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giovedì 7 febbraio 2019

I motori (possibili) dello sviluppo di Livorno


Riccardo Achilli

Chi vincerà le elezioni a giugno avrà di fronte lo scenario di una città attraversata da una lunghissima crisi strutturale, una crisi di vocazione economica, che è iniziata ben prima della recessione globale del 2007, e che affonda le radici negli anni Settanta, con il progressivo declino del modello industriale basato sulla grande industria nei settori di base, a proprietà pubblica, sul quale si era costruita l’industrializzazione del triangolo Piombino-Livorno-Pisa.

Bisognerà evitare iniziative per le quali la città non è assolutamente vocata, e per i quali non dispone né di risorse endogene sufficienti a battere la concorrenza, né di appoggi politici o economici esterni, come l’idea di farne una candidata per la corsa a Capitale Italiana della Cultura per il 2021.

Bisognerà anche, ovviamente, essere consapevoli dei limitati margini di manovra di cui dispone un’amministrazione comunale, che non può più dotarsi, come in passato ai tempi della Spil, di agenzie pubbliche per promuovere interventi e progetti di reindustrializzazione.

Occorrerà quindi concentrare il ruolo dell’amministrazione in una funzione di polarizzatore di forze ed interessi di una pluralità di soggetti, pubblici e privati, massimizzando le risorse disponibili, concentrandole su un limitato set di motori di sviluppo in grado di esercitare un effetto di leva. Le tendenze più recenti dell’economia dello sviluppo territoriale non sono favorevoli a puntare sul cosiddetto “greenfield”, ovvero sulla progettazione ex novo di settori di attività che non hanno, nelle vocazioni e nel modello specifico di sviluppo del territorio, un qualche tipo di connessione, produttiva o cognitiva che essa sia. Ad esempio, Ron Boschma sostiene l’esigenza di scegliere i settori sui quali mirare le politiche di sviluppo con priorità sulle “filiere incomplete”, cioè su settori che rappresentino gli anelli di chiusura di filiere già parzialmente presenti sul territorio.

A giudizio di chi scrive, ed in base al sopracitato criterio, i motori sono sostanzialmente quattro: la riqualificazione urbana, un nuovo ruolo del porto, la nautica e lo sviluppo di PMI innovative nell’ambito di Industria 4.0.

La riqualificazione urbana significa far partire progetti sui quali si è consumato un grande scontro politico, senza però raggiungere risultati: la ristrutturazione dell’ospedale, la rivalorizzazione della periferia settentrionale, la rifunzionalizzazione energetica degli edifici pubblici, il progetto di Cittadella dello Sport ad Ardenza, fino a progetti più piccoli, ma di grande impatto sociale, come quelli miranti alla messa in sicurezza di un territorio che gli eventi alluvionali del Settembre 2017 hanno mostrato molto più fragile di quanto si pensasse. Si tratta, innanzitutto, di produrre un effetto di cantiere in termini di occupazione e redditi: Confartigianato, ad esempio, calcola che per ogni euro di investimento in edilizia o opere pubbliche, si crea un maggiore Pil per 0,75 euro. Ma l’effetto va oltre quello di cantiere: attorno a progetti di riqualificazione urbana possono coagularsi opportunità imprenditoriali: la Cittadella dello Sport può diventare un’area in cui concentrare servizi di leisure e servizi per il tempo libero, oltre che opportunità nel commercio. La riqualificazione delle periferie può attrarre progetti di Social Housing, per i quali, tra l’altro, la Cassa Depositi e Prestiti dispone di fondi specifici. La riqualificazione energetica degli edifici può costituire un bacino per far nascere imprese nell’edilizia dei nuovi materiali e/o nell’impiantistica.

Naturalmente, ciò presuppone il recupero di una capacità di progettazione complessa da parte pubblica, che decenni di austerità e di blocco del turn over hanno depauperato. Tale capacità, nel breve periodo, può anche essere recuperata dall'esterno, tramite concorsi di idee e gare di appalto integrato.

Il secondo motore è, in fondo, la riproposizione della vocazione storica, per così dire, della città. Senza nulla togliere ad un più che necessario avvio dei lavori per la Darsena Europa ed una migliore connessione fra porto e retroporto, valorizzando al massimo l’interporto, lo scalo livornese può ancora rappresentare l’asse centrale di produzione di ricchezza, purché si sappia diversificare le sue funzioni, non concentrandosi solo sul traffico container, che è affetto da una concorrenza feroce (sulle rotte occidentali verso le Americhe o l’Europa nord occidentale, il quadrante ovest del Mediterraneo è pieno di grandi porti già attrezzati, con i fondali giusti per attrarre le navi post-Panamax e spesso costi del lavoro in banchina molto bassi, sulle rotte della Nuova Via della Seta, i porti del quadrante orientale del Mediterraneo hanno un vantaggio, in termini di posizione geografica, difficilmente invertibile). Si può pensare ad un rilancio, stavolta fatto con serietà e non con operazioni di modesto livello come quella del Water Front, della crocieristica, valorizzando il porto come hub marittimo per i crocieristi diretti verso Pisa o Firenze, come Civitavecchia sta facendo efficacemente a servizio di Roma. Non si tratta, ovviamente, di immaginare un mero servizio di passaggio di flussi verso altre città d’arte toscane, ma di trattenere parte della spesa dei turisti sul territorio mediante la messa a disposizione di servizi (dai tour guidati sui Fossi ad un lungomare attrezzato allo shopping in centro).
Altro settore interessante è quello del commercio di autoveicoli, sul quale Livorno può competere con un minor numero di altri scali italiani, e che può ulteriormente crescere valorizzando meglio le rotte da/per le Americhe e gli altri mercati automotive mediterranei (Penisola Iberica e Francia in primis).

Per quanto riguarda la nautica, dopo la lunga fase di difficoltà nella quale si è dibattuto, cambiando anche radicalmente la sua configurazione di mercato, occorre puntare sul settore della produzione dei grandi yacht, ora che finalmente è tornata disponibile dopo la lunghissima fase di sequestro giudiziario una infrastruttura di grande importanza come il bacino galleggiante, per la quale l’auspicio è che la relativa gara di affidamento in concessione non segua le tradizionali lungaggini burocratiche italiane. Tale struttura è fondamentale, ovviamente, per il cantiere Benetti-Azimut, ma non solo, potendo, nel tempo, divenire un riferimento per un cluster della nautica più ricco ed articolato, che si avvarrebbe anche delle competenze specialistiche della manodopera locale.

Infine, la presenza, a venti chilometri di distanza, di un polo universitario di eccellenza, che integra anche la Normale e i laboratori di cibernetica del Sant’Anna, fanno di Livorno un’area ideale per sviluppare cluster di PMI innovative, anche derivanti da spin off accademici, in settori come la robotica, la sensoristica, l’intelligenza artificiale, i nuovi materiali, la micromeccatronica la genetica e microbiologia. Si tratta di attrarre iniziative imprenditoriali tramite la vicinanza fisica con il polo pisano, evidentemente non solo con iniziative come gli incubatori, che si limitano a fornire i sia pur necessari spazi fisici e connessioni alle utility, ma soprattutto con la messa a disposizione di un bacino di forza lavoro e capacità imprenditoriale ad altissimo livello di qualificazione, anche mediante incentivi specifici a portarla a vivere e lavorare in città, il che, peraltro, mette in gioco anche il tema della qualità della vita, non sempre particolarmente preso in considerazione a Livorno. Bisogna invece sapere che chi ha una elevata professionalità, che può spendere ovunque nel mondo, per lavorare o fare impresa in un luogo tiene conto anche della vivibilità del luogo stesso. Il costo delle abitazioni, relativamente basso rispetto ad altre realtà del centro nord, ha poco appeal, se non è accompagnato da servizi, infrastrutture, decoro urbano. E’ su questo che si può puntare per delocalizzare su Livorno almeno una parte delle conoscenze scientifiche e tecnologiche prodotte nel polo pisano.

Questi sono gli assi fondamentali che, a mio parere, la città è chiamata a valorizzare per tornare a crescere e togliersi di dosso quella tristezza da declino e quell’eterno presente di paralisi al quale è condannata da troppi anni. L’auspicio, al di là della scelta dei settori propulsivi, che può anche differire da quella proposta in questa sede, è che si resti concentrati su una strategia basata su poche vocazioni produttive prioritarie e collegate a vantaggi competitivi distintivi del territorio, senza disperdersi in troppe direzioni, e selezionando attività in grado di attivare ricadute produttive sia a monte che a valle, in una logica di filiera, evitando pericolose tentazioni verso più facili, ma meno impattanti, interventi puntiformi e scoordinati l’uno dall’altro.

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