Perché in Francia un
intero popolo protesta da settimane in forma radicale e da noi è
sorto un movimento filo-sistemico e narcotico come quello delle
Sardine? Perché da loro ci sono i gilets jaunes e da noi no? Credo
valga la pena di interrogarsi a fondo su tale dilemma, evitando
posizioni facilone, del tipo “quanto sono ganzi i francesi e quanto
siamo bischeri noi”.
Senza voler avere la
pretesa di una spiegazione esaustiva, propongo alcuni spunti di
possibile riflessione. Fondamentalmente, la Francia è diversa
dall'Italia, per ragioni strutturali e sovrastrutturali. Dal primo
punto di vista, va considerato che è un Paese più giovane: l'età
media dei francesi è attorno ai 40 anni, la nostra sui 45. Una
popolazione più giovane si ribella più facilmente perché coltiva
una speranza di miglioramento, una più anziana si rifugia nella
paura e nella rabbia livida, perché ha esaurito il tempo della
speranza. I primi si ribellano scendendo in piazza, i secondi votando
per partiti che coltivano le paure.
Un altro motivo
strutturale risiede nelle caratteristiche delle diseguaglianze
sociali dei due Paesi. Se è vero che la diseguaglianza distributiva
francese è quantitativamente meno grave di quella italiana (i
rispettivi valori dell'indice del Gini applicato al reddito
disponibile sono di 28,5 per la Francia e di 33,4 per l'Italia)
grazie ad una più diffusiva presenza dello stato sociale, è anche
vero che le caratteristiche della diseguaglianza sociale sono, in
Francia, particolarmente odiose, con una élite autoreplicantesi
tramite la partecipazione ad accademie di eccellenza, come l'ENA o la
Sorbona, ed il disagio sociale fisicamente allontanato dai centri
delle città, e rinchiuso in banlieues, che più che quartieri
popolari assumono una fisionomia di città satelliti, veri e propri
ghetti urbani nei quali anche uscire fisicamente è difficile. La
condizione urbana italiana è meno “escludente”, anche se,
ovviamente, segue la stessa tendenza: in città come Roma, borgate in
degrado si affiancano a quartieri residenziali, il quartiere olimpico
di case popolari è stretto fra Parioli e Collina Fleming, la
Magliana è fisicamente vicina a zone residenziali dell'Eur, e così
via. Inoltre, l'amplissima diffusione di economia nera e sommersa,
nel nostro Paese, garantisce redditi addizionali invisibili dal punto
di vista statistico, e funge, seppur illegalmente, da ammortizzatore
sociale.
Fuori dalle città, la
differenza del tenore di vita urbano con quello di sistemi agricoli
obsoleti, e totalmente mantenuti da un PAC concepita appositamente
per il comparto primario francese e di pochi altri Paesi nordici, è
evidente. Un sistema agricolo non competitivo come quello francese –
a differenza delle aree agricole ad alta competitività di prodotto
del Centro-Nord italiano, non a caso serbatoi di voti per la destra
leghista - sopravvive a stento (il fenomeno dei suicidi di
agricoltori è endemico) grazie alle quote della PAC e a politiche
pseudoprotezionistiche, ed è proprio la protesta contadina guidata
da figure come José Bové ad aver dato nascita, a fine anni Novanta,
all'onda lunga delle contestazioni di piazza francesi. Al dramma
delle campagne, si aggiunge quello dei sistemi industriali in
declino, come il Nord Est carbonifero del Pas-De-Calais o l'Alsazia
o, ancora, il declino delle zone di itticoltura della Bretagna (in
Francia fu anche lanciato un gradevolissimo film comico, qualche anno
fa, su un benestante e raffinato dirigente pubblico che, dalla sua
solare Marsiglia, fu costretto a spostarsi nel grigio Nord in
declino).
Sotto il profilo
sovrastrutturale, ed in particolare sotto l'aspetto culturale, va
preso in considerazione che, come per la storia individuale di
ciascuno di noi, anche per gli Stati la storia pregressa, le origini
dell'assetto istituzionale esistente, assumono una funzione di miti
fondativi, sono le basi dalle quali un popolo tende a non discostarsi
mai. La Repubblica francese è nata da una Rivoluzione, sebbene
borghese (ma combattuta in piazza dai sanculotti) ed il mito
rivoluzionario è fortissimo nella coscienza nazionale, viene
riportato nell'inno nazionale, viene santificato nell'educazione
scolastica. I francesi hanno la rivoluzione nel sangue, vengono
tirati su con l'idea, idea sistemica, repubblicana, che ad uno stato
di cose insoddisfacente ci si ribella in piazza. Non solo: ma essendo
stata una Rivoluzione di popolo, che ha messo insieme il borghese con
il contadino e l'operaio, ha creato un mito unificante dello Stato.
Un patriottismo unico, nato da una rivoluzione sociale, per il quale
sentirsi comandare a bacchetta da Berlino o Bruxelles è
inaccettabile.
Noi italiani, poverini,
abbiamo fondato la nostra Repubblica non sugli ideali mazziniani, ben
presto dimenticati da una borghesia nazionale tetragona ed ottusa, ma
su una guerra civile fra fascisti ed antifascisti che ha abbattuto
una monarchia ridicola di montanari ignoranti, non grande come quella
francese. Una guerra civile non è una Rivoluzione: divide anziché
unire sotto i valori rivoluzionari che diventano di sistema. Una
guerra civile che, quindi, anziché produrre un effetto unificante
del nostro popolo dentro il riconoscimento di valori nazionali
comuni, come avvenuto in Francia, ha prodotto una frattura
insanabile. Il sardinismo è soltanto l'ultima manifestazione di un
ottuso ed antistorico antifascismo in assenza di fascismo, che altro
non è che il sintomo esteriore di una frattura insanabile interna al
nostro popolo.
Questo ha avuto effetti
politici enormi: in assenza di un riconoscimento mutuo, come avvenuto
nel sistema politico francese, la sinistra italiana si è svuotata di
contenuti, degradando, via via, verso uno stanco e inattuale mito del
partigiano, e, per sfuggire ad un popolo che non sentiva “suo”,
si è prima rifugiata nel moralismo berlingueriano, e poi
nell'europeismo acritico, visto come cura per un popolo
sostanzialmente odiato e disprezzato. La destra italiana,
specularmente, anziché seguire le traiettorie di quella francese,
che con il poujadismo ha sperimentato per la prima volta una unione
di intenti, in ambito democratico, fra proletariato e piccola
borghesia, e che con il lepenismo è rimasta fermamente dentro un
solco repubblicano, ha assunto tatti difensivistici di fronte
all'egemonia culturale dell'antifascismo, divenendo
micro-corporativa, territoriale, biecamente e stupidamente
anticomunista in assenza di comunismo. Anziché proporre una via
nazionale, come il lepenismo, ha proposto una via individuale al
godimento, nel berlusconismo, e nel salvinismo che vi si approssima.
La presenza pervasiva
della Chiesa in Italia ha fatto il resto, imponendo una dottrina
sociale in cui la protesta deve lasciare il posto alla composizione
mediata, e per certi versi trasformistica, degli interessi sociali
divergenti. Ciò ha inquinato i pozzi della sinistra dopo gli anni
Ottanta, quando ne è iniziato il declino elettorale e di consenso, e
la tentazione, che ha dato vita all'ulivismo ed al Pd, è stata
quella di incorporare il cattolicesimo sociale e dossettiano non su
un piano di sussidiarietà e di dialogo, ma di pari dignità rispetto
alle cultura socialdemocratica preesistente. La babele dei linguaggi
politici della sinistra, derivante da una fusione malriuscita nel Pd,
come dice D'Alema, ha generato mostri come il renzismo, una forma
bizzarra di populismo centrista che predica l'innovazione non come
prospettiva, ma come rottamazione e distruzione del pregresso, in cui
sfogare, ovviamente in modo sterile, le energie sociali
contestatarie: anziché contestare il sistema, si contestano le Caste
politiche precedenti, che assumono il ruolo di agnelli sacrificali.
Due birbanti sociali come Casaleggio e Grillo hanno avuto la stessa
intuizione, costruendo un movimento falsamente ribelle, che ha
contribuito ad assorbire e poi annullare la protesta sociale.
Last but not least, la
differenza enorme nel sindacalismo. Il sindacalismo francese è,
geneticamente, sin dalla Charte d'Amiens, autonomo dalla politica, e
la cinghia di trasmissione fra i sindacati confederali - soprattutto
la CGT - e la politica, è stata meno forte e più episodica rispetto
all'Italia. Mentre CGIL, CISL e UIL erano impegnate freneticamente a
trovare spazi di concertazione politica e di copertura partitica,
perdendo di vista la purezza dei loro obiettivi primari di difesa del
lavoro, il sindacalismo francese ha avuto meno paura di scendere in
piazza, anche contro governi teoricamente “amici” o prossimi, ed
ha accettato meno compromessi sulla difesa del lavoro in vista della
partecipazione alla concertazione generale del Paese. Ciò spiega
perché la CGIL abbia fatto una quindicina di minuti di sciopero
contro il Jobs Act e la CGT sia presente da settimane nelle piazze
francesi, al cuore di proteste violente ed interminabili.
D'altro canto, la Francia
è il Paese europeo con la più bassa adesione ai sindacati, molto
meno che in Italia, mentre il sindacalismo di base è più pervasivo.
Ciò, da un lato, indebolisce il sindacato, ma dall'altro, in
presenza di tutte le condizioni strutturali e sovrastrutturali sopra
ricordate, allarga gli spazi per la nascita di movimenti spontanei
come i gilets jaunes. Il sindacalismo francese, in altri termini,
vive dentro il paradosso fra una maggiore autonomia di movimento nel
difendere le ragioni di lavoratori e pensionati, e minori spazi
sociali di radicamento. Entrambi i corni di questo paradosso lo
spingono ad assumere posizioni più radicali di quelle del
sindacalismo italiano.
In conclusione, non
pretendo di aver spiegato tutto, o di aver dato un quadro
sufficiente, ma credo fortemente che le differenze che ho cercato di
tratteggiare siano sufficienti a spiegare perché, in Italia, non
nascerà niente di sia pur lontanamente simile a ciò che agita le
strade della Francia.
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