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lunedì 14 settembre 2020

Un confronto fra economisti sulla gestione del debito pubblico prodotto dalla crisi del Covid

 


 Al presente link https://www.project-syndicate.org/bigpicture/the-debt-pandemic?barrier=accesspaylog, vengono esposte in forma rapidamente comprensibile le diverse opinioni dei principali filoni teorici dell'economia in merito al trattamento dell'extra debito pubblico generato dalla recessione del Covid. 

Si parte dall'opinione della Modern Monetary Theory che, come noto, considera il deficit primario del bilancio dello Stato come la precondizione per trasferire risparmio ai privati e quindi ridurre l'esigenza di ricorrere ai prestiti bancari, producendo un calo dei tassi di interesse che, per la loro correlazione interna, genererebbe anche una discesa del servizio del debito. Stephanie Kelton ci dice, quindi, che il problema non è quello di tornare verso l'avanzo di bilancio, ma di regolare la quantità di disavanzo che si produce sulla base della quantità e qualità dello stock potenziale di risorse reali disponibili nell'economia: lavoratori con le loro competenze, macchinari e stabilimenti, grado di innovazione tecnologica di prodotto e processo, risorse naturali. Solo quando la spesa pubblica supera tale stock di risorse disponibili, che di fatto definisce il tasso di crescita potenziale di una economia, allora si genera iperinflazione da domanda e deficit pubblico (quindi debito pubblico) eccessivo. Fino a quando si aumenta la spesa entro il tasso di crescita potenziale, si fa solo del bene perché si trasferiscono risorse di consumo ed investimento al settore privato e si tengono bassi i tassi di interesse, evitando l'effetto snowball del debito. La susseguente crescita economica si incaricherà di ridurre il debito pubblico. 


 

Le cose, però, non sono così facili secondo l'opinione di Raghuram Rajan, dell'Università di Chicago. Il debito prodotto oggi (si stima che le misure finanziarie di sostegno alla domanda aggregata messe in campo dai vari Governi durante la crisi del Covid ammontino al 20% del Pil mondiale) si scaricherà sulle future generazioni. In passato, ciò non costituiva un problema, perché si sapeva che le future generazioni sarebbero state più ricche di quelle attuali, quindi avrebbero facilmente sostenuto l'extra debito. Ma l'invecchiamento della popolazione, l'ivestimento pubblico insufficiente nel settore dell'educazione e della formazione e la minaccia del cambiamento climatico globale pongono seri limiti alla dinamica della produttività futura, conducendo ad un mondo presumibilmente meno dinamico, in termini di crescita, rispetto al passato. La conseguenza è che la spesa pubblica di sostegno alla fuoriuscita dalla crisi da Covid deve essere estremamente selettiva, per non trasferire debito inutile a future generazioni impossibilitate a ripagarlo, e mirare a proteggere i lavoratori, ma non ogni tipo di attività produttiva. Mentre i lavoratori che hanno perso la loro occupazione e le loro famiglie dovrebbero essere, secondo Rajan, aiutati a mantenere uno standard di vita decoroso ed a riconvertirsi professionalmente fino a quando l'economia non riparta ed il settore dell'educazione andrebbe fortemente sostenuto con spesa pubblica perché riduce il gap di produttività delle future generazioni, non tutte le attività produttive andrebbero sussidiate: le  attività ed i settori decotti (come le linee aeree, esemplifica Rajan, forse pensando ad alitalia) o già prima della crisi in eccesso di offerta non vanno sussidiati per farli sopravvivere, perché è più economico pagare l'indennità di disoccupazione ai loro lavoratori; analogamente, non vanno sussidiate le attività che hanno molta domanda e che, in caso di chiusura, possono essere facilmente rimpiazzate con nuove start-up. I sussidi alle imprese vanno limitati alle sole attività non facilmente rimpiazzabili (ad esempio perché ubicate in territori depressi) e che hanno un elevato valore agigunto economico (sono componenti essenziali di filiere vitali per l'industria nazionale) o sociale. E generalmente non vanno sussidiate le grandi imprese, che possono più facilmente trovare credito privato o ristrutturare la propria attività. 

 


 

 Anne Krueger sposta l'attenzione sulla gestione del debito pubblico post-crisi. I Governi, sostiene, potrebbero essere tentati di imporre un tetto massimo ai tassi di interesse, al fine di ridurre il servizio del debito, esattamente come fece il Tesoro statunitense nella fase della Financial Repression dell'immediato dopoguerra. Anche perché potrebbe generarsi nei mercati finanziari l'aspettativa autorelizzantesi di un aumento dei tassi di interesse, per cui nessuno sarebbe disposto ad accettare il rollover del debito sovrano agli attuali, modesti, tassi. Tuttavia, tale strategia funziona se il tetto massimo ai tassi di interesse è ad un livello inferiore al tasso di inflazione, per cui il debito subisce una erosione inflazionistica maggiore rispetto alla sua rivalutazione tramite i tassi di interesse che vi si applicano. Ma nel contesto attuale di deflazione tale strategia è minata alla radice. E comunque esercita un effetto di spiazzamento dall'investimento privato, rischioso, a favore dei titoli pubblici, sicuri, riducendo la crescita. Al fine di gestire il debito post-Covid, sono a suo parere più efficaci misure fiscali targettizzate, ovvero l'introduzione di nuove tasse su attività che si intendono disincentivare: una nuova carbon tax, o una tassa sulla plastica, o sui movimenti finanziari puramente speculativi. 

 


 

Todd Buccholz, ex consulente di Bush per la politica economica, suggerisce, insieme, guarda un pò, a George Soros, di emettere dei bond pubblici perpetui, o con scadenze lunghissime, a 50 o anche 100 anni, a tassi di interesse fissi e simbolici (attorno allo 0,5%), che andrebbero a sostituire le scadenze più brevi ed onerose per il bilancio pubblico, al fine di "congelare" nel tempo un tasso di interesse molto basso e quindi in grado di mantenere il debito pubblico in condizioni di sostenibilità, a prescindere dai cambiamenti nello scenario inflazionistico e dei mercati finanziari nei prossimi 50 o 100 anni. Ciò consentirebbe anche di evitare una eccessiva monetizzazione dei debiti pubblici, che potrebbe condurre ad aspettative inflazionistiche, inducendo quindi gli operatori finanziari ad accettare nuovi titoli del debito pubblico soltanto a condizione che i tassi di interesse siano crescenti, producendo uno scenario di default. I bond perpetui sarebbero facilmente accettati da piccol irisparmiatori e fondi di investimento non speculativi, perché visti come una riserva di valore piccola ma assolutamente sicura ed inattaccabile, e soprattutto perpetua, quindi trasmissibile anche agli eredi, come una casa.  Tale soluzione,a giudizio di Soros, potrebbe essere più accettabile di quella dei coronabonds perpetui anche per la Germania ed i cosiddetti "Paesi frugali" dell'area euro, perché un bond perpetuo, o con scadenze talmente lunghe da essere considerato tale, non potrebbe essere classificato come debito da rimborsare, proprio perché non sarebbe rimborsato mai, ma piuttosto, più accettabilmente, come una sorta di rendita perpetua. Quindi non ci sarebbe una mutualizzazione del debito pubblico. Il ricavato delle aste di questi titoli perpetui, sempre secondo Soros, dovrebbe essere per la maggior parte destinato ai Paesi del Mediterraneo del Sud, quelli più colpiti dagli effetti del Covid e più in ritardo in termini di competitività. 



Lascio al lettore la scelta fra le varie opzioni. Personalmente, io preferisco questa ultima opzione, e in passato mi ero permesso anche di suggerire una veicolazione di una parte del risparmio privato oggi fermo sui conti correnti o in attività speculative verso un bond a basso rendimento come questo. Anche se non trascuro le suggestioni della Kelton, nella misura in cui ci dice che il problema non va visto in termini di saldi contabili del disavanzo da riequilibrare con politiche procicliche, ma di capacità di attivare tassi di crescita in grado di riassorbire il debito.


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