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giovedì 30 maggio 2019

Fca- Renault. Dove ci sono spazi per un vero sovranismo?

La fusione di Fca con Renault e Nissan (un prodotto emblematico del fallimento di queste operazioni fu l'Arna, costruita in partnership Alfa Romeo-Nissan, un fiasco che però servì ai giapponesi per impadronirsi della tecnologia motoristica Alfa, allora all’avanguardia) e’ una forma larvata di cessione dell’azienda da parte degli Agnelli.

Avendo la Fca un valore aziendale pari al doppio di quello di Renault, la capitalizzazione del nuovo soggetto avra’ un costo differenziato fra i due soci (18 mld di fonte Fca, 15 di fonte Renault) ma la Governance sara’ paritaria, quindi la Regie avra' un peso sovradimensionato nella gestione della nuova societa’,  (4 consiglieri a testa nel CDA) anche se in Assemblea Exor avrà, almeno inizialmente, una maggioranza relativa. Ma si sa: è il CDA a comandare veramente, una volta che l'Assemblea ordinaria lo ha nominato, con il vincolo di rappresentanza paritaria fra i due.
Per Renault e per lo Stato francese si tratta di un affarone: una azienda sottodimensionata ed in forte crisi di mercato si ritroverà a sfruttare mercati sui quali, oggi, è assente ( come quello statunitense o sudamericano) e potra’ gestire un colosso mondiale in condizioni paritarie con l'altro contraente, pur essendo questo più grande e di maggior valore, versando una quota di capitale meno onerosa.

Lo Stato francese, che manterrà il 7,5% del capitale, potrà avere il suo rappresentante in CDA per la parte Renault, che garantirà che i posti di lavoro, gli investimenti e le attività di ricerca e progettazione in Francia siano preservate, mentre da parte italiana ci sarà solo una famiglia privata, già dalla morte di Gianni Agnelli del tutto disinteressata alle sorti del Paese, interessata perlopiu’ al dividendo di 3 miliardi che potra’ ottenere dal coambio fra azioni Renault, di modesto vaLLlore, e piu’ pregiate azioni Fca.

E’ ovvio che le promesse di non tagliare produzione e occupazione sono poco credibili nel caso di un merger, a meno che non vi sia un socio pubblico di peso che le controlli.

Si profila, di fatto, l’estinzione lenta, diciamo nell’arco di 5 o 10 anni, dell’automotive in Italia, un comparto che vale circa il 10% del PIL manifatturiero e della relativa occupazione, sacrificato alle logiche di razionalizzazione dell’attivita’ sottese ad ogni fusione fra due aziende.

Si potra’ obiettare che la fusione serve a Fca per entrare nel mercato dell’auto elettrica, dal quale e’ esclusa per aver accumulato un ritardo tecnologico oramai imcolmabile. Ma non si uccide il malato, lo si cura. Con la politica industriale ed investimenti pubblici e privati, non disdegnando il reverse engineering, come fecero Paesi arretrati che sono cresciuti rapidamente, come la Corea del Sud.

Stavolta fa male Salvini a plaudere passivamente a questa operazione, come un Fassino o un D’Alema ai tempi della fusione marchionnesca fra Fiat e Chrysler, che alla fine porto’ la sede legale (ed il gettito fiscale) in Olanda, e la chiusura di stabilimenti in Italia, come Termini Imerese, oltre a milioni di ore di Cig, pagata dal contribuente, per gli occupati rimasti.

Salvini dovrebbe andare da Elkann e pretendere di acquisire una quota minoritaria del capitale del nuovo soggetto, in modo che lo Stato italiano abbia un rappresentante nel cda, oppure dovrebbe estendere la normativa sulla golden share al settore automotive, in modo da porre il veto ad operazioni di dismissione o trasferimento di asset produttivi o di ricerca-progettazione presenti nel Paese.

I tedeschi, i francesi, gli olandesi, che stanno nell'Euro come noi, hanno capito come so può continuare a difendere l'interesse nazionale pur senza avere la propria valuta: facendo politica industriale, senza disdegnare affatto le Partecipazioni Statali, che da noi schiere di imbecilli targati Pd vedono come un divieto assoluto. E senza curarsi di trasgredire alle regole europee sugli aiuti di Stato, persino ad imprese in crisi.
E’ sulle politiche industriali, non sulle favolette di Italexit o di monete parallele, che si puo’ con realismo esercitare sovranismo. 

lunedì 27 maggio 2019

Una analisi del voto


Quando si analizzano le elezioni, occorre guardare più ai valori assoluti che alle percentuali, per capire come il voto ha girato. Il confronto con le Europee di cinque anni fa è del tutto inutile, nella misura in cui nel 2014 il quadro politico era completamente diverso da quello attuale (Salvini non era ancora sceso in campo e la Lega era fondamentalmente ancora un movimento federalista del Nord, esisteva ancora un centrodestra a trazione berlusconiana e moderata, mentre l’ipotesi di una alleanza populista gialloverde era del tutto impensabile, il centrosinistra era fortemente condizionato dalla variabile-Renzi, allora nella sua fase di piena ascesa, il M5S era ancora un partito non propenso ad alleanze e non si era ancora “affrancato” dalla tutela di Beppe Grillo, ed era ancora attivo con la sua carica leaderistica Casaleggio sr., ecc.).
Il confronto che ha senso fare, in termini di consultazioni elettorali di livello nazionale, è quello relativo alle elezioni politiche di un anno fa, il cui quadro di riferimento è ben più omogeneo di quello attuale. Quello che segue è uno schema semplificato del flusso dei voti, che non tiene conto di compensazioni intermedie, ma solo di flussi netti. E’ una rappresentazione più schematica della realtà, ma di fatto prende in considerazione i movimenti più rilevanti, che sono quindi verosimili.

Schema di flusso del voto europeo – differenze rispetto al voto di marzo 2018 e flussi di voto  (dati in milioni)


Come è possibile constatare, Lega e Fratelli d’Italia prendono, complessivamente, 3,8 milioni di voti in più rispetto al 2018. Essendo poco plausibile che vi siano significativi flussi in ingresso dal Pd, da + Europa o dai piccoli partiti di sinistra ed essendo cresciuto l’astensionismo rispetto alle politiche, tale guadagno non può che derivare in larga misura dai voti provenienti da Forza Italia (che rispetto al 2018 registra 2,3 milioni di voti in meno). Altri 0,1 milioni di voti possono provenire dalla contrazione elettorale dei partitini di estrema destra (Casa Pound, Forza Nuova) di equivalente entità. Per differenza, l’afflusso di voti provenienti dal M5S è, al massimo, pari a 1,4 milioni. I voti sottratti al M5S da Salvini (ed in misura minore dalla Meloni) sono, quindi, pari al 37% del guadagno elettorale complessivo. Il grosso del guadagno proviene, quindi, dal ricircolo di voti interni al circuito della destra.
Di riflesso, il M5S perde 6,2 milioni di voti. Se, di questi, 1,4 va alla Lega (o in piccola parte a FdI) e se tutti gli altri partiti perdono elettori, evidentemente i restanti 4,8 milioni di voti persi sono andati ad alimentare l’astensionismo che, infatti, è cresciuto soprattutto nelle regioni meridionali che costituiscono lo zoccolo duro elettorale del MoVimento. Detto in altri termini, soltanto il 22-23% dei consensi bruciati dal M5S è attribuibile ad un “furto” elettorale di  Salvini, mentre circa il 78% della perdita è dovuta alla disaffezione di un elettorato “swinging”, che oscilla fra astensione e partecipazione, un elettorato fondamentalmente poco politicizzato, che esprime posizioni di protesta ed anti-sistemiche di tipo radicale tanto quanto confuso, che a seconda dei casi si manifestano in un astensionismo di contestazione complessiva al sistema o in un voto, comunque scarsamente fidelizzato e molto “diffidente”, a partiti che di volta in volta si presentano come antisistemici. Tale elettorato, raccolto dal M5S nella fase in cui era all’opposizione e strillava “vaffa” nelle piazze, si è ovviamente volatilizzato nel momento in cui il MoVimento si è assunto una responsabilità di governo, ed ha quindi abbandonato la fase di contestazione al sistema per lavorare all’interno dello stesso, essendo quindi costretto a fare le necessarie mediazioni sui suoi cavalli di battaglia storici (TAV, TAP, Ilva di Taranto, posizioni rispetto all’euro-austerità, ecc.). E’ ovvio che, nel momento in cui diventi “istituzionale”, tale elettorato torna nella giungla.
Anche rispetto alla quota minoritaria sottratta dalla Lega, essa è stata sottratta essenzialmente perché detti elettori non hanno più trovato una sufficiente coerenza delle posizioni del M5S con i temi del contrasto all’immigrazione e all’austerity. E’ nelle posizioni di Fico e della sinistra interna al MoVimento che vanno ricercate le ragioni della perdita di voti verso Salvini. La sovrapponibilità degli elettori della Lega e del  M5S è solo parziale, l’attacco furibondo a Salvini non aveva alcun senso, dal punto di vista elettorale, non vi è nemmeno una maggioranza silenziosa giustizialista che avrebbe ricompensato Di Maio per lo scalpo fatto al povero Siri, perché l’elettorato italiano non è giustizialista. Nemmeno all’epoca di Tangentopoli la maggioranza silenziosa lo era. Tangentopoli fu un teatrino allestito da una minoranza rumorosa, mentre la maggioranza silenziosa, lentamente, si spostava sotto l’ala di Berlusconi.
Un Berlusconi che oramai è in evidente caduta libera, in un anno perde 2,25 milioni di voti, e non solo, e non tanto, perché l’inevitabile declino fisico ne offusca l’immagine di leader, o per l’assoluta inconsistenza politica dei colonnelli a cui si è dovuto affidare nel momento in cui la Severino lo ha allontanato dai palazzi del potere. Ma per un male molto più profondo: la lunga crisi economica ha polarizzato la società italiana, ampi settori di piccola borghesia, i mitici “moderati” di provenienza pentapartitica sui quali il Cavaliere ha costruito le sue fortune, si sono impoveriti, o hanno paura di impoverirsi, o si accorgono di non poter più garantire un futuro spianato ai propri figli, e non ne vogliono più sapere di una politica sostanzialmente accomodante, centrista ed europeista.
Il Pd, dal canto suo, sembra un allegro ragazzo morto. Canta a squarciagola di aver vinto le elezioni, ma non contabilizza gli 80.000 voti persi rispetto a marzo 2018 (finiti quasi sicuramente anch’essi nell’astensionismo), con un elettorato sceso a 6,084 milioni, il più basso di tutti i tempi. La percentuale risale al 22%, dal 19% del 2018, soltanto in ragione del maggiore astensionismo, che riduce la base di elettori. Non solo riduce la base elettorale, ma mostra evidenti segnali di non riuscire più a rappresentare un polo aggregante di coalizioni politiche ampie, come ai tempi del centrosinistra con o senza trattini: ciò che resta della sinistra lo ha abbandonato, ed il centro dello schieramento politico non esiste più. Nella deriva sociale del Paese, rimane un partito sempre più piccolo e settario, incapace di rispondere alla sua vocazione originaria di forza interclassista in grado di rappresentare un punto di riferimento generale per gli equilibri dell’intera società, ed abbarbicato ai pochi settori sociali che sono sopravvissuti alla crisi, ed a residui di nostalgia per un tempo che non esiste più.
Fra i naufraghi nel mare della nostalgia, poi, fluttua ciò che resta della sinistra italiana, suddivisa fra tante sigle che, messe insieme, non valgono più del 5-6%. Gente che si ostina a non capire che le masse che si illude di poter difendere sono oramai fuggite verso altri lidi, alla ricerca di protezione da minacce globali ingovernabili, che non sono gestibili con presunti solidarismi antirazzisti, né con internazionalismi di classe del tutto teorici, ma solo con un’alleanza trasversale con i ceti medi e la piccola borghesia a capitale endogeno nel nome della difesa dell’identità nazionale e della riscoperta del patriottismo e dello statalismo. Anche nelle poche isole felici di questa sinistra allo sbando, che vagamente si rendono conto di come stanno le cose, persistono un inopinato orgoglio identitario e un solipsismo aristocratico che impediscono di cercare un accordo politico con i populismi, continuando  rifugiarsi dietro la coperta di Linus di antichi stracci rossi e di un rifiuto identitario a mescolarsi con padane genti associate ai rozzi barbari. Sembrano gli ultimi patrizi romani che suonano l’arpa mentre i guerrieri di Odoacre bruciano la città, incapaci di rendersi conto che la nuova civiltà che nascerà dalle rovine di Roma e che farà rifiorire l’Europa viene portata sulle lance e sugli scudi di quei puzzolenti e truci barbari. Magra consolazione: il problema riguarda l’intera sinistra occidentale. La Linke vale anch’essa il 5-6%, Mélenchon poco di più, Corbyn è oramai un morto che cammina, nel momento in cui si è opposto alla Brexit per far contenti i settori reazionari del suo partito, Podemos sembra al capolinea.
Ed infine Salvini. Salvini che rappresenta il 34% dell’elettorato italiano. Salvini nel quale hanno riposto le loro speranze più di 9 milioni di italiani. Salvini che adesso non guida più un partitino prealpino di allevatori di mucche alle prese con le quote-latte, artigiani e commercianti in rivolta fiscale, romantici professori che sognano il Sole che spunta dalle montagne della Padania liberata dall’invasor. Guida un partito nazionale, dentro il quale ci sono impiegati e tecnici, precari, disoccupati, casalinghe, operai che temono di perdere il posto di lavoro, piccoli imprenditori e lavoratori autonomi, pensionati al minimo. Gente che non può essere accontentata soltanto con rimedi lafferiani sul versante fiscale, come ai bei tempi del Cavaliere. Gente che ha bisogno di ospedali e scuole pubbliche, di sostegni al reddito e politiche di reinserimento lavorativo, di case popolari, e, certo, anche di sicurezza e di identità nazionale, e di sconti fiscali, e di contrasto all’immigrazione, e di autonomia regionale, su questo non c’è dubbio e su questo siamo d’accordo. Ma il momento è venuto, caro Salvini, per ricordare che, un tempo, eri un ragazzo di sinistra. Come lo ero io, peraltro.

domenica 19 maggio 2019

Se la Lega vuole diventare veramente un movimento nazionale




Consapevole di essere ripetitivo, farò un ulteriore tentativo per spiegare il mio punto di vista.  Un movimento politico che si vuole populista non cerca di modificare gli assetti sociali esistenti, ma piuttosto, come peraltro bene ha spiegato Salvini, si mette in ascolto e tende a riprodurre la domanda sociale proveniente da tali assetti, dandoli in una certa misura per consolidati.
Ora, una analisi approfondita dei flussi di voto svolta da Ipsos alle politiche del 2018 ed in base ai sondaggi a dicembre del medesimo anno consegnano, per la Lega, un quadro per certi versi sorprendente. La categoria sociale in cui la Lega è più rappresentata non è la piccola borghesia classica, ma il ceto operaio: il partito di Salvini prende circa il 40% del voto operaio, soprattutto nelle aree manifatturiere di tipo distrettuale del Nord che per prime sono ripartite dopo la crisi, sfruttando la combinazione fra flessibilità e economie di scala tipiche delle imprese di medie dimensioni leader di distretto, l’immagine di eccellenza del “made in Italy” e una capacità innovativa, nonostante tutto, ancora radicata: il distretto della calzatura sportiva di Montebelluna, l’occhialeria del Veneto, il distretto dell’automazione della Motor Valley emiliana, le piastrelle di Sassuolo, i mobilieri della Brianza, e così via.
Perché gli operai di tali realtà, sicuramente più dinamiche della media e più rapide a riprendere dopo la crisi, votano Lega? Per due motivi fondamentali. Il primo è che, operando in piccole e medie realtà a gestione padronale, sono meno sindacalizzati, hanno un rapporto osmotico con la proprietà che li ha condotti a ragionare, spesso, più come “piccoli imprenditori” che come proletari nel senso marxiano. Il secondo è che il modello distrettuale italiano, grazie a Monti, Bersani, Renzi e l’allegra combriccola, ed a causa della scarsità della italica borghesia, senza capitali e con poco coraggio, nel momento in cui le tradizionali dinastie di industrialotti sono entrate in declino per motivi anagrafici, è diventato oggetto di shopping industriale da parte di cinesi, francesi, tedeschi, statunitensi. La proprietà straniera dell’azienda è il primo passo per una sua successiva chiusura con un fax non appena la casa-madre individui un Paese dove la produzione è più conveniente, e questo i lavoratori lo sanno benissimo. Ad esempio, la Brianza è una colonia franco-tedesco-cinese[1]. Senza contare i casi, come il distretto di Prato, nei quali il distretto italiano è stato divorato letteralmente da un distretto cinese che lo ha fatto praticamente sparire, sostituendo cinesi ad italiani[2], usando prevalentemente come fattore di competitività l’illegalità, il nero, l’evasione fiscale, il disprezzo delle regole dei CCNL e delle leggi sulla sicurezza del lavoro, e poi ci si stupisce se l’operaio un tempo comunista ed internazionalista oggi è ostile all’immigrazione e punta su un tema tradizionalmente di destra come la sicurezza e la legalità! In altri termini, la globalizzazione stende il suo manto di paura e di regole feroci della competizione sull’operaio dei distretti industriali del Centro-Nord, il cuore del nostro sviluppo. Creando problemi nuovi: non più solidarietà internazionalistica operaia, ma difesa del lavoro italiano. Non più “sbirro maledetto” ma richiesta di sicurezza e legalità.
Questo è il punto su cui un movimento politico come la Lega, che aspira a divenire destra nazionale, deve poter incidere per garantirsi la crescita futura. La crisi economica produce una domanda trasversale ai diversi gruppi sociali, fatta sì da sicurezza e legalità (e su questo la Lega ha avuto successo con il suo messaggio programmatico) ma anche da lavoro e welfare. Ulteriore dimostrazione della centralità del tema lavoristico: le percentuali di consenso più importanti alla Lega si registrano fra le classi di età lavorativa: fra chi ha un’età compresa fra i 35 ed i 64 anni. Non fra gli studenti, che in larga misura si illudono di poter trovare una collocazione vincente sul mercato del lavoro grazie ai loro studi, e quindi non rivolgono una domanda “lavorista” alla politica, né fra i pensionati, specie di fascia medio-alta, che costituiscono il serbatoio di voto del Pd.
E poi, l’altra faccia della crescita della Lega oltre i confini primigeni di movimento rappresentativo della rivolta fiscale della piccola borghesia settentrionale è costituita dalla percentuale di penetrazione nel sottoproletariato urbano: il voto leghista assorbe più del 28% del consenso dei disoccupati e degli inoccupati, il 38% delle casalinghe, il 37% fra chi ha al più la licenza elementare. E’ il grande popolo degli sconfitti, di chi è rimasto strutturalmente indietro e nella maggior parte dei casi non è più recuperabile per un reingresso nel mercato del lavoro, perché il gap di skill lavorativi e di curriculum ed età è troppo ampio.
Tutto questo significa che il mantenimento di questi gruppi elettorali, che sono fondamentali per il successo finale della Lega e pesano di più rispetto alla medio-piccola borghesia di tradizionale insediamento della destra italiana (i liberi professionisti e dirigenti e i commercianti, artigiani ed autonomi che votano Lega sono meno del 30% del totale) dipende dalla capacità di parlare di politiche economiche, del lavoro e sociali. Non è più sufficiente la sola proposta fiscale incentrata sulla flat tax: essa ha impatto soprattutto su quel ceto medio moderato sul quale la proposta politica di Berlusconi ha fatto successo per un ventennio. Ma era un’altra Italia: quel ceto medio moderato è in larga misura sprofondato nella crisi, o ha mutato strutturalmente modo di produzione, subendo fenomeni di precarizzazione, e di conseguenza ha una diversa visione politica. Secondo l’Istat (Rapporto Annuale 2017) tale gruppo sociale è pari ad appena il 20% del totale delle famiglie nel 2015, ed è certamente molto meno stabile e sereno di quello pre-crisi.

I risultati dell'indagine Ipsos


In aggiunta alla flat tax, serve una proposta di politica industriale anche innervata di elementi di protezionismo, che sfidi i Trattati Europei sul divieto di fare politiche settoriali e di erogare aiuti di Stato, che recuperi il recuperabile di Industria 4.0 ritarandolo sulle esigenze tecnologiche più attualizzate delle imprese, e che si sposti verso un incentivo al brevetto, cioè all’innovazione di prodotto, anziché al processo, ovvero all’acquisto di macchinari innovativi per la produzione.
E serve una politica sociale che, oltre al giusto e sacrosanto principio per cui l’accesso ad ogni prestazione socio-sanitaria sia riservato prioritariamente agli italiani, investa per creare più alloggi popolari, più ambulatori, più servizi contro le dipendenze, smantellando quel sistema di corruttele pubblico-private costituito dalle cooperative sociali e case-famiglia rosse e bianche, recuperando al pubblico anche un ruolo gestionale, oltre che meramente programmatorio, finanziario e di controllo.
Più in generale, serve un nuovo Patto sociale che rimetta lo Stato al centro della sovranità delle politiche, e ciò necessariamente implica il coinvolgimento generale della società dentro tale Patto. Le risorse si prenderanno aumentando il deficit oltre il mantra assurdo del 3% e recuperando risorse dall’evasione fiscale con metodi civili (fra i quali certamente la flat tax, che disincentiva l’evasione) e non con metodi deduttivi come gli studi di settore.

lunedì 6 maggio 2019

Il programma elettorale del Pd per Livorno: analisi critica



Iniziamo una breve carrellata di articoli di analisi dei programmi elettorali dei diversi schieramenti per il Comune di Livorno. Per ordine di presentazione, avviamo l’analisi dal programma di Luca Salvetti, candidato sindaco per il Pd, Articolo 1 e il movimento di Raspanti e Cepparello (i due che con Buongiorno Livorno nel 2014 fecero dichiaratamente la guerra al Pd, fino ad offrire appoggio elettorale al M5S al ballottaggio, e che adesso, deposte le armi, sono confluiti dentro il Pd).
Iniziamo con il dire che non si tratta di un programma elettorale, ma di una dichiarazione di intenti. Si limita infatti ad elencare, in modo peraltro confuso e poco leggibile, una serie di buoni propositi, senza indicare le priorità, le fonti finanziarie e gli strumenti programmatici con i quali si intendono realizzare i buoni propositi.
In materia di sviluppo economico, che poi è il cuore del tragico declino di Livorno, si ripropongono, citandoli, i progetti già in atto, come la Darsena Europa e la crocieristica. Date come apoditticamente in grado di rilanciare le sorti del porto, senza nessuna analisi delle reali prospettive future del traffico container (per il quale Darsena Europa è stata concepita) posto che, nella recente missione d’affari precedente la stipula degli accordi commerciali per la Nuova via della Seta, i cinesi hanno chiaramente espresso la loro preferenza per gli scali di Genova e La Spezia, e che non si fornisce, nemmeno a grandi linee, un progetto di massima sul radicamento in città del turismo crocieristico, che rischia di essere di mero passaggio verso altre mete della Toscana. Persino il fantomatico progetto di creazione di una sorta di metropolitana di superficie che parta dalla ex stazione FFSS di San Marco per collegare Pisa (ma chi lo paga un simile progetto? Esiste nel PON Trasporti ed Infrastrutture? E’ stato negoziato nella ripartizione del Fondo Sviluppo e Coesione? E’ missione ed interesse di Trenitalia entrare nel mercato delle metropolitane urbane?) sembra idoneo a far fuggire verso altre destinazioni i crocieristi appena sbarcati, anziché cercare di trattenerli fos’anche qualche ora in città per fare qualche spesa.
Sull’industria, considerando che Livorno è pur sempre una città industriale, seppur in profonda crisi da deindustrializzazione, non si spende un rigo, tranne che per l’idea di convertire la raffineria di Stagno in una bioraffineria, di per sé anche buona, a Porto Marghera ed a Gela ha funzionato, ma non si sa se tale idea sia stata minimamente approfondita con il proprietario dell’impianto, ovvero con l’ENI, o se sia tutta da verificare. Bene anche l’idea di un censimento delle aree industriali disponibili, è dagli anni Novanta che se ne parla, ma per fare attrazione di investimenti serve la capacità di allestire pacchetti localizzativi, partendo da un’idea evolutiva delle vocazioni produttive esistenti, incrociandola con la domanda di IDE, e per farlo serve una competenza di politica industriale che, obiettivamente, da quando Spil è diventata un gestore di parcheggi, il Comune non ha più, e non si capisce come potrebbe ricostruirla.
Ricorre, perché è trendy, l’idea del Centro Commerciale Naturale, che il Pd vorrebbe insediare dentro il Pentagono, e che, in fondo, sembra essere poco più dell’evoluzione del mercatino già esistente a piazza Garibaldi e del piccolo commercio limitrofo. Purtroppo, anche se non si dice esplicitamente, la questione sembrerebbe anche collegarsi con la proposta di “aree pedonali” nel centro, non si dice bene dove. Trasformare in area pedonale il Pentagono significherebbe spaccare in due la città, distruggendo ogni forma di mobilità.
Taccio per carità di Patria sull’idea di un “CNEL livornese”. La cosa si commenta da sola. Siamo al ritorno delle vecchie pratiche deleterie di concertazione permanente, con soggetti sindacali, peraltro, sempre meno rappresentativi del mondo del lavoro reale.
La parte sulle politiche socio-sanitarie ha alcuni aspetti di involontario umorismo, come quando si afferma che si vuole fare contrasto alla povertà aumentando le assunzioni nei servizi sociali (allora ditelo esplicitamente che sono parassiti) o temi banali, o addirittura che si dubita possano essere di competenza del Comune.
La proposta di riduzione degli oneri concessori che Casalp paga ai soci pubblici, al fine di liberare risorse per la manutenzione straordinaria di alloggi popolari sfitti, è una buona idea, se non fosse che è già stata ampiamente sperimentata nella consiliatura attuale, ed ovviamente, trattandosi di un introito per il bilancio comunale, non potrà essere ridotto più di tanto, e tanto meno “azzerato”, come dice il documento. Nessuno pensa di accedere ai Fondi governativi (seppur oggettivamente molto ridotti) per l’edilizia popolare, o ai fondi per il social housing che CCDDPP mette a disposizione degli enti locali, per evitare di far gravare sul bilancio comunale il peso dei necessari interventi.
Le proposte sulla sicurezza sono fatte della stessa materia con cui sono fatti i sogni. Ci si trova di fronte a quartieri il cui livello di degrado sociale ha raggiunto limiti tali da rendere impensabile una “gentle suasion”, ed a richiedere itnerventi energici. Affermare che occorrono “interventi atti a favorire una cittadinanza attiva, la consapevolezza dell’appartenenza al territorio urbano e lo sviluppo della vita collettiva. L’accesso ai diritti contribuisce a facilitare il diritto alla sicurezza” è, ovviamente, pura demagogia. E’ con la militarizzazione ed il pugno duro che si combatte il degrado estremo in ambito urbano, non con “l’insediamento di associazioni e gruppi di volontariato nei quartieri più difficili, in modo da mettere in moto buone pratiche di comunità” o  la valorizzazione degli spazi per le arti e la circolazione di idee e cultura”. E’ con una lotta molto severa al degrado urbano, alla sporcizia, al vandalismo ed agli atti di deturpazione che si crea sicurezza. E non lo dico io, lo dice la migliore teoria criminologica esistente (cfr. l cosiddetta “teoria della finestra rotta”, di Wilson e Kelling).
Poi ci sono gli evergreen, ovvero i progetti che ricicciano fuori da anni: la cittadella dello Sport (personalmente fornii questa idea all’allora candidato Ruggeri nel 2014, ho ancora la mail lì a dimostrarlo) e l’ospedale, senza però fornire dettagli su come si intende procedere, con quali partner, con quali soldi, con quale progettualità.
Non si spende una parola sulla riorganizzazione e riqualificazione della macchina amministrativa comunale e delle sue partecipazioni ed in-house, molto grillescamente affidandosi alla consueta partecipazione dal basso dei cittadini, tramite comitati e varie forme di sussidiarietà, senza però dire che tale mobilitazione non produce niente, se non viene sintetizzata e riportata dentro una pianificazione che solo l’ente è in grado di realizzare (è in fondo il limite della proposta pentastellata).
Anche la parte sui trasporti è generica, intrisa di slogan buoni per tutte le stagioni (sostenibilità, integrazione, visione strategica, inserimento del PUMS nella programmazione di area vasta) ma non fornisce una idea di quali scelte si faranno.
Si chiude il tutto con il solito buonismo di sinistra: iscrizioni anagrafiche free per tutti i richiedenti asilo, per i “figli delle coppie omosessuali” (quindi la Livorno di Salvetti sarà genderizzata), pari opportunità per tutti, indipendentemente da nazionalità, passaporto, orientamento sessuale (olé), se gli puzzano i piedi o meno, purché non ci siano “cittadini di serie B”. In questa collezione di stereotipi mirati allo sradicamento identitario mi stupisce che manchi la frase “nessuno resti indietro”, evidentemente hanno scopiazzato male. Ad ogni modo questo castello crolla non appena ci si trova di fronte alle scelte reali: in condizione di vincolo di bilancio, allargare i cordoni del welfare locale a tutti significa, di fatto, limitare i diritti degli italiani e delle famiglie eterosessuali, italiane, normali, quelle che portano il peso del lavoro, del pagamento di tasse e tariffe, quelle che dovrebbero essere in cima alle priorità, non mescolate in un pastone multi-gender e multi-culturale.
Volendo salvare qualcosa, mi sembrano leggermente più realistiche le idee sull’economia circolare, in particolare sul ciclo integrato dei rifiuti (anche se, come al solito, non si capisce bene chi e con quali soldi dovrà realizzare l’impiantistica di riciclaggio dei materiali, che permetterà un graduale spegnimento dell’inceneritore). Così come è positiva l’idea di creare una task force comunale per l’analisi e la partecipazione ai bandi europei (e nazionali, vorrei ricordare agli eroi eponimi dell’europeismo che esiste anche uno Stato che genera progetti e bandi).
Nell’insieme, però, al di là di alcuni aspetti puntuali condivisibili, il documento delinea una modestissima capacità strategica, non fa intravedere una idea-forza di sviluppo, né una idea di come si intende procedere. Emerge l’impressione di una sostanziale volontà di ritorno allo status quo pre-2014, gestendo progetti di derivazione comunitaria, nazionale e regionale già definiti e senza un protagonismo reale del livello locale, producendo notevole fuffa pseudo-solidarista e genderista/alteromondista, dietro la quale continuare ad occultare i problemi reali della città.
Alle prossime per l’analisi degli altri programmi.