecchio arrivo, la piramide delle età tende
a mostrare profili sempre meno divergenti rispetto a quello degli
italiani.
Un motivo fondamentale
risiede nella convergenza dei comportamenti riproduttivi: con l'unica
eccezione delle donne nigeriane ed ucraine, i tassi di fecondità
delle donne immigrate scendono notevolmente nel tempo, allontanandosi
dai valori dei Paesi di origine ed avvicinandosi a quelli medi delle
donne italiane. Il tasso di fecondità delle straniere residente in
Italia passa da 2,79 a 1,95 fra 2005 e 2015, avvicinandosi all'1,26
delle italiane. Ciò deriva anche da una età in cui gli immigrati
presenti da noi si sposano che è più avanzata rispetto alla media
dei Paesi di origine. Gli immigrati, in altri termini, quando
arrivano da noi, acquisiscono alcune nostre abitudini: si sposano più
tardi e fanno meno figli. La numerosità media delle famiglie,
quindi, è analoga al dato italiano, che è di 2,5 componenti. Si va
dagli 1,8 componenti degli ucraini, ai 3,6 dei macedoni.
Ed in ogni caso tale numerosità è sistematicamente inferiore a quella delle famiglie del Paese di origine. Ciò comporterà, inevitabilmente, un invecchiamento della popolazione immigrata che, anziché “pagarci le pensioni”, le chiederà, pesando sulla previdenza sociale e sulla sanità.
Ed in ogni caso tale numerosità è sistematicamente inferiore a quella delle famiglie del Paese di origine. Ciò comporterà, inevitabilmente, un invecchiamento della popolazione immigrata che, anziché “pagarci le pensioni”, le chiederà, pesando sulla previdenza sociale e sulla sanità.
2° Mito.
L'immigrazione deriva da tragedie e persecuzioni nei paesi di
origine, e aiuta la nostra economia. L'immigrazione è sempre
meno selettiva: fra 2007 e 2016, i permessi di soggiorno per motivi
di lavoro passano dal 56,1% ad appena il 5,7%, mentre esplodono
quelli legati a richiesti di asilo e motivi umanitari (dal 3,7% al
34,3%) e per motivi di ricongiungimento familiare (dal 32,3% al
45,1%). L'immigrazione, quindi, è sempre meno legata ad effettive
esigenze lavorative della nostra economia e sempre più “subita”
dal nostro Paese, costituita da persone che non necessariamente hanno
le professionalità che ipoteticamente ci servirebbero. Fra i Paesi
con gli arrivi più rilevanti per motivi di asilo ed umanitario,
spiccano realtà, come il Ghana o il Pakistan, nelle quali non sono
presenti guerre civili o regimi antidemocratici (al netto delle
consuete scaramucce nel Kashmir nel caso del Pakistan). Vi è, di
fatto, un disallineamento rilevante fra la crescente mole di
richieste di asilo e di permessi per motivi umanitari e le reali
motivazioni dei migranti: come riporta l'Istat, “le quattro
motivazioni prevalenti che interessano l’85 per cento degli
immigrati sono: i motivi affettivi e familiari che comprendono il
ricongiungimento familiare (22,7 per cento), la volontà di
migliorare la qualità della propria vita o della famiglia (22,1 per
cento), la mancanza o la difficoltà di trovare un lavoro nel Paese
di origine (20,8 per cento) e il desiderio di guadagnare di più
(20,3 per cento). I problemi familiari, lo studio, le guerre e i
conflitti sono motivazioni presenti, ma riguardano un numero
decisamente inferiore di persone”.
La discrepanza fra aumento dei permessi di soggiorno per asilo e motivi umanitari, e le reali motivazioni degli immigrati, dimostra plasticamente il fallimento delle politiche di accoglienza italiane: si accolgono con strumenti impropri, tipici di situazioni di discriminazione etnica, religiosa o politica, persone che non soffrono di tali discriminazioni, e sono a tutti gli effetti migranti economici. Tali persone sfruttano un canale di ottenimento del permesso di soggiorno, come la richiesta di asilo, che è più facilmente concedibile rispetto a quello per motivi lavorativi, pur essendo venute da noi per motivi di lavoro e reddito, non avendo quindi maturato un diritto automatico ad essere accolti, come quello legato agli aspetti umanitari.
La discrepanza fra aumento dei permessi di soggiorno per asilo e motivi umanitari, e le reali motivazioni degli immigrati, dimostra plasticamente il fallimento delle politiche di accoglienza italiane: si accolgono con strumenti impropri, tipici di situazioni di discriminazione etnica, religiosa o politica, persone che non soffrono di tali discriminazioni, e sono a tutti gli effetti migranti economici. Tali persone sfruttano un canale di ottenimento del permesso di soggiorno, come la richiesta di asilo, che è più facilmente concedibile rispetto a quello per motivi lavorativi, pur essendo venute da noi per motivi di lavoro e reddito, non avendo quindi maturato un diritto automatico ad essere accolti, come quello legato agli aspetti umanitari.
Il grosso di chi ha
scelto l'Italia come Paese di arrivo dentro Schengen lo ha fatto per
motivi di ricongiungimento con familiari, fidanzati o parenti (quasi
il 40%) e ciò evidenzia la natura “pull” del modello migratorio
nel nostro Paese: in molte comunità di stranieri, partono per primi
i “pionieri” che, una volta assestati nel Paese di destinazione,
chiamano a sé gli altri familiari o membri del clan. Ciò deriva da
una storia migratoria iniziata, nel nostro Paese, negli anni Ottanta,
con le prime comunità di filippini e di africani, venuti da noi per
fare, effettivamente, lavori che in quella fase storica gli italiani
stavano abbandonando: badanti e personale di servizio nelle case,
braccianti agricoli, operai dequalificati nelle costruzioni. Le
condizioni di benessere dell'Italia di quegli anni consentivano di
poter assorbire tale modello migratorio, ma i suoi effetti, in
termini di ricongiungimenti, si verificano, tipicamente “a scoppio
ritardato”, perché vengono dopo la fase di consolidamento dei
pionieri, e stanno maturando proprio in questi anni, che sono
caratterizzati da grandi difficoltà economiche e sociali. Da qui
derivano particolari difficoltà di integrazione.
3° mito:
l'immigrazione coinvolge i più disperati. Il
66% degli immigrati possedeva informazioni sull'Italia prima di
entrarvi. Generalmente, chi si informa non appartiene agli strati
sociali più deprivati, ha tempo, risorse, istruzione e
predisposizione mentale per acquisire informazioni, quindi appartiene
a strati sociali meno sfavoriti.
Inoltre, il 75,3% di chi è venuto
da noi ha reperito per proprio conto le risorse economiche necessarie
per il viaggio e, spesso, specie per chi viene da Paesi subsahariani
e deve attraversare territori molto estesi prima di imbarcarsi, tale
costo non è indifferente (si parla di tariffe dai 3.000 ai 5.000
euro a persona da corrispondere ai trafficanti delle migrazioni).
Come ammette l'Istat, “Questi
dati confermano le ipotesi sul capitale sociale ed economico,
mediamente abbastanza elevato, degli immigrati residenti in Italia”.
I matrimoni misti fra
stranieri ed italiani sono un numero ancora molto piccolo rispetto ai
matrimoni totali (il 12,4% di questi ultimi, nello specifico) e sono
quasi interamente dominati dalle donne dell'Europa dell'Est che
sposano cittadini italiani, cioè dalla componente culturalmente più
affine agli italiani. Poiché i matrimoni misti sono generalmente
considerati un indicatore di assimilazione (al netto di quelli
celebrati per motivi opportunistici, ad esempio per l'ottenimento del
permesso di soggiorno a tempo indeterminato) la scarsa rilevanza di
tale fenomeno, e la sua concentrazione nella componente migratoria
culturalmente più affine agli italiani, è una chiara manifestazione
del fallimento di ogni politica di integrazione, soprattutto con la
quota musulmana, o di altre religioni non cristiane,
dell'immigrazione.
4° mito: gli italiani
sono razzisti nei confronti degli immigrati. Se gli italiani sono
razzisti, sicuramente gli immigrati non se ne accorgono. Il 69% di chi è arrivato pensa di rimanere da noi per sempre, senza tornare al Paese di origine o andare in altri Paesi europei (evidentemente da noi si vive bene). Solo il 5%
di chi è arrivato in Italia sceglierebbe, se potesse tornare
indietro, di non venire da noi. Dentro questo 5%, quelli che non
sceglierebbero nuovamente l'Italia per motivi di discriminazioni o
perché si sentono soli o non accettati o perché la gente è
considerata poco cordiale o accogliente sono solo il 13,4%. Il grosso
che non sceglierebbe più di venire in Italia lo imputa al costo
della vita.
5° mito: i lavoratori
stranieri sono segregati in occupazioni di livello infimo, che “gli
italiani non vogliono più fare”. Premesso che, quando si
emigra, molto difficilmente si mantiene lo status socio-professionale
che si aveva in Patria, e ciò rappresenta una verità eterna
dell'emigrazione, i dati mostrano che su 100 stranieri che, come
primo lavoro, hanno ricoperto posizioni non qualificate, il 10%
ascende, successivamente, ad un livello di operaio qualificato, il
22% ad operaio specializzato, l'11% a posizioni di vendita o servizi,
impiegatizie e tecniche, o a posizioni di dirigenti o professionisti,
cioè al ceto medio. Il tutto in un mercato del lavoro, come quello
italiano, nel quale l'ascensore sociale è bloccato da decenni.
Il mistero è presto
svelato: mentre gli italiani vivono in una società individualistica
e atomizzata, senza alcuna assistenza da parte della politica e dei
sindacati, oramai tutti votati al neoliberismo, gli stranieri si
difendono grazie al mantenimento di reti di comunità: il 40% degli
stranieri ha potuto cambiare lavoro rispetto a quello iniziale,
migliorandolo, grazie all'aiuto di parenti o appartenenti allo stesso
gruppo etnico.
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