Fca è stata
venduta a Psa. Perché di vendita e non di partnership si tratta: Psa esprimerà
l'Amministratore Delegato ed avrà la maggioranza nel Cda. Che si tratti di
vendita e non di fusione paritaria si evince dal fatto che il concambio
azionario si svolge cedendo azioni Fca in cambio di azioni Psa, con un premio di acquisto delle azioni Fca di circa
il 30%. Fca fattura 110 miliardi di euro ed è l’ottavo costruttore mondiale. Psa,
invece, fattura 74 miliardi ed è il nono gruppo mondiale, proprio sotto Fca. Il
più piccolo, dal punto di vista produttivo e commerciale, mangia il più grande,
semplicemente per il motivo che i mercati finanziari quotano maggiormente il
più piccolo rispetto al più grande: infatti, Fca ha una capitalizzazione di
Borsa di circa 18-19 miliardi di euro, inferiore ai 22-23 miliardi di Psa. In pratica,
Psa, che nonostante le minori dimensioni viene valutata come azienda più
redditizia di Fca, per via di migliori asset immateriali (essenzialmente il
buon posizionamento sul mercato delle auto elettriche) ha comprato una azienda
più grande ma di minor valore e prospettive future meno buone, pagando alla
proprietà venditrice un premio di circa il 30% sul valore attuale della sua
quota azionaria.
Tale premio
ricevuto dalla famiglia Elkann e dagli altri azionisti Fca, ed anche questo è
molto significativo, non sarà reinvestito in nuove attività produttive, ma
redistribuito come dividendo straordinario. Questo è un dato estremamente
significativo per delineare alcuni tratti fondamentali del neo-capitalismo: il
capitalista classico, come previsto da Marx, si trasforma in rentier ma, a
differenza delle previsioni marxiane sui lavoratori cooperativi collettivi
associati, essi, assimilabili agli odierni manager, non si sono alleati con le
forze del lavoro, ma hanno stipulato con i capitalisti-rentiers un patto:
rendita garantita ai primi, potere di gestione ai secondi, che diventano spesso
più potenti dei capi di Stato e di governo. Tavares, come Marchionne prima di
lui, chiamerà a raccolta i capi di Governo italiani, che verranno da lui con le
orecchie basse ed il cappello in mano. Alla fine il vero potere economico, e
quindi politico, nel post capitalismo, è dei manager, non dei proprietari del
capitale, che se vogliono continuare a godere i frutti della loro proprietà
devono obbedire agli ordini dei primi.
Ora, evitiamo di piangere scioccamente sull'industria nazionale che se ne va. Fca non è più una impresa nazionale dai tempi di Marchionne: è una impresa multinazionale con sede legale in Olanda. Il punto fondamentale è un altro, ovvero la difesa dei livelli produttivi, occupazionali e della R&S sul nostro territorio. Ed il punto è che questo acquisto, per l'Italia, non fa che accelerare una serie di eventi che sarebbero avvenuti comunque, e che si sarebbero potuti minimizzare con una politica industriale lungimirante, che non c'è stata. L'assicurazione che stabilimenti e posti di lavoro non saranno toccati, nel medio periodo, è una mera sciocchezza. Ma lo è sia per gli stabilimenti italiani che per quelli francesi. I due gruppi operano sugli stessi segmenti di mercato, ovvero quelli più economici, che vanno dall’A (city car) al C (medie). In tali segmenti ci sono delle evidenti sovrapposizioni, perché si tratta di mercati già oggi tendenti alla stagnazione di domanda, soprattutto in Europa: nel periodo gennaio-settembre 2019, le vendite di auto nell’area Efta e Ue sono calate dell’1,6% rispetto al corrispondente periodo del 2018. Tale calo è legato soprattutto ai segmenti A, B e C dove, come detto, i due gruppi hanno le principali sovrapposizioni produttive. Le uniche aree di mercato di non sovrapposizione sono costituite dai fuoristrada e dalle sportive, dove però Psa è assente e Fca è forte, e dove i volumi produttivi, e quindi occupazionali, sono molto meno rilevanti.
Quanto sopra
in termini di segmenti di mercato. In termini geografici, l’unico mercato che
appare, in prospettiva, in forte crescita, è quello asiatico. Fitch prevede
che, nel 2028, il mercato asiatico assorbirà quasi 58 milioni di autoveicoli, a
fronte dei 46 milioni attuali. In base alle previsioni IHS, fra 2018 e 2026, il
mercato automotive crescerà del 26% in Cina, del 45% negli altri mercati
emergenti (quali l’India con i suoi 1,3 miliardi di abitanti, o i quasi 700
milioni di abitanti del Sud Est asiatico) mentre diminuirà dello 0,3% nell’area
del G7, ivi compreso l’ancora ricchissimo mercato statunitense, dove Fca è
forte (e questo è un altro motivo della volontà di Psa di acquistarla), ma dove è in atto una contrazione del credito che sembra associata ad un crescente rischio di
default per prestiti al consumo facili, simile a quello dei subprime del 2007, e dove, paradossalmente, i dazi su acciaio e alluminio decisi
da Trump per difendere l’industria interna rischiano di far lievitare i costi
di produzione dei fabbricanti di automobili negli States.
In un mondo
dove il protezionismo economico è in crescita, in un settore in cui il costo di
trasporto dal sito di produzione a quello di vendita incide, mediamente, per il
5-6% dei costi totali ed il costo della manodopera oscilla fra il 7 ed il 10%, dove
il marketing fa ancora fortemente leva sulla nazionalità di produzione dell’autoveicolo
(in Cina, ad esempio, i consumatori sono molto sensibili alla possibilità di
comprare il “made in China”) conviene trasferire la produzione nei punti di
consumo. Cioè spostarla dalle regioni più sviluppate, dove il mercato non
cresce più, a quelle emergenti, dove cresce. Ora, Psa gli stabilimenti in
Oriente li ha già: quattro siti produttivi in Cina, uno in Iran, diversi altri
in Indocina (Vietnam, Malesia, Indonesia, ecc.) mentre Fca ha una presenza, in
tale continente, molto minore (solo uno stabilimento in India ed un altro in
Cina).
Riassumendo:
sovrapposizione sui segmenti di mercato di massa ed esigenze di spostare la
produzione dal maturo Occidente all’emergente Oriente comporteranno
inevitabilmente perdite produttive ed occupazionali sia in Francia che in
Italia, ed avrebbero comportato tali perdite anche se Fca e Psa avessero
continuato ad agire disgiuntamente, perché sono le forze di mercato a renderlo
inevitabile.
Il problema
di questo accordo è di tipo “distributivo”. I sacrifici produttivi ed
occupazionali richiesti non saranno distribuiti “fifty fifty” fra Italia e Francia.
In Italia saranno maggiori, per diversi motivi: perché il Governo francese
detiene una quota di proprietà della Psa, e la fa valere per difendere gli
interessi nazionali; perché i sindacati francesi sono ben più combattivi di
quelli italiani; perché il gruppo Psa controlla Opel, ed Opel significa
Germania, e la Germania userà tutta la sua forza affinché Opel non sia coinvolta
nelle ristrutturazioni; perché lo switch verso l’auto elettrica favorito dall’accordo, che probabilmente comporterà
una compressione dei progetti di Fca sull’auto ibrida, produrrà una
moria di componentisti (è noto che un veicolo elettrico ha meno componenti di
uno a motore fossile, o di uno ibrido). E’ facile immaginare quali stabilimenti
italiani, nell’ipotesi più ottimistica, sopravvivranno alla falcidie: quelli
che non sono in sovrapposizione con le produzioni Psa, quindi quelli che
producono Suv, fuoristrada e sportive di lusso: Mirafiori, Grugliasco, Modena,
Maranello, Melfi. Per stabilimenti come Cassino, Pomigliano d’Arco, Termoli, insieme
a migliaia di componentisti distribuiti in tutta Italia, la campana suona già. E
stiamo parlando dell’ipotesi più ottimistica. Perché non è detto che alla fine
le Jeep ed i Suv non convenga produrli a Detroit. E dimentichiamoci che la
R&S resti in Italia: se si punterà sull’elettrico, come si evince dall’accordo,
sono i francesi ad essere più avanti nella ricerca. Tutt’al più agli italiani
resterà il contentino dei sistemi di guida autonoma e del Centro Stile, visto
che siamo cialtroni, ma di buon gusto (a differenza dei francesi, che cialtroni
non sono, ma hanno pessimo gusto).
La politica
tutta, dal Governo all’opposizione, che cade dal pero, nascondendosi dietro a
ridicoli proclami di correttezza nel non voler interferire in un accordo fra
privati, ed il sindacato, più preoccupato di combattere un presunto fascismo
che di difendere i lavoratori, non hanno fatto ciò che la politica francese ha
fatto: sapendo che un processo di deindustrializzazione dell’automotive sarebbe
stato inevitabile, la politica ed il sindacato di Francia si sono preoccupati,
da un lato, di entrare nel capitale sociale delle sue aziende, per poter poi
influenzare e ridurre i sacrifici occupazionali (ad esempio boicottando il tentativo
di accordo fra Fca e Renault, giudicato non conveniente per l’interesse
nazionale, e dirigendolo verso un più favorevole accordo con Psa), e dall’altro
di dotarsi di politiche e strumenti operativi di reindustrializzazione e
diversificazione produttiva delle aree che perderanno la presenza dell’automotive
(si pensi all’efficace strumento dei cosiddetti “pôles de compétitivité” a
livello regionale, dei cluster territoriali fra industria e ricerca, incentrati
su aree di declino industriale, sostenuti dal Governo, che in 15 anni hanno
raggiunto l’80% dei risultati di politica industriale prefissati).
Questa è
tutta la differenza fra noi e la Francia, la differenza che spiega perché noi
siamo avvitati in un declino senza fine e la Francia, seppur a fatica, sopravvive.
Loro hanno una classe dirigente antipatica, ma che fa quello per cui è pagata,
ovvero dirigere, cioè prevedere il futuro ed attrezzarsi per affrontarlo. Noi
abbiamo semianalfabeti che fanno i Ministri, saltimbanchi con la colesterolemia
alta in perenne campagna elettorale anziché al lavoro sul loro seggio
parlamentare, leccaculo professionali specializzati nel tenere buono il popolo,
venduti al servizio di potenze straniere, ipocriti cuori teneri preoccupati
delle parolacce sui social e non della disoccupazione e della povertà,
specialisti del bunga-bunga. Un circo dei miracoli, non una classe dirigente.
Loro riescono
a governare l’inevitabile deindustrializzazione dell’automotive preparando il
futuro investendo su nuovi settori produttivi, noi ci avviamo, fra rabbia e disperazione,
verso un futuro che sarà a metà fra il Messico dei narcos e l’Argentina di
Menem. E non siamo vittime di un destino cinico e baro, siamo vittime di noi
stessi.
Nessun commento:
Posta un commento