Contrariamente
all'immagine, sapientemente curata dall'interessato, di polveroso
veterosocialista d'antan, Bernard Sanders, detto Bernie, è un
politico solido e ben piantato nella realtà della società
statunitense e dei meccanismi, anche quelli poco nobili, della sua
democrazia. Politico di lunghissimo corso, nato da una famiglia
piccolo borghese di ebrei polacchi, si è formato sul Talmud, sui
libri di Marx e sulla Teoria Generale di Keynes tanto quanto sui
principi collettivistici, solidali e nazionalistici del sionismo di
ispirazione socialista, avendo vissuto, da giovane, in un kibbutz. E'
a tutti gli effetti l'erede ideale di quel populismo socialista
americano che, a fine Ottocento, con Eugene Debs e Victor Berger,
cercò invano di introdurre il socialismo nel sistema politico di
quel Paese, con le uniche modalità possibili, stante
l'organizzazione politica degli Stati Uniti, ovvero con un populismo
fortemente personalistico e leaderistico, con la forza trascinante
dell'uomo al comando.
Al
tempo stesso, sia pur in modo non brillante per sua stessa
ammissione, si laurea in Scienze Politiche in un luogo molto
particolare, ovvero l'Università di Chicago. Una delle più
rilevanti istituzioni accademiche del Paese, ed anche una delle più
controverse, avendo dato nascita alla Scuola di Chicago di Milton
Friedman, ovvero alla interpretazione monetaristica della scuola
neoclassica, al servizio di politiche economiche di destra radicale,
quanto alla Scuola di Chicago di sociologia e criminologia, una delle
più importanti, la cui matrice teorica di fondo si basa sull'analisi
dei rapporti e dei valori intracomunitari, dell'incidenza dei
fenomeni di devianza come prodotto di frammentazione subculturale e
disorganizzazione dei legami interni alle comunità e che ha dato
nascita ai primi filoni di analisi della criminalità dei colletti
bianchi e delle multinazionali.
Questa
formazione così vasta e diversificata ne fa un uomo ben più
sfaccettato e complesso dell'immagine pubblica di socialista
dogmatico che gli si vuole appiccicare. Dopo anni di lavoretti e di
militanza politica attiva, dopo aver vissuto il '68 ed il movimento
pacifista dei primi anni settanta, il nostro Bernie si lancia nelle
istituzioni.
Un giovane Bernie arrestato durante una manifestazione contro il Vietnam
Dopo
una serie di tentativi falliti di farsi eleggere governatore del
Vermont e senatore, nel 1981, a quarant'anni, con la sua proverbiale
testardaggine, riesce a farsi eleggere sindaco di Burlington, poco
più che un paesone perso nel verde del Vermont, una location ideale
per qualche romanzo horror di Stephen King sul lato sinistro della
provincia americana o per qualche canzone di Springsteen sul declino industriale. Vince la sua battaglia grazie all'opposizione ad
un grande progetto immobiliare e speculativo, e lo riconverte in un
progetto di tipo sociale, ovvero un community land trust, un fondo
immobiliare comunitario che acquista terreni ed immobili e, per conto
dei suoi soci, li destina ad un uso abitativo a prezzi sostenibili,
una specie di cooperativa per alloggi popolari, in sostanza. Ma una
cooperativa coordinata da un ente nazionale, l'Institute for
Community Economics, che è una potenza economica di livello
nazionale e non solo, poiché possiede terreni anche in Israele,
proprio i terreni sui quali sorgono i kibbutz. Sempre da sindaco,
riesce a creare il CEDO, una vera e propria agenzia pubblica di
pianificazione dello sviluppo locale, che promuove la
pubblicizzazione di imprese di servizi essenziali (l'azienda
elettrica locale è tuttora di proprietà pubblica) ed esperienze di
autogestione operaia di imprese in crisi. Roba che da noi fa parte di
un normale esperimento socialdemocratico e che negli USA rasenta lo
stalinismo.
Sindaco di Burlington
Ma
chi pensa che Bernie sia un sognatore utopista sbaglia di grosso.
Pommereau, l'uomo di affari contro il cui progetto di speculazione
immobiliare Sanders vinse le elezioni da sindaco, è oggi un suo
grande amico. Bernie ha saputo coinvolgerlo profittevolmente nello
sviluppo economico della città. Oggi Burlington non è più soltanto
una piccola città operaia di working class, ma un fulcro di
benessere e di turismo di élite. Parlando di lui, Obama lo definisce
scherzosamente un “post smoking socialist”. E' amico della
potente lobby dei produttori di armi da fuoco. Nel 1993, da deputato,
votò contro lo “Brady Handgun Violence Prevention Act”, un
disegno di legge che introduceva vincoli alla vendita ai privati
delle armi da fuoco. L'anno dopo sostenne l'approvazione dello
“Violent Crime Control and Law Enforcement Act”, una legge molto
securitaria e con tratti repressivi. Nel 2005, votò a favore del
Protection of Lawful Commerce in Arms Act, un provvedimento che
tutelava i produttori e i rivenditori di armi da fuoco da eventuali
conseguenze legali nel caso in cui qualcuno si fosse servito dei loro
prodotti per commettere azioni illecite. Oggi, impegnato in una
campagna elettorale presidenziale, cerca subito di ingraziarsi i
favori del Deep State, da lui tanto combattuto da attivista,
denunciando presunte (e improbabili) interferenze russe. Lasciando
capire che la sua eventuale politica estera da Presidente non
sarebbe, poi, così rivoluzionaria.
Una goccia di socialismo negli USA: vista di Burlington
Durante
la campagna presidenziale del 2016, fra i suoi grandi finanziatori,
oltre a lavoratori, sindacati e cooperative, comparivano Microsoft,
Apple, Google e Amazon, non propriamente campioni di socialismo e
tutela dei lavoratori. Più in generale, le aziende dell'economia
digitale, come anche Ibm e la stessa Facebook, vedono in Sanders un
utile difensore dei processi sociali, spesso anche di tipo
libertario, che sottendono la nascita e lo sviluppo della new
economy.
Nonostante
i proclami di “grassroot campaign”, autofinanziata dalla gente
comune, e nonostante che nel suo programma vi sia la proposta di
finanziamento pubblico dei candidati, per superare le lobby, in un
sistema elettorale costoso e oligarchico come quello statunitense
Bernie non può fare a meno dei contributi di soggetti ben precisi.
Benchè si sbandieri con orgoglio il milione di semplici cittadini
che, donando 20-27 dollari a testa, hanno consentito di portare a 25
milioni il budget elettorale dell'attuale campagna presidenziale, il
che è effettivamente una rivoluzione benefica nel sistema politico
piramidale di quel Paese, l'endorsement di istituzioni finanziarie,
per quanto “etiche”, come Aspiration, fondo di investimenti
californiano di natura etica. Dovrebbe anche far riflettere
l'endorsement individuale di Jeffrey Sachs, l'economista responsabile
della devastante terapia shock nei paesi ex comunisti dell'Europa
dell'Est, che li ha saccheggiati attraverso una transizione brusca
verso l'economia di mercato più selvaggia. Il teorico della
“trappola della povertà” del Terzo Mondo, che ne invoca i
venture capitalist come investitori e le start-up come soluzioni ai
problemi.
Insomma,
il nostro eroe sa essere ben pragmatico quando serve, e non può
essere altrimenti, per uno che riesce a sopravvivere nel sistema
politico iper-competitivo statunitense da ben 40 anni. La domanda di
fondo, però, è la seguente: può Bernie, con il suo programma
elettorale radicale ed il suo realismo politico, essere la strada di
rilancio di un socialismo democratico in grado di dare risposte alle
tematiche sociali di questi anni e rappresentare una alternativa ai
populismi di destra che hanno, di fatto, attratto enormi spezzoni
della base sociale tradizionale della sinistra storica? La domanda è
la stessa che si porrebbe per Corbyn, ed a mio avviso la risposta è
la stessa ottenuta con Corbyn, ed è negativa. Forse, ma
personalmente non credo, Bernie riuscirà anche a strappare la
nomination democratica, e sarebbe, ovviamente, un risultato di enorme
valore, come lo è stato il risultato delle elezioni britanniche del
2017 per il Labour, il migliore degli ultimi vent'anni. Poi, però,
Corbyn ha perso, e nel 2019 il Labour è tornato poco sopra i
risultati degli ultimi anni di Blair. E, nel caso, anche Bernie sarà
asfaltato da Trump.
E'
un problema in parte strutturale ed in parte di piattaforma
ideologica e programmatica. Il conflitto sociale, in parte, è
ruotato verso un conflitto interno al capitale, dove un mondo del
lavoro disperso e frazionato non riesce più ad esercitare egemonia e
finisce ad avere un ruolo ausiliario (i lavoratori della Rust Belt
che votano per Trump contro la globalizzazione, il ceto medio ed i
lavoratori della New Economy in crescita di utili e salari – a
differenza della new economy nostrana - che votano per Sanders) per
cui i riferimenti sociali della sinistra dovrebbero incorporare in un
fronte unico anche la piccola borghesia in declino, ma, soprattutto
in Europa, faticano a realizzare (Sanders su questo aspetto è,
invece, molto più sveglio ed abile).
In
parte, si rimane intrappolati dentro gabbie ideologiche del passato,
estremamente dannose. Sanders, come Corbyn, non riesce a liberarsi
dei cascami dell'internazionalismo proletario della vecchia sinistra.
Come Corbyn non è riuscito a dire una parola univoca sulla Brexit,
alienandosi i voti dei ceti popolari pro-uscita, Sanders parla di
frontiere aperte ed accoglienza dei rifugiati climatici. Ora, non vi
è dubbio che, riuscendo a garantire benessere, eguaglianza e
crescita sociale, il tema dell'immigrazione perde rilevanza (chi si
lamentava, da noi, dei tanti filippini che iniziavano ad affollare le
nostre città nei primi anni novanta, quando c'era ancora tanto
benessere e tanto welfare per tutti?) La ricetta di Corbyn e Sanders
è quella di tornare a creare ricchezza, benessere e giustizia
sociale, in modo da annegare la rilevanza del tema migratorio e, più
in generale, degli effetti perversi della globalizzazione. Il
problema è questo: fintanto che continueranno ad arrivare
liberamente grandi contingenti di migranti che accettano salari da
fame, costituendo esercito industriale di riserva, fintanto che le
frontiere sono completamente aperte, impedendo di proteggere
l'industria nazionale di sostituzione delle importazioni e di
garantire una transizione graduale dalla vecchia economia industriale
alla nuova, basata su green, digitale, cibernetica, biotech e quindi
nuove forme di lavoro diverse dal proletariato industriale storico,
chi è minimamente sospettato di supportare un “open world” è
inevitabilmente visto come una minaccia dai ceti più fragili.
Parlare,
come fa Bernie, di un futuro economico basato su digitalizzazione,
investimenti green, banda larga e democrazia di Internet, dove
l'hardware industriale oramai non più competitivo verrà spostato
verso il Terzo Mondo e noi occidentali rimarremo ricchi grazie
all'economia immateriale preconizzata da Rifkin ed allo sviluppo
sostenibile, senza una chiara parola contro la globalizzazione e per
il ripristino delle frontiere (anche se qualche timido balbettamento
c'è, laddove si promette una revisione degli accordi commerciali
internazionali per contrastare l'outsourcing di lavoro statunitense
verso altri Paesi, ma come aspetto quasi secondario del programma
elettorale) impedisce alla sinistra di essere egemone. Perché il
patto “più benessere e giustizia sociale – più apertura delle
frontiere all'immigrazione ed alle inevitabili delocalizzazioni dei
settori obsoleti” non funziona in una fase di transizione economica
in cui milioni di posti di lavoro sono a rischio ed i salari tendono
a diventare variabile indipendente (ma in negativo) crescendo troppo
lentamente ed in modo diseguale persino in un paese che ha quasi
raggiunto la disoccupazione meramente frizionale come gli USA. Alla
fine la legittima paura dei ceti popolari prevale sulla promessa di
un futuro dove saremo tutti più benestanti e potremo permetterci di
assorbire l'immigrazione di massa e di rimanere ricchi in un mondo
globalizzato. Ed è anche giusto che sia così.
La sinistra ha
bisogno di svegliarsi a suon di legnate nel groppone, e finora ne ha
ancora prese poche. Mazz' e panell' fann' li figl' bell'.
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