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martedì 2 giugno 2020

L'omicidio Floyd: alla radice del declino del sogno americano





Quello che sta succedendo negli USA rischia di non essere l’ennesimo episodio della lunghissima serie di sommosse legate a motivi razziali ed al comportamento illegale dei vari corpi di polizia o più generalmente al malessere sociale di un Paese fortemente diseguale (soltanto dal 2000 in poi se ne contano quasi 50). Certo, i motivi restano sempre gli stessi di quelli dell’uccisione di Michael Brown o di Eric Garner o di tanti altri. Per la rappresentazione mediatica, che ha bisogno di messaggi semplici ed immediati, si liquida tutto con il richiamo al razzismo. La questione è più complessa e, come cercherò di spiegare, passa per il tramite di un meccanismo perverso fatto di ghettizzazione-costruzione di sottoculture criminali come reazione alla polverizzazione dei legami sociali-etichettamento negativo di intere comunità-militarizzazione dei corpi di polizia-politicizzazione della magistratura. Si tratta dell’inesauribile spargimento di sangue imposto da una società fondata sulla segregazione urbana, lavorativa ed educativa, che impone alle sue minoranze una molto maggiore difficoltà nel raggiungere l’obiettivo ideologico fondante del suo patto sociale originario: ovvero l’assenza di tutele barattata in cambio della massima libertà formale di essere ciò che si sogna di essere.

L’American dream si ferma alle soglie dei ghetti urbani, rigorosamente costituiti su base etnica, dove la disperazione si trasforma in violenza continua, dove la mancanza delle capacitazioni educative di base rende impossibile essere ciò che si sogna, le droghe sono il sostegno per spegnere coscienze troppo dolorose da poter essere sopportate quotidianamente e la criminalità, facilitata dalla libertà di circolazione delle armi, diventa la via fin troppo facile per costruirsi occasioni di riscatto che le vie legali non offrono, o, come nel caso delle gang urbane, che si scelgono un loro logo ed un proprio territorio esclusivo, anche un fattore di identificazione “tribale”, di socializzazione primaria, come risposta esistenziale rispetto ad una società ipercompetitiva, che spezza ogni legame sociale, in nome di un individuo molecolare che deve affrontare in solitudine le sue responsabilità personali. Creando una subcultura fatta addirittura di un proprio linguaggio, di proprie regole, di propri meccanismi di selezione sociale, impermeabile alle influenze esterne e quindi potenzialmente autoriproducentesi nel tempo, in ultima analisi non più recuperabile alla vita civile, come osservava Cohen nella sua analisi delle gang giovanili degli anni cinquanta. 

Mappa dei livelli di segregazione urbana nelle aree metropolitane USA: Minneapolis è fra le aree ad alta segregazione



Questa situazione di segregazione fisica, sociale e reddituale, che evolve verso la segregazione culturale, come evidenzia la criminologia basata su fattori ambientali, stimola il comportamento violento, anche di tipo irrazionale, cioè non legato necessariamente ad un calcolo rischio/beneficio nella scelta di assumere un comportamento deviante. L’identificazione fra violenza e gruppi sociali e razziali ben precisi, addirittura delimitati fisicamente dal quartiere in cui vivono, per i ben noti meccanismi studiati dalla teoria dell’etichettamento di Becker, producono una assimilazione “ex ante”, a livello collettivo, fra appartenenza ad un determinato gruppo etnico, ad una determinata classe di reddito o ad una determinata residenza e probabilità di esperire comportamenti criminali e violenti. La stigmatizzazione sociale “ex ante”, a sua volta, produce effetti deleteri nell’autorappresentazione dell’individuo, indotto a “convincersi” di essere un criminale potenziale solo perché nero o povero. Tali fenomeni sono alimentati anche da una distorsione dell’informazione criminologica disponibile: per effetto dell’etichettamento, le forze dell’ordine sono indotte a sottoporre a controlli più frequenti ed approfonditi soltanto quelle categorie sociali o etniche che sono etichettate come più propense al crimine, aumentando in modo artificioso il tasso di criminalità di tali categorie (che cresce solo per i maggiori controlli ed indagini cui sono sottoposte rispetto ad altri strati etno-sociali) e rafforzando l’etichettamento negativo cui sono soggette. 

In questo circolo perverso, le forze dell’ordine ed il sistema giudiziario si autoconvincono, a loro volta, che essere nero o povero aumenta la probabilità di essere violenti, magari di essere strutturalmente renitenti all’arresto. Tale convinzione si salda con gli interessi concreti dei produttori di armi da fuoco, generando una militarizzazione dei corpi di polizia, che, per effetto di un addestramento para-militare e di un reclutamento che si indirizza proprio verso ex militari, tendono a diventare gruppi chiusi, legati da una disciplina e da una mistica della violenza dovuta, dell’onore e della solidarietà interna tipicamente militare, impermeabile a qualsiasi rapporto di dialogo con la cittadinanza. Il sistema giudiziario, composto perlopiù da procuratori eletti dalla cittadinanza, quindi in cerca di consenso facile, copre e favorisce la militarizzazione dei corpi di polizia, perché essa genera un falso sentimento di sicurezza, che ripaga in termini di voti. Poliziotti inadeguati, più volte sanzionati per comportamento violento, proprio come l’agente Chauvin, più volte sottoposto a provvedimenti disciplinari interni, vengono tenuti in servizio e coperti, fino a quando non scoppia la tragedia. L’assenza di rappresentanza politica dei gruppi più fragili ed esposti all’etichettamento, in un sistema elettorale basato sul finanziamento privato, quindi intimamente oligarchico, impedisce di spezzare questo circuito perverso tramite la mediazione ed il dialogo politico. 

Alla fine, la spirale fra segregazione, etichettamento, militarizzazione dei corpi di polizia accompagnata da insufficiente sanzione giudiziaria porta a un comportamento autoreferenziale da parte dei tutori dell'ordine: come è possibile vedere nel grafico sottoriportato, mentre i tassi di violenza poliziesca tendono, per le varie aree urbane degli USA, a disporsi lungo una relazione lineare, quindi ad essere correlati fra loro, essi appaiono indipendenti rispetto ai tassi di criminalità violenta. Corpi di polizia autoreferenziali e protetti tendono a comportarsi violentemente in qualsiasi situazione, anche quando i tassi di crimine violento non sono tali da giustificare tali atteggiamenti. 

I tassi di violenza delle polizie degli USA sono indipendenti dai tassi di criminalità violenta



Questa è la situazione strutturale, da sempre. Essa genera frustrazione ed episodiche esplosioni di rabbia, sedate tramite la Guardia Nazionale e qualche generica e disattesa promessa di intervenire per cambiare il sistema. Ma su questa situazione, in questo momento storico preciso, si innestano fattori specifici, non sperimentati prima: si innesta il coronavirus, con i suoi oltre 100.000 morti, misure di isolamento e quarantena mai sperimentate e assolutamente incomprensibili per la mentalità dell’uomo della strada, nutrito da una cultura di assoluta assenza di ingerenza dello Stato, i suoi 40 milioni di disoccupati, lasciati privi di qualsiasi meccanismo di sostegno sociale. Lo stesso Floyd era incappato in questo meccanismo micidiale, e, senza alcun aiuto pubblico, stava cercando di sopravvivere con una piccola truffa di denaro contraffatto. 

Quello che sta succedendo negli USA mina alla base ogni residua credibilità dell’American dream, quel residuo di sogno americano con il quale Trump era arrivato al potere, promettendo di rifare “America great again”. Da un lato, le Autorità pubbliche sono costrette a penetrare nella vita privata dei loro cittadini, imponendo limiti, vincoli, proibizioni, assolutamente incomprensibili ai più. Nessuno oggi dice che la sommossa per l’uccisione del povero Floyd è stata preceduta da grandi manifestazioni anti-lockdown. Dall’altro, spiattella davanti agli americani l’inadeguatezza della promessa trumpiana di riscatto di quel sogno, con una caduta dell’economia che non si registrava dai tempi della Grande Depressione. Le esitazioni iniziali, che hanno favorito la diffusione del virus, lo scaricabarile del lockdown sui governatori degli Stati, la minimizzazione della tragedia, la persistente unwillingness di adottare rimedi straordinari di tipo keynesiano per riportare al lavoro le decine di milioni di disoccupati, e poi, comunque, la necessità di adottare provvedimenti sanitari restrittivi, avversati dai più. 

Trump sta cercando di scaricare le responsabilità della sommossa su Antifa, una rete di tipo libertario ed anarchico, ma a nessuno sfugge la ben più pericolosa presenza degli estremisti di destre, in particolare i cosiddetti “boogaloo bois”, una rete destrutturata, gestita perlopiù on line, di fanatici della libertà di uso delle armi, che predicano lo scontro frontale con le Autorità e l’avvio di una seconda guerra civile. Tali gruppi, che solo parzialmente si intersecano con i suprematisti bianchi (e che, anzi, spesso non hanno nemmeno una matrice razzista, come nel caso dei Three-percenters, uno dei tanti gruppi di questa galassia) e che si autoidentificano con una bizzarra uniforme in cui spicca una sgargiante camicia hawaiana, sono stati visti e fotografati nei luoghi delle sommosse, dove probabilmente hanno lavorato per istigare la violenza. Trump li protegge e considera parte di quella visione distorta dell’America tipica della sua destra più reazionaria: il 2 maggio, quando un gruppo di “boogaloos” armati, in segno di protesta contro il lockdown, ha sequestrato il municipio di Lansing, in Michigan, il presidente ha suggerito di non prendere misure repressive contro di essi, parlando di “brave persone, che vogliono soltanto riavere indietro le loro vite”. Si tratta dello stesso Presidente che oggi svia l’attenzione parlando di sommosse promosse dagli Antifa e che tratta i governatori da “idioti” se non prendono misure dure contro i manifestanti. 

Un membro dei boogaloo boys ritratto durante le sommosse di questi giorni

Dal sito social dei Virginia Knights, uno dei gruppi affiliati ai boogaloos, l'invito a detenere armi contro i poliziotti e, indirettamente, a partecipare alle sommosse


Ora, tale atteggiamento, oltre che risultare, in pratica, inefficace nel frenare le sommosse, lancia un messaggio pericoloso: ci sono proteste e proteste. Quelle che difendono un libertarismo in ultima analisi responsabile delle diseguaglianze socio-etniche sono legittime. Quelle che da tali diseguaglianze promanano quasi fisiologicamente sono invece da reprimere. Evidentemente, la politica dei due pesi e delle due misure serve solo per tutelare il lato più malsano e pericoloso dell’American way, quello che ha portato gli USA alla drammatica crisi sociale che vivono, oramai, dagli anni Novanta, e che ne hanno determinato la progressiva decadenza. Non aiuterà certo a rifare “America great again”. 

Trump giustifica l'aggressione dei boogaloos in un municipio del Michigan contro il lockdown


Che tali contraddizioni esplodano proprio a Minneapolis, città che ha oscuri ricordi di bigotteria, di esperimenti di eugenetica e di gruppi antisemiti come la Silver Legion, è solo un elemento che aggiunge sconcerto al quadro complessivo. 

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