Riccardo Achilli
Chi vincerà le elezioni a giugno
avrà di fronte lo scenario di una città attraversata da una lunghissima crisi
strutturale, una crisi di vocazione economica, che è iniziata ben prima della
recessione globale del 2007, e che affonda le radici negli anni Settanta, con
il progressivo declino del modello industriale basato sulla grande industria
nei settori di base, a proprietà pubblica, sul quale si era costruita
l’industrializzazione del triangolo Piombino-Livorno-Pisa.
Bisognerà evitare iniziative per le
quali la città non è assolutamente vocata, e per i quali non dispone né di
risorse endogene sufficienti a battere la concorrenza, né di appoggi politici o
economici esterni, come l’idea di farne una candidata per la corsa a Capitale
Italiana della Cultura per il 2021.
Bisognerà anche, ovviamente,
essere consapevoli dei limitati margini di manovra di cui dispone
un’amministrazione comunale, che non può più dotarsi, come in passato ai tempi
della Spil, di agenzie pubbliche per promuovere interventi e progetti di
reindustrializzazione.
Occorrerà quindi concentrare il
ruolo dell’amministrazione in una funzione di polarizzatore di forze ed
interessi di una pluralità di soggetti, pubblici e privati, massimizzando le
risorse disponibili, concentrandole su un limitato set di motori di sviluppo in
grado di esercitare un effetto di leva. Le tendenze più recenti dell’economia
dello sviluppo territoriale non sono favorevoli a puntare sul cosiddetto “greenfield”,
ovvero sulla progettazione ex novo di settori di attività che non hanno, nelle
vocazioni e nel modello specifico di sviluppo del territorio, un qualche tipo
di connessione, produttiva o cognitiva che essa sia. Ad esempio, Ron Boschma sostiene
l’esigenza di scegliere i settori sui quali mirare le politiche di sviluppo con
priorità sulle “filiere incomplete”, cioè su settori che rappresentino gli
anelli di chiusura di filiere già parzialmente presenti sul territorio.
A giudizio di chi scrive, ed in base
al sopracitato criterio, i motori sono sostanzialmente quattro: la
riqualificazione urbana, un nuovo ruolo del porto, la nautica e lo sviluppo di
PMI innovative nell’ambito di Industria 4.0.
La riqualificazione urbana
significa far partire progetti sui quali si è consumato un grande scontro
politico, senza però raggiungere risultati: la ristrutturazione dell’ospedale,
la rivalorizzazione della periferia settentrionale, la rifunzionalizzazione
energetica degli edifici pubblici, il progetto di Cittadella dello Sport ad
Ardenza, fino a progetti più piccoli, ma di grande impatto sociale, come quelli
miranti alla messa in sicurezza di un territorio che gli eventi alluvionali del
Settembre 2017 hanno mostrato molto più fragile di quanto si pensasse. Si tratta,
innanzitutto, di produrre un effetto di cantiere in termini di occupazione e
redditi: Confartigianato, ad esempio, calcola che per ogni euro di investimento
in edilizia o opere pubbliche, si crea un maggiore Pil per 0,75 euro. Ma
l’effetto va oltre quello di cantiere: attorno a progetti di riqualificazione
urbana possono coagularsi opportunità imprenditoriali: la Cittadella dello
Sport può diventare un’area in cui concentrare servizi di leisure e servizi per
il tempo libero, oltre che opportunità nel commercio. La riqualificazione delle
periferie può attrarre progetti di Social Housing, per i quali, tra l’altro, la
Cassa Depositi e Prestiti dispone di fondi specifici. La riqualificazione
energetica degli edifici può costituire un bacino per far nascere imprese
nell’edilizia dei nuovi materiali e/o nell’impiantistica.
Naturalmente, ciò presuppone il
recupero di una capacità di progettazione complessa da parte pubblica, che
decenni di austerità e di blocco del turn over hanno depauperato. Tale
capacità, nel breve periodo, può anche essere recuperata dall'esterno, tramite
concorsi di idee e gare di appalto integrato.
Il secondo motore è, in fondo, la
riproposizione della vocazione storica, per così dire, della città. Senza nulla
togliere ad un più che necessario avvio dei lavori per la Darsena Europa ed una
migliore connessione fra porto e retroporto, valorizzando al massimo
l’interporto, lo scalo livornese può ancora rappresentare l’asse centrale di
produzione di ricchezza, purché si sappia diversificare le sue funzioni, non
concentrandosi solo sul traffico container, che è affetto da una concorrenza
feroce (sulle rotte occidentali verso le Americhe o l’Europa nord occidentale,
il quadrante ovest del Mediterraneo è pieno di grandi porti già attrezzati, con
i fondali giusti per attrarre le navi post-Panamax e spesso costi del lavoro in
banchina molto bassi, sulle rotte della Nuova Via della Seta, i porti del
quadrante orientale del Mediterraneo hanno un vantaggio, in termini di
posizione geografica, difficilmente invertibile). Si può pensare ad un
rilancio, stavolta fatto con serietà e non con operazioni di modesto livello
come quella del Water Front, della crocieristica, valorizzando il porto come
hub marittimo per i crocieristi diretti verso Pisa o Firenze, come
Civitavecchia sta facendo efficacemente a servizio di Roma. Non si tratta,
ovviamente, di immaginare un mero servizio di passaggio di flussi verso altre
città d’arte toscane, ma di trattenere parte della spesa dei turisti sul
territorio mediante la messa a disposizione di servizi (dai tour guidati sui
Fossi ad un lungomare attrezzato allo shopping in centro).
Altro settore
interessante è quello del commercio di autoveicoli, sul quale Livorno può
competere con un minor numero di altri scali italiani, e che può ulteriormente
crescere valorizzando meglio le rotte da/per le Americhe e gli altri mercati
automotive mediterranei (Penisola Iberica e Francia in primis).
Per quanto riguarda la nautica,
dopo la lunga fase di difficoltà nella quale si è dibattuto, cambiando anche
radicalmente la sua configurazione di mercato, occorre puntare sul settore
della produzione dei grandi yacht, ora che finalmente è tornata disponibile
dopo la lunghissima fase di sequestro giudiziario una infrastruttura di grande
importanza come il bacino galleggiante, per la quale l’auspicio è che la
relativa gara di affidamento in concessione non segua le tradizionali
lungaggini burocratiche italiane. Tale struttura è fondamentale, ovviamente,
per il cantiere Benetti-Azimut, ma non solo, potendo, nel tempo, divenire un
riferimento per un cluster della nautica più ricco ed articolato, che si
avvarrebbe anche delle competenze specialistiche della manodopera locale.
Infine, la presenza, a venti
chilometri di distanza, di un polo universitario di eccellenza, che integra
anche la Normale e i laboratori di cibernetica del Sant’Anna, fanno di Livorno
un’area ideale per sviluppare cluster di PMI innovative, anche derivanti da
spin off accademici, in settori come la robotica, la sensoristica, l’intelligenza
artificiale, i nuovi materiali, la micromeccatronica la genetica e
microbiologia. Si tratta di attrarre iniziative imprenditoriali tramite la
vicinanza fisica con il polo pisano, evidentemente non solo con iniziative come
gli incubatori, che si limitano a fornire i sia pur necessari spazi fisici e
connessioni alle utility, ma soprattutto con la messa a disposizione di un
bacino di forza lavoro e capacità imprenditoriale ad altissimo livello di
qualificazione, anche mediante incentivi specifici a portarla a vivere e
lavorare in città, il che, peraltro, mette in gioco anche il tema della qualità
della vita, non sempre particolarmente preso in considerazione a Livorno. Bisogna
invece sapere che chi ha una elevata professionalità, che può spendere ovunque
nel mondo, per lavorare o fare impresa in un luogo tiene conto anche della
vivibilità del luogo stesso. Il costo delle abitazioni, relativamente basso
rispetto ad altre realtà del centro nord, ha poco appeal, se non è accompagnato
da servizi, infrastrutture, decoro urbano. E’ su questo che si può puntare per
delocalizzare su Livorno almeno una parte delle conoscenze scientifiche e
tecnologiche prodotte nel polo pisano.
Questi sono gli assi fondamentali
che, a mio parere, la città è chiamata a valorizzare per tornare a crescere e
togliersi di dosso quella tristezza da declino e quell’eterno presente di
paralisi al quale è condannata da troppi anni. L’auspicio, al di là della
scelta dei settori propulsivi, che può anche differire da quella proposta in
questa sede, è che si resti concentrati su una strategia basata su poche
vocazioni produttive prioritarie e collegate a vantaggi competitivi distintivi
del territorio, senza disperdersi in troppe direzioni, e selezionando attività
in grado di attivare ricadute produttive sia a monte che a valle, in una logica
di filiera, evitando pericolose tentazioni verso più facili, ma meno
impattanti, interventi puntiformi e scoordinati l’uno dall’altro.
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