E’ ovviamente molto preoccupante
l’esito delle elezioni in Israele. Nasce, con la più alta partecipazione
popolare al voto degli ultimi anni, un governo di destra la cui maggioranza
dipende in modo vitale dalla presenza di un partito di destra religiosa radicale,
che affonda le sue radici ideologiche nelle idee del rabbino Kahane (una
teocrazia ebraica estesa ai territori della Cisgiordania assegnati all’Autorità
Nazionale Palestinese, dove gli arabi verrebbero privati di qualsiasi diritto,
ed anche gli ebrei, se di sinistra o considerati inaffidabili, dovrebbero
temere l’espulsione). Partito guidato da un leader violento, abituato a farsi
fotografare con la pistola in pugno quando affronta qualche palestinese o
quando guida la costruzione di qualche insediamento illegale in territorio
palestinese, più volte finito sotto indagine per attività terroristiche o di
incitamento all’odio razziale.
Di fatto, con l’alleanza con
Ben-Gvir, a capo del terzo partito più votato, e con altre formazioni radicali,
il redivivo Netanyahu abbandona l’anima moderata del Likud e, sin dal discorso
di celebrazione della vittoria elettorale, vira decisamente su temi identitari,
parlando di Israele come nazione ebraica (dimenticando i cittadini israeliani
arabi) e basata su Gerusalemme come capitale. Rimosso dal suo incarico a causa
di pesanti accuse di corruzione, frode ed abuso di potere, lo storico leader
della destra israeliana ha lavorato in sordina, in questo anno e mezzo, per
paralizzare il sistema politico parlamentare, logorando i governi moderati di
unità nazionale cui lo stesso Likud partecipava, da quello di Gantz a quello
Bennett, fino a quello di Lapid, con il risultato che questa risulta essere la
quinta elezione politica in tre anni, ed il quinto governo nello stesso arco di
tempo.
Tale esito è, a ben vedere, una
ulteriore tappa della crisi delle democrazie parlamentari cui assistiamo in
molte parti del mondo, fra cui l’Italia. Si tratta di una fase storica ciclica,
nella quale, di fronte a forti difficoltà economiche e sociali, le popolazioni
preferiscono affidarsi ad uomini forti ed a governi di impronta autoritaria.
Avvenne negli anni del secondo dopoguerra, e sta avvenendo in questi anni,
sotto la spinta di una crisi della globalizzazione liberale, che non sembra più
in grado di garantire le promesse di crescita e benessere e più in generale di
sicurezza. La reazione alla paura, all’impoverimento ed alla crescente
instabilità esistenziale è quindi quella di tornare dietro la protezione labile
dei confini nazionali, dell’identità etno-religiosa e dell’ordine pubblico,
affidandosi a leader che appaiono sufficientemente “forti” da garantire tale
difesa. Evidentemente, un simile sfondo non può che favorire la destra, che
porta nel suo Dna messaggi nazionalistici, etnocentrici e securitari, aprendo
la strada ad uomini “rassicuranti”, anche a costo di pagare tale rassicurazione
con una riduzione delle libertà e dei diritti civili.
Poi, su questo scenario di crisi
generalizzata delle istituzioni democratiche, si innestano fattori locali: il
pluridecennale stato di guerra in cui Israele si trova sin dalla sua nascita
come Stato, il fallimento di ogni trattativa o accordo (va detto, anche per
colpa di un irrealistico estremismo da parte araba, chissà se nella sua tomba
Arafat si pente, oggi, di aver rigettato l’offerta di Barak e Clinton, nel
2000, che avrebbe dato vita ad un vero Stato palestinese, chissà quanto male
fanno alle causa palestinese le politiche terroristiche di Hamas, Hezbollah e
del Jihad Islamico) hanno instillato, in una quota crescente di popolazione
israeliana, l’idea che l’unica soluzione per ottenere la pace sia il genocidio
definitivo dei palestinesi e la privazione di ogni diritto per gli arabi
israeliani. Le difficoltà economiche legate all’impennata dell’inflazione
(salita fino al 5%) ed a una possibile bolla immobiliare (con il costo delle
abitazioni cresciuto del 18% in un anno) hanno poi spostato a destra molto
elettorato, nell’aspettativa che le politiche fiscali e monetarie restrittive
tipiche della destra mettano sotto controllo l’aumento dei prezzi (va poi anche
detto che l’espansione delle colonie in territorio palestinese offre, a
determinati segmenti di popolazione, una soluzione abitativa a basso costo,
purché si sia determinati a difendere la bandiera del sionismo).
Netanyahu, a ben vedere, a fronte
della scomparsa delle radici socialiste ed egualitarie del sionismo storico, di
fronte all’esigenza di mantenere il potere per depotenziare i processi a suo
carico, pensa di realizzare una operazione simile a quella con cui Berlusconi
addomesticò e moderò la destra postfascista italiana. Ma le differenze sono
tante, e l’operazione di Netanyahu è molto difficile. Intanto la maggioranza è
piuttosto fragile, basandosi su cinque parlamentati di vantaggio. Con questa
maggioranza fragile, il nuovo governo dovrà affrontare tematiche molto
complesse come la gestione dell’inflazione ed il rilancio dell’economia, a
fronte di un impoverimento crescente della popolazione (secondo un recente
rapporto dell’Ocse, il 18% degli israeliani è in condizioni di povertà
relativa, mentre il 16% dei lavoratori deve lavorare per più di 50 ore alla
settimana per avere un salario dignitoso, 2,6 volte in più rispetto alla media
dei Paesi Ocse) la gestione dell’immigrazione di ebrei russi ed ucraini (circa
40.000 ebrei ucraini e russi sono fuggiti in Israele dall’inizio della guerra,
e non ci si aspetta che il flusso diminuisca), che rischia di peggiorare le
tensioni sociali interne e, ovviamente, una riforma della magistratura che la
metta sotto scacco rispetto al potere politico, per poter uscire dai processi a
carico del premier, riforma che ovviamente scatenerà un conflitto istituzionale
dagli esiti incerti.
Il tutto avviene in uno scenario
internazionale non proprio favorevole: il governo britannico ha già dichiarato
che rinuncerà alla sua delegazione diplomatica a Gerusalemme, per protesta nei
confronti dell’estrema destra al potere. Dagli USA arrivano segnali di scarso
gradimento, anche perché Netanyahu potrebbe (anche se non credo che lo farà,
l’uomo è fin troppo prudente) riallacciare i rapporti di amicizia storici con
Putin, al fine di ottenere energia a prezzi di favore e/o bloccare
l’immigrazione ebraica russa. E’ poi molto difficile che i Paesi arabi possano
digerire un governo così spostato a destra, rendendo più difficile, ad esempio,
l’attuazione dell’accordo di pace proposto da Trump, molto favorevole ad
Israele, e sostenuto da diverse petromonarchie arabe, o la normalizzazione in
atto dei rapporti con il Libano.
In sostanza, non sembra che il
futuro di questo governo, almeno dentro un quadro di rispetto della
Costituzione, sia particolarmente semplice o florido. E’ però certo che la
sinistra israeliana debba riflettere profondamente sui suoi errori, ad iniziare
dalla frammentazione in liste, listine e listarelle, che ha indebolito il
partito laburista senza generare consenso aggiuntivo. Così come i partiti
arabi, quasi scomparsi dalla nuova Knesset, debbono ritrovare la capacità di
rispondere alle esigenze degli arabi israeliani. Soprattutto Meretz deve
riflettere, dopo la sua sconfitta epocale, sul suo posizionamento sociale, un
errore fin troppo ripetuto nelle sinistre di tutto il mondo e che ci ricorda
quello che è avvenuto con il Pd da noi: secondo Bronner, docente universitario,
“il Meretz era in declino da anni, non ha voluto e saputo ridefinire il suo
ruolo di forza di sinistra, ha continuato ad essere solo un punto di
riferimento per la classe media istruita, progressista, ashkenazita e non si è
avvicinato alle classi popolari, alle periferie delle città dove il costo della
vita, la disoccupazione e il degrado sono un flagello. Non solo, sotto l’urto
delle tendenze ultranazionaliste ora prevalenti nell’opinione pubblica, ha
diluito l’impegno per una soluzione negoziata con i palestinesi”.
I partiti arabo-israeliani pagano
i loro dissidi interni, l’inconciliabilità fra posizioni vicine al baathismo e
posizioni islamiche conservatrici, i rancori fra leader, i frazionamenti a
pochi giorni dal voto. Sopravvive, in una posizione del tutto marginale, con
appena il 4% e 5 seggi, il partito Ra’am, che di fatto rappresenta solo il
segmento più integrato e benestante della popolazione araba in Israele, non a
caso vicino a Netanyahu ed a Lapid nel recente passato.
E’ altrettanto certo che ci sono
degli spostamenti strutturali nell’opinione pubblica israeliana, in direzione
di atteggiamenti sempre più ostili ad una visione negoziata dei rapporti con
gli arabi o ad una prospettiva di pace e tolleranza. Questo elemento pone delle
questioni importanti alle leadership palestinesi: lo spazio di quello che
possono ottenere in via negoziale si sta riducendo sempre di più, perché quote
crescenti di elettori israeliani, votando all’estrema destra, si vanno
convincendo che la soluzione sia semplicemente quella di azzerare ogni forma
residua di autonomia amministrativa e territoriale palestinese e ogni residuo
diritto civile e sociale degli arabi. Il passo verso un vero e proprio
genocidio non è poi nemmeno tanto lontano. Ciò pone un dilemma ad Hamas, ad Al
Fatah ed alle altre organizzazioni politico-militari palestinesi: siccome il
loro nemico è incomparabilmente più forte di loro militarmente, la deriva verso
forme di radicalizzazione politica dell’opinione pubblica israeliana va fermata
in qualche modo, riprendendo la via della diplomazia, non assecondando la
radicalizzazione con una ulteriore escalation (piuttosto inutile per la causa
palestinese anche in passato, ancor più nel presente, in cui i riflettori dei
media e della politica occidentale sul Vicino Oriente si vanno spegnendo), prima
che la finestra residua di tale strada si chiuda definitivamente.
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