La tornata di voto
amministrativo, significativa numericamente perché coinvolgeva circa un quarto
dell’intero corpo elettorale nazionale, è stata dominata dall’astensionismo.
Questo è probabilmente il dato più significativo di tutti. A votare è andato il
54,7% degli elettori, con un calo di quasi 7 punti rispetto alle precedenti
amministrative.
L’analisi interna
dell’astensionismo è fondamentale, oramai, perché tale fenomeno ha una
incidenza molto importante nel determinare gli esiti finali di un voto, ed anche
per segnalare lo stato di salute di una democrazia. Va premesso, peraltro, che
tale fenomeno, per la sua liquidità e soggettività, in parte basata su
considerazioni emotive o non del tutto razionali, rifugge da qualsiasi
codificazione rigida dei motivi ed andrebbe analizzato in modo puntuale per
ogni tornata elettorale (l’astensionismo alle politiche può avere un
significato diverso da quello delle amministrative), per ogni territorio
(probabilmente l’astensionismo al Sud ha motivazioni parzialmente diverse da
quello del Centro Nord) e per ogni tipo di area (non sono identici i motivi
dell’astensionismo nelle grandi città – ed all’interno di queste fra i centri
gentrificati e le periferie più estreme – e nelle aree periurbane e rurali).
In altri termini, il fenomeno va
analizzato per quello che è nell’hic et nunc, e non con categorie analitiche
utilizzate in precedenti tornate elettorali, oppure, peggio ancora, con la
lente deformante dei nostri desideri. Mi riferisco in particolare ad un
bizzarro editoriale sul Corriere della Sera a firma di Polito – peraltro
analista politico molto acuto, in altre circostanze – in cui il Nostro, mosso
dal pio desiderio di portare un soccorso (peraltro inutile) al già fortissimo
Governo Draghi, evince dall’elevato astensionismo un misterioso e non
riscontrabile clima di “tregua nazionale”, in cui gli elettori, lasciate a casa
le rabbie antisistema dei tempi giacobini del M5s e dei tempi sovranisti della
destra, avrebbero deciso di restare a casa perché non avvertono, in una
politica commissariata dai tecnici alla Draghi, l’esigenza di esprimere un
parere su visioni alternative del mondo, che peraltro i partiti non sono in
grado di fornire.
Ora, a parte il fatto che parlare
di un clima di “calma piatta”, per cui gli elettori avrebbero segnalato che
“non è il tempo della protesta”, è una palese, e direi anche psicologicamente
preoccupante, dissociazione dalla realtà del Paese, attraversato da correnti
multicolori di protesta (dai no green-pass alle ben più serie proteste dei
lavoratori delle fabbriche in chiusura), la considerazione di Polito potrebbe
avere un qualche minimo rilievo se stessimo parlando di elezioni politiche
nazionali. Alle amministrative ci si concentra sulle proposte per il proprio
Comune, quindi su un elenco di progetti di natura prevalentemente
amministrativa, più che politica. Il voto è mosso più dalle proposte su dove
disegnare le strisce blu dei parcheggi che da considerazioni “macro” sulla
capacità dei partiti di rappresentare interessi sociali generali.
E però…però…una parte di ragione
Polito ce l’ha, quando afferma che “molti italiani mostrano poco interesse per
la gara dei partiti, perché la reputano irrilevante rispetto alle cose che
contano”. Guardiamo il fenomeno in modo oggettivo, curiosando dentro i primi
dati sui flussi e le motivazioni di voto provenienti dalle prime elaborazioni,
purtroppo ancora limitate alle grandi città (in particolare Milano, Bologna e
Napoli, i dati su Roma sono ancora parzialmente latenti). Manca quindi la foto
dell’Italia profonda, del reticolo di piccole e medie città che costituisce,
forse più delle grandi aree metropolitane, la radice del nostro Paese, mancano,
inoltre, le cosiddette “aree interne”, montane e rurali, che però in alcune
delle regioni della dorsale appenninica, specie quelle del Sud, hanno un peso
elettorale importante, nonostante lo spopolamento e la marginalizzazione.
Con questo limite metodologico
non indifferente, concentrandoci sul voto metropolitano (che però è spesso
anche il più informato, almeno mediaticamente) notiamo come il grande serbatoio
dell’astensionismo, tradizionalmente collocato a Sud (ancora a queste elezioni,
le regionali calabresi vedono una partecipazione di appena il 44,4%),
l’astensionismo attacchi i grandi centri urbani, anche del nord. La
partecipazione al voto nelle città di Torino, Milano, Roma e Napoli è stata, in
termini aggregati, del 48% appena, a Bologna è scesa fino al 35%, tutto
nettamente sotto la media nazionale del 54,7%. Regioni tradizionalmente
considerate affette dall’astensionismo, come la Basilicata o la Campania, hanno
messo a segno percentuali, rispettivamente, del 58,5% e del 58,1%, inferiori ai
dati della precedente tornata ma superiori alla media nazionale. Il Molise, tipica
regione “interna”, ha messo a segno un 58,4%.
Possiamo già qui scardinare un
luogo comune, ovvero quello per cui le aree extraurbane hanno un grado di
partecipazione politica necessariamente inferiore a quello delle aree urbane,
dove esiste un elettorato più consapevole e più inserito nelle dinamiche amministrative
e di governo. Questo non è sempre vero e dipende dalla natura di chi, volta per
volta, si astiene (dipende anche dalla presenza o assenza di fenomeni di voto
di scambio e consociativismo a livello locale, che a volte “gonfiano”
artificialmente il voto).
Stavolta si è astenuto, perlopiù,
un elettorato urbano, il più delle volte residente nelle periferie o nei
quartieri in degrado. Vero è che a Bologna, in periferie come Borgo Panigale,
si sono avuti dati di affluenza più alti. Però a Roma si è determinato un più “classico”
differenziale fra quartieri benestanti (Parioli, Roma nord) che hanno votato in
modo più diffuso, e periferie in degrado, specie della zona est o anche Ostia. Analogo
risultato si è avuto a Napoli: al Vomero vota il 40% degli elettori, a
Poggioreale-Zona Industriale o a Secondigliano e Scampia votano fra il 30 ed il
35% degli aventi diritto. A Milano, al netto dell’anomalia relativa al centro
storico, si vota di più nella benestante e centrale zona di via Buenos Aires-San
Vittore che in quella del Forlanini-Ponte Lambro e del Corvetto, e meno ancora
si è votato nella zona Barona-Gratosoglio-Primaticcio, fra le meno prospere
della città in termini di reddito medio pro capite (fonte Youtrend).
Questi dati scardinano del tutto
il postulato di Polito: se dovessimo dargli retta, i quartieri più arrabbiati sarebbero
quelli centrali e benestanti, mentre le periferie in degrado sarebbero
pacificate. Ovviamente non ha senso, mentre ha senso dire che, quando si vota
per il Comune, la disaffezione elettorale, un po' come i fenomeni di
inurbamento dei Paesi poveri, si trasferisce dalle campagne alle città, fermandosi
nelle periferie scassate. Questo perché, mentre i centri medio-piccoli sono
relativamente più facili da amministrare ed il rapporto fra sindaco e cittadini
è più diretto, nelle sterminate periferie dei grandi centri urbani il senso di
abbandono delle istituzioni alimenta una maggiore disaffezione elettorale.
La composizione sociale e culturale
non può che seguire la geografia urbana: secondo le prime elaborazioni di Swg,
infatti, a Torino il 66% del voto operaio è andato in astensionismo. A Milano,
il 67% degli elettori a bassa scolarità è rimasto a casa. Analoga percentuale
(64%) per gli elettori di bassa scolarità romani e per quelli napoletani (65%).
A Trieste ha rinunciato al voto il 47% degli operai ed il 71% dei disoccupati. Tra
l’altro, in tali categorie, fra chi è andato a votare ha prevalso quasi sempre la
scelta per il candidato di destra.
Continuando nell’analisi del voto
delle grandi aree urbane, vediamo altre cose che appaiono evidenti. Come appare
dai dati elaborati da Youtrend, a Torino e Milano l’astensionismo crescente è
alimentato in primo luogo da elettori del M5s, in secondo luogo da elettori di
centrodestra, leghisti e dei FdI. A Napoli, il flusso crescente di rifiuto del
voto è alimentato in primo luogo da elettori di centrodestra, ed in secondo
luogo, e ciò costituisce una specificità locale, da voto in uscita da De
Magistris, quindi da un elettorato tendenzialmente di sinistra radicale che non
ha trovato più un suo candidato e non ha voluto sostenere il centrista
Manfredi, proposto dal Pd. Anche a Bologna c’è una particolarità: l’aumento
dell’astensionismo è, sì, collegato in primo luogo al M5s (4,2% punti in più)
ma, in seconda posizione, vi è astensionismo in uscita dal Pd (2,3% punti di
maggior astensionismo) che supera quello in uscita dalla destra (0,8 punti in
più). Ciò è l’effetto, molto probabilmente, di un esito elettorale
assolutamente scontato, che ha indotto elettori piddini a restare a casa (anche
perché a Bologna era periodo di ponte per via della festa patronale).
Nella sostanza, tirando le somme
di questi dati, l’astensionismo alle recenti amministrative appare essere un
fenomeno perlopiù metropolitano, concentrato soprattutto nelle periferie del
disagio sociale, fra i ceti sociali “sconfitti” dalla ristrutturazione
liberista di questi anni, allegramente proseguita con l’idea a-scientifica e
pseudo-schumpeteriana di Draghi della ristrutturazione “creatrice” dei settori
produttivi. Da un punto di vista più strettamente politico, è il frutto della
delusione per idee di alternativa sociale propugnate dal M5s delle origini e dalla
Lega nella sua fase sovranista e populista (e a Napoli dalla presunta “rivoluzione
arancione” di De Magistris, mai comparsa all’orizzonte), oramai collassate
nella versione draghiana del “there is no alternative”.
Va aggiunto, peraltro, che se viene
meno una proposta di alternativa allo stato di cose esistente ed i partiti
finiscono per proporre piccole alternative adattive ad una linea comune (e qui
concordo con Polito) allora le organizzazioni partitiche che dovrebbero
sostenere una idea diversa del mondo vengono abbandonate. Il degrado delle
organizzazioni partitiche, a sua volta, determina maggior astensionismo perché
viene meno una struttura organizzativa radicata sul territorio che porti gli
elettori a votare (non a caso, l’astensionismo più forte è fra ex elettori del
M5s e della Lega che, in tutto il Paese nel primo caso e nel Centro Sud nel
secondo, hanno un radicamento territoriale meno forte, quindi minori capacità
di fidelizzazione dell’elettorato).
A quel punto la differenza la fa,
in un paradosso aberrante, la figura del leader: infatti, secondo la
rilevazione Demopolis, il 60% degli elettori delle 4 aree urbane principali ha
scelto il candidato non per appartenenza partitica o di campo, ma per la sua
identità personale. Solo un residuo 14% ha scelto il partito a prescindere dal
candidato che presentava (ciò spiega tra l’altro il successo di Calenda, privo
di qualsiasi struttura partitica che lo supportasse). Il paradosso è aberrante
perché tale orientamento degli elettori, tipicamente populista, è stato
facilitato proprio da quelle parti politiche che, a parole, hanno sempre
combattuto il populismo, ma che poi hanno contribuito, ad esempio tramite la
glorificazione del leader o l’abolizione del finanziamento pubblico, a demolire
i partiti. Adesso siamo ipso facto in una condizione di populismo strutturale.
Alle politiche si giocherà una
partita diversa, ovviamente. Il M5s, che più ha contribuito all’aumento dell’astensionismo
su base territoriale, potrebbe recuperarne una parte non indifferente su scala
nazionale. Lega e centrodestra usciranno dall’attuale fase di riorganizzazione e
di stallo, e probabilmente saranno in grado di rafforzare la loro proposta fra
il sottoproletariato urbano ed i ceti popolari abbandonati dalla sinistra,
recuperando altre quote di astensionismo. Avremo una riduzione di questo
bacino, ed un parziale cambiamento del suo colore. È possibile che esso verrà
alimentato maggiormente da elettorato centrista e moderato, non ritrovatosi nel
governo di Draghi e nelle proposte che verranno fatte dai due schieramenti in
gioco (Calenda e Renzi sono meteore, a vario titolo, Forza Italia si sta
sgretolando sotto il declino fisico del suo fondatore) e, in misura molto minore,
da elettori di sinistra radicale che abbandoneranno, almeno in parte, le
proposte fake di LeU, Sinistra Italiana e frattaglie varie, o da elettorato di
sinistra attualmente dentro M5s che sarà deluso dall’inevitabile svolta
centrista e moderata che Conte imprimerà al movimento.
Nessun commento:
Posta un commento