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mercoledì 11 novembre 2020

Galleria di personaggi livornesi: la Ciucia

 L'unica foto esistente della Ciucia

 

Nella lunghissima galleria dei personaggi minori che hanno fatto la storia e conferito l'anima a Livorno, un posto speciale va a Bruna Barbieri, da tutti conosciuta come la "Ciucia". Un personaggio talmente importante nella storia popolare della città da aver dato il suo nome ad una espressione dialettale: "sei vestito 'ome la ciucia", si dice di chi esce di casa senza aver curato il suo aspetto.

Bruna Barbieri nasce a gennaio del 1911 nel popolarissimo quartiere della Venezia, a viale Caprera. Chiamato come la Serenissima perché attraversato da canali artificiali, oggi il quartiere è una attrazione turistica ed un luogo di movida, ma nel 1911 era un terrificante concentrato di miseria, costituito da palazzi poveri, senza acqua corrente, che affacciavano direttamente su fossi maleodoranti, con chiazze di nafta navale che galleggiavano sull'acqua, scarichi fognari ed un convivenza forzata fra uomini, topi e malattie endemiche come il colera. Per recuperare acqua potabile, le donne di casa dovevano fare chilometri a piedi con i secchi, fino alle Terme del Corallo o alla Puzzolente. La fame era reale. Un operaio portuale o dei cantieri navali prendeva circa 2 lire di stipendio al giorno, equivalente a circa un chilo di pane o di riso ed un chilo di formaggio. Mezzo chilo di burro costava quanto una intera giornata di lavoro. Per un paio di scarpe dozzinali bisognava lavorare senza mangiare per una settimana. 

 Viale Caprera, la strada dove la Ciucia nacque e visse, fotografata ai suoi tempi


 

Mentre l’Uruguay battllista lancia il primo esperimento di socialdemocrazia, il disordine sociale in Russia prepara la strada alla Rivoluzione di ottobre, mentre le tensioni fra Germania, Francia e Gran Bretagna crescono di pari passo con la decadenza dell’Impero Ottomano e di quello Austro-Ungarico, fino a sfociare nella Grande Guerra, l’Italietta giolittiana si autocelebra nelle eleganti manifestazioni del cinquantenario dell’unità e nel piccolo sogno imperiale provinciale della conquista della Libia. Trascurando le enormi sperequazioni sociali, il governo monarchico-liberale getta, ogni tanto, alcune concessioni, il diritto di sciopero, i primi provvedimenti di tutela del lavoro femminile ed infantile, il suffragio universale maschile, il giovane Vittorio Emanuele III fa sfoggio retorico di apparenti preoccupazioni per le condizioni disperate in cui versano i contadini e le classi proletarie urbanizzate, fra le quali il socialismo cresce, di pari passo con tendenze più massimaliste di tipo anarchico.

In questo contesto di grande deprivazione e di ingiustizia, in una città divisa fisicamente fra ghetti popolari, rinserrati nel malsano perimetro delle acque sudicie dei fossi, e quartieri borghesi più salubremente affacciati sul mare, la piccola Bruna cresce, giocando fra palazzi dall’intonaco scrostato e pratoni sporchi con un gatto randagio ed un amichetto del cuore soprannominato Ciucio (e da lì il soprannome Ciucia dato alla ragazza). La famiglia subisce, nella disgrazia generale, una serie di ulteriori sfortune: il padre muore al fronte nel 1917, la famiglia, originaria della provincia di Ferrara, è molto numerosa: la madre Bois Elettra detta “Narcisa”, i due nonni e ben cinque fratelli. Il più grande, Renato, detto “Attao”, è un’altra figura mitologica di Livorno. Grande e grosso come una montagna, a soli 14 anni diviene l’uomo di casa. Spaventoso scaricatore di porto (si narra che sollevava balle di cotone di diversi quintali con un braccio solo) diverrà un campione di canottaggio con l’equipaggio degli Scarronzoni, medaglia d’argento alle Olimpiadi di Los Angeles del 1932.

Come in tutte le famiglie colpite dalla disgrazia, arriva anche la malattia. A nove anni la Ciucia si ammala gravemente: probabilmente è encefalite letargica, ma di preciso non si saprà mai, i poveri non avevano assistenza sanitaria (all’epoca, tale malattia era conosciuta come la “nona”). Rimane per quaranta giorni a letto fra sonno e deliri, con la febbre alta. Quando oramai viene data per morta, si risveglia riferendo di aver sentito delle voci, durante il coma, che le dicevano che doveva aiutare gli altri, che questa era la sua missione nella vita. La malattia lascerà segni indelebili: la Ciucia rimarrà leggermente claudicante e strabica, con un fisico molto gracile, probabilmente segnata anche a livello neurocerebrale.

Si tratta della svolta della sua vita e di una sorta di chiamata alle armi. Vestita sempre in modo molto semplice e sciatto, con vestiti rattoppati, i capelli tenuti insieme da una molletta, l’irrinunciabile fazzoletto rosso da anarchica al collo, alle volte una medaglietta della madonna di Montenero, passerà la sua esistenza a correre avanti ed indietro per la città (“andava via come il vento e non era raro che qualcuno affermasse di averla vista in punti diversi della città contemporaneamente”, disse una testimone) per cercare di fare del bene agli altri, nel Paese che pencolava verso il fascismo, nella Livorno inquieta del primo dopoguerra, fra occupazioni di fabbriche, scioperi e manifestazioni, reduci di guerra ridotti alla fame sui marciapiede, la nascita del partito comunista a poche centinaia di metri da dove Bruna abitava e l’ascesa del fascismo di Costanzo Ciano che organizzò, insieme a Dino Perrone Compagni, una vera e propria “marcia su Livorno”, antesignana di quella su Roma, dove, dopo omicidi, pestaggi e devastazioni, invase con le camicie nere la sede del Comune costringendo l’amministrazione a guida socialista di Mondolfi alle dimissioni. 

 Un ritratto della Ciucia fatto da un suo contemporaneo



Gli aneddoti sulle opere di bene di Bruna occuperebbero un intero volume. D’estate organizzava gite balneari per i bimbi poveri del quartiere verso il Calambrone, dove, grazie alle donazioni di commercianti e cittadini, distribuiva fette di cocomero, duro di menta regalato dalla Chiccaia (altro personaggio popolare che meriterebbe una descrizione a parte) pane con lo zibibbo chiamato volgarmente “topa”, oppure li portava al cinema a guardare i primi film americani e, negli anni dopo, i brutti film fascisti di propaganda. Soprattutto negli anni della guerra, dove le donne erano costrette ad inventarsi un mestiere per arrotondare i magri introiti familiari, la Ciucia diventò una sorta di maestra d’asilo per i bimbi del quartiere. Li portava nella caserma Lamarmora, oggi edificio di edilizia popolare, dopo che i soldati avevano mangiato, per raccogliere dalle pignatte della cucina i resti del cibo, oppure ai quattro mori, per raccontare loro favole e leggende. I soldati, specie quelli feriti o malati di ritorno dal fronte, erano un altro oggetto delle sue attenzioni. Portava loro cibo e medicine, o si faceva carico di spedire le loro lettere ai familiari.

Facendosi forte della solidarietà delle popolane, costringeva i commercianti di piazza Cavallotti, con le buone o le cattive, a cederle un po' di cibo, oppure i pescatori di ritorno dalla nottata a darle una secchiata di pesce da zuppa, da distribuire poi alle famiglie più povere del quartiere. Se rifiutavano, erano guai. Si narra che un giorno, per costringere un negoziante a consegnarle della stoffa, si presentò con una gabbia piena di topi, minacciando di lasciarli liberi per la bottega. Un’altra volta, un giovane soldato di partenza per il fronte le confessò il suo rammarico per non poter regalare niente alla sua fidanzata. Allora la Bruna organizzò una colletta, raccogliendo la cospicua cifra di 98 lire. Si recò da un gioielliere di via Grande per comprare una collanina. Ma costava 102 lire ed il commerciante si rifiutava categoricamente di rimetterci 4 lire di differenza. La Ciucia non si scompose, chiamò a raccolta tutte le comari del quartiere che, fra spintoni, urla e insulti, costrinsero il gioielliere a cedere.

Niente tenne per sé, rimanendo povera e vestita male come era sempre stata. Nel suo delirio di generosità, pretendeva soltanto una cosa: attenzione ed affetto. Una testimone racconta che “ogni pomeriggio alle due spaccate, cascasse il mondo, le comari della Venezia se ne scendevano a veglia e Bruna faceva parte della combriccola. Apparentemente se ne stava in disparte, tuttavia sembrava sempre in cerca delle premure del prossimo e, se nessuno la considerava, arrivava a distribuire benevoli scappellotti pur di calamitare l'attenzione su di sé”. In disparte rimaneva anche durante le sagre e feste del quartiere, dove però intimamente sembrava rallegrata dal vedere i bambini divertirsi e ballare. Questa povera anima semplice, infiammata da un bisogno infinito di amore che tracimava in una sorta di ricerca ansiogena continua di mostrarsi tramite la beneficenza, era in fondo una vittima, vittima di un amore paterno non conosciuto a sufficienza, vittima del suo mondo interiore sconvolto dalla malattia infantile, vittima delle distanze invisibili eppure siderali che dividono il marginale, il deviante, il tipo strano, dal resto del mondo. Distanze che, poverina, cercava di ridurre con l’unico modo che conosceva: fare del bene al prossimo. Il bambino povero della Venezia era per lei la proiezione di quella povera bambina cenciosa che era stata, il giovane soldato che le parlava della fidanzata la proiezione di un amore che non aveva conosciuto, il padre di famiglia disoccupato l’immagine di quel padre agognato e perso troppo presto.

 Il suo rapporto con l’Autorità fu burrascoso. Invasata da quello spirito anarchico che è proprio della sua città, quando passavano le camicie nere sputava per terra ed inveiva contro Mussolini, considerato la fonte della italica disgrazia. Due o tre volte questo atteggiamento le costò dei periodi di reclusione nell’ospedale psichiatrico di Volterra, d’ordine del Prefetto. La legislazione fascista associava la ribellione politica ad una forma di malattia psichica e prevedeva l’internamento obbligatorio in ospedali che, in realtà, erano delle carceri vere e proprie.

Ma alla fine non passò inosservata al Ras fascista di Livorno, Costanzo Ciano, che, con il fiuto politico che lo contraddistingueva, capì che questa popolana antifascista, così benvoluta dalla Livorno povera, poteva tornargli utile come strumento di propaganda. Allora la invitò, un giorno, a casa sua. Possiamo soltanto immaginare cosa volesse dire, per una ragazza cresciuta nei gomitoli di strade stretti, fatiscenti e maleodoranti della Venezia prendere un tram per andare nell’altra Livorno, quella dei ricchi, all’Ardenza, fra strade larghissime e pulite, villini familiari immersi nel verde, il profumo di sale del mare anziché il puzzo di botro dei fossi, l’odore dei pini mediterranei anziché quello delle taverne, le signore eleganti, con veti candidissime, che prendevano il tè alle baracchine, anziché le grasse popolane che bevevano il rumme. Un viaggio incredibile, trasognato, qualcosa di simile a quello di un ragazzo uscito da una bidonville africana che arriva in una metropoli europea. Ciano la accolse con tè e pasticcini nel suo studio personale, fra busti marmorei del Duce, dipinti di macchiaioli toscani, mobili antichi laccati. Possiamo solo immaginare la povera Bruna, con il suo passo zoppicante, il suo sguardo strabico, i suoi vestiti rammendati mille volte, la sua criniera mora, tenuta a bada da un mollone, che non conosceva parrucchiera, che avanzava sul parquet dell’enorme stanza, guardandosi intorno come se si trovasse in un pianeta alieno. E le disse “ma dimmi, Bruna, cosa ti serve? Io per te faccio tutto”. Allora lei, ripresasi dalla sua meraviglia, con prontezza e sfrontata gli disse “lo sa’osa, Eccellenza? Vorrei rifammi i denti”. Ciano le pagò il dentista, e da quel giorno, ogni volta che uno squadrista le si avvicinava per pestarla o arrestarla, gli mostrava i bei denti bianchi rifatti e gli diceva “bimbo, sta cheto che sono ami’a di Ciano”. Da quel momento, lo scaltro gerarca non mancò di rifornirla di generi di conforto, che lei regolarmente distribuiva ai più bisognosi, trasformandola, suo malgrado, in un fattore di stabilizzazione sociale. 

 La "modesta" dimora del gerarca Ciano


 

La sua fine è avvolta nel mistero, come per ogni leggenda che si rispetti. Nella Livorno martoriata da ben cento bombardamenti aerei, anche la famiglia di Ciucia fu sfollata nelle colline del Gabbro, attorno alla città. Lì, a giugno 1944, la ragazza, ad appena 33 anni, scompare nel nulla. C’è chi dice che sia saltata su una mina mentre cercava di rientrare a Livorno al seguito delle truppe americane, nell’intento di andare a curare i feriti rimasti in città, chi che sia stata falciata da una mitragliata dei tedeschi in fuga, chi giura di averla vista, ancora viva, ma mutilata ad una gamba, su un barroccio, chi giura di averla vista fucilata dai tedeschi prima che si ritirassero. Nessuno lo sa. Negli anni cinquanta, i familiari la fecero dichiarare morta. Una tomba vuota, con la sua unica foto rimasta, è all’ingresso del cimitero dei Lupi. 

 Il quartiere Venezia di Livorno distrutto dai bombardamenti


 

Siccome nessuno l’ha mai vista morta, allora a me piace pensare che, come per quelli che hanno visto Elvis vivo, sia sopravvissuta alla guerra. Magari andandosene negli Stati Uniti con qualche ragazzone della U.S. Army di cui si innamorò, o magari, stanca dell’aria malsana del suo quartiere di città ed affascinata dalla campagna del Gabbro, che sia rimasta lì, in qualche paesino rurale della Val di Cecina dove la gente pensa ai cazzi suoi e non fa tante domande, con un nome falso, a curare il suo orto, a sputare sui fascisti ed a continuare a fare del bene, in segreto. Se lo sarebbe meritato. 

Per altri dettagli su questo personaggio straordinario, cfr. "La Ciucia per tutti, Bruna per noi", di Tiziana Savi, Books & Company, 2007

 


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