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venerdì 11 novembre 2022

La proposta di riforma del Patto di Stabilità e Crescita della Commissione Europea

 


La Commissione Europea ha appena annunciato le direttrici generali della riforma del Patto di Stabilità che proporrà al negoziato ed all’approvazione con gli Stati membri, attraverso un comunicato stampa e delle linee-guida.

I commenti dei quotidiani italiani sono improntati ad un cauto ottimismo. Evidentemente, dalla fine del governo Draghi le aspettative erano talmente pessimistiche che questaproposta, che va ancora negoziata con gli Stati membri, sembra essere il minore dei danni. E’ veramente così? L’impressione è che la Commissione abbia voluto dare un contentino generico agli Stati membri a più alto debito, in particolare all’Italia, facendo luccicare una sembianza di ritorno ad un certo grado di sovranità sulle politiche di bilancio, in grado di accontentare le narrazioni della destra al potere, senza però realmente incidere sulle radici strutturali della condizione di difficoltà finanziaria e crescita assente di Italia, Grecia e, in misura minore, Spagna, e rinunciando, evidentemente per sempre, a fare il salto di qualità vero e proprio, quello che comporterebbe un bilancio europeo unico, con una gestione unificata del debito pubblica, in definitiva una vera integrazione economica e politica, che evidentemente i Paesi nordici, Germania in testa, non vogliono, e che in futuro potrebbe dare adito a fughe unilaterali dal progetto europeo.

Infatti, la proposta fa piazza pulita delle proposte, soprattutto italiane (a partire dal paper di Giavazzi, che costituiva la posizione ufficiale del governo Draghi) di una presa in carico comune di una parte del debito, almeno dell’extradebito generato dalla crisi pandemica, quindi di quel debito che non deriva da “colpe” degli Stati membri, ma che è stato generato da eventi esogeni ed incontrollabili. Rinunciando a fare questo passo avanti, tutti gli Stati membri si ritroveranno ad avere meno spazi di bilancio ,ed essere più deboli, quando arriverà la prossima crisi sanitaria/ambientale o economica, e ciò vale anche per Germania ed Olanda, il cui rapporto debito pubblico/Pil è cresciuto, rispettivamente, fino al 69% ed al 52% (senza contare l’enorme indebitamento privato di questi Paesi, legato in parte anche al debole intervento pubblico nell’economia e nella società, e, per la Germania, il debito nascosto nel sistema bancario a controllo pubblico dei Lander o nella sua Cassa Depositi e Prestiti) .

Si delinea un sistema che, sicuramente, avrà il pregio della semplicità, cancellando i bizantinismi teoretici del calcolo del trend strutturale del bilancio, dell’output gap e del tasso di disoccupazione di equilibrio, su cui si basava la vecchia versione del Patto di Stabilità, e che tanto male ha fatto all’economia italiana, imponendo una austerità irragionevolmente scollegata dal trend reale di crescita e cancellando l’obbligo di riduzione del debito pubblico di un ventesimo all’anno, del tutto irraggiungibile senza politiche fiscali irrazionalmente restrittive. Ma spariscono anche tutte le clausole di flessibilità che consentivano di supplire parzialmente a questi bizantinismi punitivi, e che regolarmente ogni governo italiano negoziava con la Commissione, anno per anno.

Tutto sarà sostituito da un negoziato one-to-one fra Commissione e Stato membro, per determinare un piano di medio periodo di stabilità finanziaria, di respiro quadriennale, estendibile fino a 7 anni se lo Stato membro dimostra di poterlo basare su investimenti e riforme in grado di supportare, con una maggiore crescita potenziale, la sostenibilità del debito e di raggiungere i target di policy della Ue (ambiente, digitalizzazione, ecc.). Tale piano dovrà collocare il debito pubblico nazionale su un trend ragionevole di discesa o che quantomeno rimanga su “livelli prudenti”, e dovrà fornire assicurazioni che il disavanzo di bilancio totale rimanga sotto la soglia del 3% del Pil, mantenendo in piedi questo parametro del tutto arbitrario ed incomprensibile.

A guidare il piano, che sarà monitorato annualmente, sarà un solo parametro: la spesa primaria netta che, a quanto pare, anche se lo stringato testo della Commissione Europea non lo esplicita, dovrebbe essere un sinonimo del saldo primario di bilancio (differenza fra spese ed entrate al netto della spesa per interessi del debito pubblico). Evidentemente, nel loro piano quadriennale negoziato con la Commissione, i governi nazionali dovranno dimostrare un calo di tale parametro in grado di riflettersi in un deficit/Pil inferiore al 3% ed in un livello discendente, o quantomeno prudente, del debito pubblico. Faranno eccezione a tale percorso di austerità solo gli investimenti pubblici particolarmente qualificanti, o perché manifestamente in grado di aumentare la crescita potenziale, o perché coerenti con i target europei di investimento (gli stessi del Pnrr, per capirci) o perché in grado di fornire un migliore controllo delle finanze pubbliche (ad es. investimenti in sistemi di razionalizzazione degli acquisti intermedi o degli appalti pubblici, o in tecnologie per la repressione dell’evasione fiscale). Ma questa eccezione per gli investimenti pubblici qualificanti non si traduce in una esplicita riserva, in una specie di “golden rule” predeterminata per specifiche categorie di spesa e garantita a priori, essendo necessario negoziarla caso per caso con la Commissione nell’ambito dei piani fiscali di medio termine.

E qui viene il punto più pericoloso potenzialmente per l’Italia: i piani fiscali quadriennali devono essere negoziati fra Stato membro e Commissione. Ed ovviamente in questo negoziato entrano elementi quali la forza contrattuale del singolo Paese, che per l’Italia non è la stessa della Germania o della Francia, la credibilità del governo nazionale che negozia, le pressioni dei mercati finanziari, attraverso i segnali dei rating delle agenzie e dello spread, che spingeranno la Commissione ad essere più o meno severa in sede di negoziato. Anche perché il sistema delle sanzioni sarà molto più rapido ed efficace: per i Paesi, come il nostro, che superano il rapporto debito/Pil del 60%, potrà scattare immediatamente in caso di scostamento del trend di finanza pubblica dello Stato membro rispetto al percorso negoziato con la Commissione, anche solo per un anno. Ci potrà essere anche la sospensione dei pagamenti a valere sui fondi strutturali o del Pnrr dovuti allo Stato membro, se esso non si adeguerà immediatamente alle raccomandazioni per tornare subito sulla “retta via”. Potranno essere imposte sanzioni, sotto forma di percorsi di rientro dal debito più stringenti, anche nel caso in cui lo Stato membro non adempia ai suoi impegni in materia di investimenti e riforme strutturali.

Insomma, rispetto al precedente sistema sanzionatorio, talmente farraginoso e burocratizzato da non essere di fatto attivabile, nel nuovo Patto di Stabilità le sanzioni dovrebbero essere rapide, efficaci e drammatiche. Persino la procedura per squilibri macroeconomici eccessivi, sinora “backward looking”, perché basata sui dati storici dimostranti uno squilibrio, sarà complementata da un approccio “forward looking”, nel quale, oltre agli squilibri preesistenti, si andranno anche a prevedere quelli possibili in futuro, imponendo allo Stato membro politiche e riforme in grado di prevenirli, creando un sistema di vigilanza molto più costrittivo per lo Stato membro, che contempla anche possibili rischi futuri, oltre a quelli presenti. Alla faccia della restituita autonomia nazionale di politica economica di cui la Commissione parla…

La chicca finale della proposta è quella di un potenziamento del meccanismo di sorveglianza post-programma per Paesi, come la Grecia (o come l’Italia, in un futuro che non possiamo affatto escludere) che hanno chiesto assistenza finanziaria all’ESM ed hanno quindi stipulato un memorandum: le politiche di bilancio del Paese saranno ancor più fortemente vincolate di quanto già siano oggi alla valutazione della sua capacità di ripagare i prestiti ricevuti, di completare le riforme strutturali imposte nel memorandum e di riaccedere ai mercati finanziari. Se pensiamo che la Grecia, già con il meccanismo attuale, resterà vincolata a meccanismi di sorveglianza per molti anni, non c’è da essere allegri.

E tutto questo avviene nel quadro di una mutazione della governance macroeconomica, attuata tramite la riforma del MES, che non può essere scissa dalla riforma del Patto di Stabilità, costituendo un pacchetto unico: infatti, proprio in questi giorni la Commissione sta spingendo Italia e Germania a dare l’approvazione definitiva a questa riforma che, ricordiamolo, prevede due linee di credito diverse, con condizionalità differenziate fra Paesi a basso ed alto debito (per i quali è anche prevista una preliminare analisi di sostenibilità del debito, con conseguenti rischi di tipo reputazionale per un Paese che chieda una forma di assistenza finanziaria, magari per difficoltà temporanee legate a fattori esogeni, come una nuova crisi sanitaria), meccanismi legislativi pensati per facilitare il default e la ristrutturazione del debito sovrano (che incidentalmente fanno crescere anche il rischio, e quindi il costo, del finanziamento di mercato del debito pubblico per il nostro Paese), un ruolo parallelo del Mes rispetto alla Commissione Europea nella gestione di crisi finanziarie, che ne fa un organismo politico-tecnocratico pericoloso in termini democratici.

Va infine rilevato che questa proposta, già non molto bella, come si è visto, è già stata aspramente criticata dai governi tedesco e olandese, che la vogliono rendere ancor più pesante. Senza che il Governo italiano, sputtanato per le sue derive sui diritti umani ed isolato a livello internazionale (non sarà certo Orban ad aiutarci) possa mettere bocca e negoziare alcunc

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