Pagine

sabato 21 dicembre 2019

Perchè in Francia si protesta e in Italia ci sono le sardine? Alcuni spunti di una riflessione possibile




Perché in Francia un intero popolo protesta da settimane in forma radicale e da noi è sorto un movimento filo-sistemico e narcotico come quello delle Sardine? Perché da loro ci sono i gilets jaunes e da noi no? Credo valga la pena di interrogarsi a fondo su tale dilemma, evitando posizioni facilone, del tipo “quanto sono ganzi i francesi e quanto siamo bischeri noi”.
Senza voler avere la pretesa di una spiegazione esaustiva, propongo alcuni spunti di possibile riflessione. Fondamentalmente, la Francia è diversa dall'Italia, per ragioni strutturali e sovrastrutturali. Dal primo punto di vista, va considerato che è un Paese più giovane: l'età media dei francesi è attorno ai 40 anni, la nostra sui 45. Una popolazione più giovane si ribella più facilmente perché coltiva una speranza di miglioramento, una più anziana si rifugia nella paura e nella rabbia livida, perché ha esaurito il tempo della speranza. I primi si ribellano scendendo in piazza, i secondi votando per partiti che coltivano le paure.
Un altro motivo strutturale risiede nelle caratteristiche delle diseguaglianze sociali dei due Paesi. Se è vero che la diseguaglianza distributiva francese è quantitativamente meno grave di quella italiana (i rispettivi valori dell'indice del Gini applicato al reddito disponibile sono di 28,5 per la Francia e di 33,4 per l'Italia) grazie ad una più diffusiva presenza dello stato sociale, è anche vero che le caratteristiche della diseguaglianza sociale sono, in Francia, particolarmente odiose, con una élite autoreplicantesi tramite la partecipazione ad accademie di eccellenza, come l'ENA o la Sorbona, ed il disagio sociale fisicamente allontanato dai centri delle città, e rinchiuso in banlieues, che più che quartieri popolari assumono una fisionomia di città satelliti, veri e propri ghetti urbani nei quali anche uscire fisicamente è difficile. La condizione urbana italiana è meno “escludente”, anche se, ovviamente, segue la stessa tendenza: in città come Roma, borgate in degrado si affiancano a quartieri residenziali, il quartiere olimpico di case popolari è stretto fra Parioli e Collina Fleming, la Magliana è fisicamente vicina a zone residenziali dell'Eur, e così via. Inoltre, l'amplissima diffusione di economia nera e sommersa, nel nostro Paese, garantisce redditi addizionali invisibili dal punto di vista statistico, e funge, seppur illegalmente, da ammortizzatore sociale.
Fuori dalle città, la differenza del tenore di vita urbano con quello di sistemi agricoli obsoleti, e totalmente mantenuti da un PAC concepita appositamente per il comparto primario francese e di pochi altri Paesi nordici, è evidente. Un sistema agricolo non competitivo come quello francese – a differenza delle aree agricole ad alta competitività di prodotto del Centro-Nord italiano, non a caso serbatoi di voti per la destra leghista - sopravvive a stento (il fenomeno dei suicidi di agricoltori è endemico) grazie alle quote della PAC e a politiche pseudoprotezionistiche, ed è proprio la protesta contadina guidata da figure come José Bové ad aver dato nascita, a fine anni Novanta, all'onda lunga delle contestazioni di piazza francesi. Al dramma delle campagne, si aggiunge quello dei sistemi industriali in declino, come il Nord Est carbonifero del Pas-De-Calais o l'Alsazia o, ancora, il declino delle zone di itticoltura della Bretagna (in Francia fu anche lanciato un gradevolissimo film comico, qualche anno fa, su un benestante e raffinato dirigente pubblico che, dalla sua solare Marsiglia, fu costretto a spostarsi nel grigio Nord in declino).
Sotto il profilo sovrastrutturale, ed in particolare sotto l'aspetto culturale, va preso in considerazione che, come per la storia individuale di ciascuno di noi, anche per gli Stati la storia pregressa, le origini dell'assetto istituzionale esistente, assumono una funzione di miti fondativi, sono le basi dalle quali un popolo tende a non discostarsi mai. La Repubblica francese è nata da una Rivoluzione, sebbene borghese (ma combattuta in piazza dai sanculotti) ed il mito rivoluzionario è fortissimo nella coscienza nazionale, viene riportato nell'inno nazionale, viene santificato nell'educazione scolastica. I francesi hanno la rivoluzione nel sangue, vengono tirati su con l'idea, idea sistemica, repubblicana, che ad uno stato di cose insoddisfacente ci si ribella in piazza. Non solo: ma essendo stata una Rivoluzione di popolo, che ha messo insieme il borghese con il contadino e l'operaio, ha creato un mito unificante dello Stato. Un patriottismo unico, nato da una rivoluzione sociale, per il quale sentirsi comandare a bacchetta da Berlino o Bruxelles è inaccettabile.
Noi italiani, poverini, abbiamo fondato la nostra Repubblica non sugli ideali mazziniani, ben presto dimenticati da una borghesia nazionale tetragona ed ottusa, ma su una guerra civile fra fascisti ed antifascisti che ha abbattuto una monarchia ridicola di montanari ignoranti, non grande come quella francese. Una guerra civile non è una Rivoluzione: divide anziché unire sotto i valori rivoluzionari che diventano di sistema. Una guerra civile che, quindi, anziché produrre un effetto unificante del nostro popolo dentro il riconoscimento di valori nazionali comuni, come avvenuto in Francia, ha prodotto una frattura insanabile. Il sardinismo è soltanto l'ultima manifestazione di un ottuso ed antistorico antifascismo in assenza di fascismo, che altro non è che il sintomo esteriore di una frattura insanabile interna al nostro popolo.
Questo ha avuto effetti politici enormi: in assenza di un riconoscimento mutuo, come avvenuto nel sistema politico francese, la sinistra italiana si è svuotata di contenuti, degradando, via via, verso uno stanco e inattuale mito del partigiano, e, per sfuggire ad un popolo che non sentiva “suo”, si è prima rifugiata nel moralismo berlingueriano, e poi nell'europeismo acritico, visto come cura per un popolo sostanzialmente odiato e disprezzato. La destra italiana, specularmente, anziché seguire le traiettorie di quella francese, che con il poujadismo ha sperimentato per la prima volta una unione di intenti, in ambito democratico, fra proletariato e piccola borghesia, e che con il lepenismo è rimasta fermamente dentro un solco repubblicano, ha assunto tatti difensivistici di fronte all'egemonia culturale dell'antifascismo, divenendo micro-corporativa, territoriale, biecamente e stupidamente anticomunista in assenza di comunismo. Anziché proporre una via nazionale, come il lepenismo, ha proposto una via individuale al godimento, nel berlusconismo, e nel salvinismo che vi si approssima.
La presenza pervasiva della Chiesa in Italia ha fatto il resto, imponendo una dottrina sociale in cui la protesta deve lasciare il posto alla composizione mediata, e per certi versi trasformistica, degli interessi sociali divergenti. Ciò ha inquinato i pozzi della sinistra dopo gli anni Ottanta, quando ne è iniziato il declino elettorale e di consenso, e la tentazione, che ha dato vita all'ulivismo ed al Pd, è stata quella di incorporare il cattolicesimo sociale e dossettiano non su un piano di sussidiarietà e di dialogo, ma di pari dignità rispetto alle cultura socialdemocratica preesistente. La babele dei linguaggi politici della sinistra, derivante da una fusione malriuscita nel Pd, come dice D'Alema, ha generato mostri come il renzismo, una forma bizzarra di populismo centrista che predica l'innovazione non come prospettiva, ma come rottamazione e distruzione del pregresso, in cui sfogare, ovviamente in modo sterile, le energie sociali contestatarie: anziché contestare il sistema, si contestano le Caste politiche precedenti, che assumono il ruolo di agnelli sacrificali. Due birbanti sociali come Casaleggio e Grillo hanno avuto la stessa intuizione, costruendo un movimento falsamente ribelle, che ha contribuito ad assorbire e poi annullare la protesta sociale.
Last but not least, la differenza enorme nel sindacalismo. Il sindacalismo francese è, geneticamente, sin dalla Charte d'Amiens, autonomo dalla politica, e la cinghia di trasmissione fra i sindacati confederali - soprattutto la CGT - e la politica, è stata meno forte e più episodica rispetto all'Italia. Mentre CGIL, CISL e UIL erano impegnate freneticamente a trovare spazi di concertazione politica e di copertura partitica, perdendo di vista la purezza dei loro obiettivi primari di difesa del lavoro, il sindacalismo francese ha avuto meno paura di scendere in piazza, anche contro governi teoricamente “amici” o prossimi, ed ha accettato meno compromessi sulla difesa del lavoro in vista della partecipazione alla concertazione generale del Paese. Ciò spiega perché la CGIL abbia fatto una quindicina di minuti di sciopero contro il Jobs Act e la CGT sia presente da settimane nelle piazze francesi, al cuore di proteste violente ed interminabili.
D'altro canto, la Francia è il Paese europeo con la più bassa adesione ai sindacati, molto meno che in Italia, mentre il sindacalismo di base è più pervasivo. Ciò, da un lato, indebolisce il sindacato, ma dall'altro, in presenza di tutte le condizioni strutturali e sovrastrutturali sopra ricordate, allarga gli spazi per la nascita di movimenti spontanei come i gilets jaunes. Il sindacalismo francese, in altri termini, vive dentro il paradosso fra una maggiore autonomia di movimento nel difendere le ragioni di lavoratori e pensionati, e minori spazi sociali di radicamento. Entrambi i corni di questo paradosso lo spingono ad assumere posizioni più radicali di quelle del sindacalismo italiano.
In conclusione, non pretendo di aver spiegato tutto, o di aver dato un quadro sufficiente, ma credo fortemente che le differenze che ho cercato di tratteggiare siano sufficienti a spiegare perché, in Italia, non nascerà niente di sia pur lontanamente simile a ciò che agita le strade della Francia.



sabato 7 dicembre 2019

Spunti per un possibile socialismo patriottico (che non andrebbe chiamato così)


La sinistra a guida piddina (il resto sono frange legate ad alleanze subalterne con il Pd o irrilevanti in termini di consenso) ha largamente fallito nel tentativo di gestire il Paese, e ne sta amministrando un lento ma inesorabile declino, non riuscendo a proporre una ricetta che gli restituisca prospettiva. Gli italiani scivolano lungo un declivio di disperazione, rassegnazione e rabbia. Un mix molto pericoloso. Il tentativo di rivoluzione giacobina del M5s sta implodendo per incompetenza, moralismo giacobino e governismo ad ogni costo, lasciando senza prospettive elettorali il rilevante consenso raccolto nella sua fase ascendente.
Gli strati popolari, perlopiù provenienti da sinistra, che ora appoggiano la Lega, saranno delusi dall'impostazione liberista che prevale in quel partito, e che sarà rafforzata dalla sua ascesa al governo nei prossimi mesi (perché un conto è abbaiare sovranisticamente all'opposizione, altro conto è stare al governo e gestire un Paese sul bordo del crollo e senza peso in politica estera). Il centrodestra a guida leghista proporrà poco più che un lafferismo fiscale coperto con una riduzione della spesa sociale, oltretutto compresso da vincoli europei che non vorrà, se non a parole, piegare, associato ad un contrasto all'immigrazione mediatico ed incapace di proporre rimedi strutturali, oltre l'infinita lotta nave Ong per nave Ong ed un securitarismo inefficace (è noto che i Paesi più securitari sono anche quelli a maggior incidenza di criminalità violenta). Il tutto condito da un autonomismo regionale strumentale alla perenne rivolta fiscale dei ceti produttivi del Nord, non ad una valorizzazione e responsabilizzazione dei territori. Non potrà fare altro perché questo è ciò che gli chiede la sua base di consenso storica, il suo nucleo vitale, che rimane ancorato ai territori lombardo-veneti, e questo gli consentiranno di fare i vincoli esistenti.
Tutto ciò non farà che allargare le diseguaglianze, ed i ceti popolari delusi non torneranno a votare per una sinistra geneticamente modificata, non avranno lo sfogatoio del M5s, che implodera', non voteranno per qualche proposta di Italexit, che istintivamente temono, ma rifluiranno verso un astensionismo rabbioso e pronto a farsi reclutare in qualche avventurismo sovversivo ed autoritario. Già oggi, ci dice il Censis, la maggior parte degli italiani vorrebbe un “uomo forte”.
Per evitare tale epilogo, servirebbe una proposta programmatica fortemente patriottica, mirata ad una regolazione civile ma rigorosa dell'immigrazione, euro-critica senza esagerazioni da Italexit della serie ci-stampiamo-i-soldi-da-soli-e-ci-autoripaghiamo-il-debito (e per favore posate il fiasco e ricordatevi di Weimar). Meglio pensare ad una battaglia di riconquista di margini di politica fiscale per fare deficit e a margini di politica industriale, sui quali occorre un piano di riconversione produttiva del Paese di medio periodo, basato anche sulle ppss. Tale proposta dovrebbe avere una impronta statalista e keynesiana, basata su un programma di investimenti pubblici nella scuola, nella ricerca, nelle infrastrutture e nella difesa del territorio, ed essere fortemente redistributiva nell'approccio sociale e nel recupero di una politica dei redditi. Si preveda un tasso di crescita dei salari legato alla crescita del Pil, come proponeva, ad esempio, la Uil.
Una simile proposta dovrebbe partire da un presupposto di fondo, ovvero quello che, anche strutturando opportune alleanze euromediterranee con altri Paesi, l'Asse franco-tedesco vada allentato, evidentemente non spezzato, perché ciò è impossibile, ma condotto a fare mediazioni. In primo luogo, nelle politiche industriali, dove il concetto di aiuto di Stato, tipico di una dottrina ordoliberista che pervade i Trattati, va allentato. Di fronte al declino industriale, occorre tornare a poter fare politiche industriali di settore. Inoltre, occorrono maggiori margini di politica fiscale, attraverso margini di maggiore condivisione del rischio, o, se ciò non sarà concesso, la disobbedienza ai Trattati, esattamente come fa la Germania, che viola sistematicamente le regole impunemente. Certo, il nostro peso e la nostra credibilità sui mercati finanziari sono ben diversi, ma sappiamo anche che a nessuno conviene il default sovrano di una economia così grande, con potenzialità sistemiche disastrose.
Detta proposta dovrebbe evitare come la peste ogni richiamo identitario. Niente socialismo, comunismo, socialdemocrazia nel nome e nel simbolo. Niente frasi di Marx, nemmeno di Groucho. L'identitarismo non attrae, se non i pochi nostalgici, ed è un ostacolo in termini di libertà di movimento. Chi si sente parte di quella storia la custodisca nel segreto del proprio cuore. Tale formazione non dovrebbe aver paura di fare specifiche battaglie con la destra, se sono coerenti con la sua proposta programmatica. Dovrebbe essere chiara sui suoi riferimenti sociali, non fare partigianerie fuori tempo massimo rispetto alla collocazione nell'arco partitico, rispetto alla quale dovrebbe muoversi con autonomia e spregiudicatezza, in base ai temi.
Dovrebbe avere una organizzazione radicata nei territori ma al tempo stesso snella, fatta di pochi referenti settoriali a supporto di un coordinatore eletto da una assemblea di rappresentanti dei territori, una leadership comunicativa e fortemente rappresentativa della linea politica, niente cazzate su guida collettiva o collegiale, molta attenzione a gestire la discussione interna senza dare la solita impressione di spaccature interne molto forti, tipica del tafazzismo di sinistra. La comunicazione è fondamentale, al leader serve anche quella empatia nel connettersi ai sentimenti popolari che spesso manca a chi viene da una formazione politica di sinistra. Evidentemente, nessun soggetto che abbia avuto qualsivoglia ruolo decisionale, di militanza o di elaborazione politica ed intellettuale nella sinistra attuale dovrebbe essere imbarcato.
Nessun settarismo né feticismo, l'intellettuale è al servizio del partito, non un idolo da venerare e sbandierare come in trofeo. Il lavoro intellettuale deve servire a dare profondità a quello politico, non confondersi con esso. Nessuno snobismo, si sta fisicamente nei luoghi della sofferenza sociale, si va nei quartieri difficili, si va fra gli operai che temono per il loro lavoro, ci si prendono gli schiaffoni se serve, ma ci si va portando soluzioni, non dicendo che non si hanno. Si tengono i rapporti con le frange combattive del sindacato, anche quelle di base, senza andare dai confederali solo perché sono confederali, ma ci si tiene aperto un canale di dialogo con tutto il mondo del lavoro, confederali compresi.
Si guarda ad un blocco sociale che integri il sottoproletariato urbano, il proletariato industriale meno rappresentato, racchiuso nei circuiti della subfornitura e della monocommittenza, i nuovi lavori ad alto tasso di sfruttamento, dai rider al precariato cognitivo alle finte partite Iva, senza offrire stupide stabilizzazioni a chi non le vuole, ma modelli fiscali e di welfare su misura delle esigenze di queste figure, ivi compreso un salario minimo di dignità per chi è fuori dalla contrattazione collettiva, la piccola borghesia a mercato interno, anche il salumiere.
Si difende la famiglia, cari miei, perché la famiglia non è quel luogo pruriginoso di vizi borghesi e di depravazioni conformiste che la sinistra immagina, è l'ultimo baluardo di una società che vuole difendere le sue radici e la sua solidarietà, prima che la distopia libertaria dei sinistri cultori di un relativismo grottesco spazzi via tutto. E allora si difende la prima casa, nessuno la può pignorare, e si torna a costruire nuove case popolari, per dare una casa a tutti. Si difendono i bambini dagli orchi travestiti da operatori sociali. Si afferma la centralità anche spirituale della famiglia. Si difende la natalità, si dà piena attuazione alla legge sull'aborto, anche laddove prevede interventi di prevenzione. Si opti per un modello che non uccida il nascituro, che gli consenta di nascere ed essere adottato con opportuni incentivi.
Si difendono i rifugiati veri e si offrono percorsi di cittadinanza ai minori abbandonati già residenti da noi, si fanno entrare immigrati dotati di quella professionalità e rettitudine civile e lavorativa che siano utili per la nostra economia, e si combatte ogni forma di sfruttamento lavoristico nei loro confronti, inquadrandoli nei CCNL e nel sistema delle tutele legali: il caporalato e lo sfruttamento degli immigrati preludono allo stesso trattamento che sarà fatto ai lavoratori italiani. Ma si chiudono le frontiere a chi non ha diritto, salvo piccoli flussi aventi professionalità rare e pregiate. Si attuano politiche di respingimento e di rimpatrio rigorose, veloci, massive, umane per quanto possibile. Chi resta da noi va assimilato, l'obiettivo è quello di farne un italiano nel giro di una generazione. Niente multiculturalismo patchwork. Ti accogliamo, sei tu che ti devi adeguare a noi.

Si difendono le caratteristiche garantiste, democratiche, volte al recupero sociale e rispettose della persona e della sua libertà del nostro ordinamento giuridico, senza tentazioni forcaiole, senza giustizialismo. Si garantisca vera indipendenza alla magistratura, proibendone le correnti interne e prevedendo la decadenza in caso di candidatura politica, si ragioni su un divisione delle carriere funzionale a un maggior garantismo, non ad ipotesi punitive. E, mi sia consentito, qualcosa andrebbe fatto, in termini di riforma, sulla giustizia minorile, caratterizzata da un procedimento privo di contraddittorio e di equilibrio fra diritti della difesa e dell'accusa, affidata, in sede di istruttoria dei casi, a servizi sociali sprofessionalizzati o formati su teorie psicosociali e pedagogiche sbagliate, affetta da molteplici conflitti di interesse.