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mercoledì 25 marzo 2015

La guerra di camorra in atto a Napoli Est





Ha fatto molto scalpore, nella stampa, l’ennesimo episodio della guerra di camorra che si sta verificando nella periferia est di Napoli, con la diffusione dei video fatti dai carabinieri nell’ambito dell’indagine che ha portato a 63 arresti per  tentato omicidio, sequestro di persona, porto e detenzione di armi da sparo, tutto aggravato dal metodo mafioso, in cui si vedono sparatorie in mezzo al rione Conocal di Ponticelli. Evidentemente, l’assenza di una struttura organizzativa piramidale (come quella che, a quanto pare, si è data recentemente la ‘Ndrangheta) dopo la grande guerra di camorra fra cutoliani e Nuova Famiglia degli anni passati, e la conseguente anarchia dei clan camorristici, soprattutto nel napoletano (dove, a differenza del casertano, non vi è un clan egemone che in qualche modo impone la sua legge agli altri) porta naturalmente a questa estrema e manifesta violenza di strada durante le guerre per la spartizione del territorio (nel caso di specie, soprattutto per la divisione delle piazze di spaccio dello stupefacente fra clan rivali).
Cerchiamo, quindi, di collocare quanto sta avvenendo in questi giorni nella periferia napoletana, individuando luoghi, protagonisti e conflitti in atto. Iniziando dal luogo: il rione Conocal nasce immediatamente dopo il terremoto del 1980, finanziato dalla legge di ricostruzione (la 219/1981), come espansione edilizia del famigerato quartiere de Gasperi, sede di molti dei gruppi camorristici napoletani più famosi , come quello dei Sarno. Si tratta di un quartiere di edilizia popolare di cattiva qualità, con indici di popolamento eccessivi, caratterizzato da forte degrado urbanistico, dove peraltro le problematiche dell’amianto non sono ancora del tutto risolte, che, negli anni Ottanta, ha accolto gli sfollati del terremoto provenienti da altri quartieri della città. Un insieme di alveari edilizi mal costruiti, senza servizi, di fatto uno dei tanti snodi della speculazione edilizia degli anni Ottanta, che ha creato problemi di convivenza e qualità della vita legati all’eccessiva densità abitativa privata di adeguati spazi verdi e di socializzazione, accentuati dal senso di sradicamento di molti abitanti, provenienti da altre zone della città e che ha finito per creare una sensazione diffusa di ghettizzazione , con tutte le conseguenze in termini di emarginazione sociale e senso di abbandono da parte delle istituzioni che tale sensazione genera. Oltretutto, per un tragico errore urbanistico, tale rione viene costruito proprio a ridosso di un’area a fortissima densità camorristica, facendo finire gli abitanti del rione in pasto alla camorra. Non a caso, uno dei primi business che il capostipite dei Sarno, Ciro, mette in campo con i nuovi arrivati dopo il terremoto, è l’assegnazione illegale degli alloggi popolari, a danno dei legittimi proprietari. E non è un caso: con l’amministrazione delle case occupate illegalmente, Ciro Sarno guadagnerà il rispetto dei residenti, e spesso la loro gratitudine, fino ad acquisire il soprannome di ’o Sindaco, realizzando quel radicamento sociale che ogni sistema mafioso ricerca (per vari motivi, il principale dei quali è che in questo modo il clan acquisisce pacchetti di consenso utilizzabili per negoziare favori con la politica, tramite il voto di scambio. Infatti, dopo il suo pentimento, Ciro Sarno racconterà dei rapporti intrattenuti con la Dc napoletana). 

Rione Conocal


Inevitabilmente, le scelte urbanistiche ed edilizie facilitano il radicamento criminale. Conocal è di fatto, oggi, uno degli epicentri della criminalità partenopea. Ed è una delle zone più calde dei conflitti camorristici. In particolare, è in atto una guerra che deriva, in parte, dalla destrutturazione di alcuni clan tradizionalmente dominanti nell’area est (ovvero i Sarno e i Cuccaro/Aprea, questi ultimi radicati nel “Lotto Zero”, quartiere confinante a Conocal) colpiti dalle indagini e dai processi, ed in parte dal ridimensionamento dello spaccio di stupefacente nei quartieri settentrionali, che porta ad uno spostamento delle piazze di spaccio in quelli orientali, creando inevitabili tensioni con chi è già insediato in tali aree.
In particolare, il clan Sarno, destrutturato dall’ondata di arresti del 2008-2009 e dal pentimento del patriarca Ciro,  sembra aver finito di consumarsi nel tentativo di scalzare il potente clan Mazzarella, suo ex alleato ai tempi del cartello fra i clan Mazzarella/Sarno/Misso. I Mazzarella, dunque, usciti vincitori dalla guerra con ciò che restava dei Sarno, sebbene indeboliti, sono oggi ancora dominanti a San Giovanni a Teduccio. Hanno inoltre sottoposto al loro controllo il clan dei D’Amico, che un tempo operava come gruppo di fuoco al servizio dei Sarno, e che con la fine di questi ultimi ha cambiato padrone.
Il clan D’Amico è quindi da sempre un gruppo di affiliati, che ha sfruttato le sue capacità militari come gruppo di fuoco al servizio di clan sovraordinati, ed è capeggiato da Antonio, detto “Fravulella” (fragolina), che però è un tipo tutt’altro che dolce: viene arrestato nel 2009 per omicidio ed associazione a delinquere di stampo mafioso ed è considerato alleato al clan dei Ricci (è zio di Marco Ricci) che opera nei quartieri spagnoli (e dunque in centro). La crescita di importanza, sia pur come affiliato ai Mazzarella, di “Fravulella”, deriva dalla guerra in atto nei quartieri orientali, ed è testimoniata da 4 arrestati che portano il tatuaggio di Fravulella sul petto, e che quindi sono, presuntamente, suoi soldati. Il tatuaggio ha un significato simbolico molto potente per i camorristi, che può grosso modo tradursi in “mi ti porto addosso, sulla pelle”, cioè in una testimonianza di fedeltà assoluta, “fisica”, nei confronti del bosso che ti “marchia” sul corpo il suo nome. 

Uno degli arrestati con il tatuaggio di Fravulella



 Ed un arrestato del clan di "Bodo", il cui tatuaggio, oltre che il soprannome del boss, riporta le parole "rispetto, fedeltà, onore" che sanciscono il vincolo associativo di obbedienza al capo




Il clan D’Amico deve quindi difendersi, anche per conto dei Mazzarella che gli sono sovraordinati, dall’aggressività di un clan emergente, quello dei De Micco, anch’esso operante nella zona est (in determinate aree di Ponticelli) che, molto ben armato, operante nelle estorsioni e nella droga, sfrutta la sua alleanza con il clan Amodio/Abrunzio per occupare le zone del clan Cuccaro/Aprea, in declino, e per aprirsi la strada verso le piazze di spaccio nel quartiere Conocal (il clan Amodio/Abrunzio deriva proprio da elementi del gruppo Cuccaro). Il suo boss, Marco De Micco, soprannominato “Bodo” (un personaggio dei cartoni animati) è giovane e molto aggressivo, ed è attualmente detenuto in Lombardia per una condanna in primo grado a due anni e otto mesi di reclusione per tentata estorsione aggravata dalla matrice camorristica.
Il conflitto ha radici più antiche. Nel 2013, inizia una scia di sangue, e ciò può essere considerato come il primo atto della guerra culminata con gli arresti sopra descritti.  Il primo omicidio è avvenuto a San Giovanni a Teduccio il 12 gennaio 2013. La vittima, ventiquattro anni, e incensurata. Pochi giorni dopo, vengono colpiti due giovani, di 20 e 18 anni, quest’ultimo  nipote di Teresa De Luca Bossa, appartenente all’omonimo clan (un clan scissionista dei Sarno, a lungo impegnato in una sanguinosa faida con questi, anch’esso operante su Ponticelli, oltre che a Pianura). La violenza sale di livello quando ad ottobre 2013 viene ucciso un membro di spicco del clan Cuccaro, e l’8 aprile 2014 viene colpito un capo del gruppo Amodio/Abrunzio. Questi due omicidi possono essere infatti letti come tentativi di frenare l’espansione del sodalizio De Micco/Amodio/Abrunzio. 
 Cosa succederà ora? Difficile dirlo. L’ondata di arresti, secondo la stampa, avrebbe disarticolato sia i D’Amico che i De Micco. L’esperienza dimostra che la galassia camorrista è sempre pronta ad occupare gli spazi lasciati liberi da chi cade in disgrazia. Quindi, si aprono spazi per l’espansione di nuovi gruppi. Forse i De Luca Bossa, che dopo una fase di declino sembrano essersi alleati con il boss di Pianura, ovvero Giuseppe Marfella detto ‘o Percuoco? O forse altri clan affiliati ai Mazzarella, come i Formicola/Silenzio, potrebbero allargare la loro attività, sostituendo gli alleati D’Amico in rovina? E’ evidentemente troppo presto per dirlo. Ciò che invece non è affatto prematuro è prevedere una nuova fase di omicidi e sangue nelle strade di Conocal e di Ponticelli, per occupare gli spazi liberi. Occorrerà quindi grande attenzione da parte delle forze dell’ordine nei prossimi mesi.

sabato 14 marzo 2015

Mafia Capitale, seconda parte: organizzazione e finalità







Questa è la seconda parte della descrizione di Mafia Capitale, come emerge dalle risultanze investigative e dall’ordinanza cautelare del magistrato inquirente. Dopo averne descritto la genesi, nell’articolo precedente, in questa sede si approfondiscono le caratteristiche operative e le finalità.

1) I diversi strati dell’organizzazione , le sue caratteristiche generali e le sue finalità: l’agenzia di servizi e l’intermediazione fra i mondi

1.1) La leadership
Il magistrato inquirente individua almeno tre livelli di attività:
  • Il livello criminale vero e proprio,
  • Il livello economico,
  • Il livello della pubblica amministrazione e politico.
Tutti questi livelli sono in qualche modo isolati l’uno dall’altro, con l’unico trait d’union della guida, ovvero di Massimo Carminati, personaggio già conosciuto e descritto nella prima parte di questo lavoro. Il suo ruolo di comando emerge con chiarezza nelle intercettazioni, sia nel modo in cui gli altri componenti del sodalizio si rivolgono a lui, sia per il modo, chiaramente caratterizzato dalla volontà del capo di un gruppo criminale di imporre rispetto e timore sugli altri, con cui spesso Carminati stesso si rivolge agli altri. Ad esempio, in una intercettazione se la prende con il sodale Giovanni Lacopo, il gestore del benzinaio di corso Francia presso il quale i membri dell’organizzazione si incontrano, reo di aver un esattore dell’organizzazione, Matteo Calvio, per finalità personali (per farsi dare da tale Manattini dei soldi prestatigli dal padre di Lacopo stesso). Carminati, imbestialito per questo utilizzo “personale” e non concordato con lui di una risorsa dell’organizzazione, dirà infatti “al nano (riferendosi a Lacopo)...mo' come arriva come passa prendo il primo oggetto contundente che trovo ..mo' ne faccio trovare uno […] ti ammazzo come un cane![…]
E’ Carminati ad avere l’ultima parola nelle decisioni strategiche e nel disegno delle attività del gruppo. A puro titolo di esempio, in una intercettazione Carminati spiega il metodo che l’organizzazione deve avere nell’approcciare un imprenditore al suo braccio destro, Riccardo Brugia. Dice infatti: “noi dobbiamo andare dritto per le cose... cioè questi devono essere nostri esecutori... devono lavorare per noi.. non si può più fare come una volta…che noi arriviamo dopo facciamo i recuperi… e allora senti lo sai che c’è?... “i recuperi… vatteli a fa da solo”… a noi non ci interessa più... te lo dico..perchè poi.. a fa' i recuperi si fa 'na guerra con quelli che l’hanno solato? …ma perché? ..la gente ruba… e noi ci mettiamo a fare i recuperi… non siamo più gente che potemo fa una cosa del genere…pe’ du lire”. O ancora, quando istruisce i componenti del livello criminale dell’organizzazione su come si fa ad acquisire il controllo di un imprenditore: “..nella strada… glielo devi dire… aaa come ti chiami?... comandiamo sempre noi.... non comanderà mai uno come te nella strada.. nella strada tu c’avrai sempre bisogno di noi”. Ed il suo ruolo primario emerge anche quando deve “punire” un componente del sodalizio per un comportamento sbagliato, come quando intima a Lacopo, in modo sbrigativo, di pagare Calvio per un recupero crediti non andato a buon fine per colpa di Lacopo stesso. Dirà infatti Calvio alla sua compagna “… Massimo gli ha detto due parole, dice’ te sei messo in mezzo te? Ecco .. mo’ paghi te, subito veloce”. 

1.2) Il manifesto programmatico e il funzionamento dell’organizzazione: L’Agenzia di servizi
Il “manifesto programmatico” di funzionamento dell’organizzazione, che imprime Carminati, è particolarmente importante per giudicare alcune caratteristiche tipiche delle mafie del Centro Nord, e si basa essenzialmente su due parole d’ordine: flessibilità e relazionalità. Ogni livello (criminale, economico, politico/amministrativo) viene attivato ed utilizzato in modo flessibile, in base alle esigenze, ed il sodalizio ricava la sua forza non tanto dalla violenza, che Carminati aborrisce come un rimedio da utilizzare soltanto in casi estremi (perché ha un costo per l’organizzazione, la rende più visibile alle forze dell’ordine, rovina relazioni che potrebbero essere importanti in futuro, e ne compromette l’immagine, mentre cerca di penetrare nella cerchia più esclusiva dei salotti del potere politico ed economico, nei confronti dei quali occorre essere felpati e diplomatici). dirà infatti che “noi alzamo le mani .. a la gente, quando uno ti dice di fare una cosa fai quello che te dico io .. se mi dai una parola, no che non la mantieni più, .. però noi non ci approfittiamo mai di nessuno ...”.
L’organizzazione ricava la sua forza dalla rete relazionale. Significativo è ciò che Carminati dice a Gaglianone, imprenditore che secondo le indagini sarebbe collegato al gruppo: no pero' poi meno male che hai conosciuto Fabrizio perchè così.. poi.. quando ci sarà da...pure Carlo.. quell'altro...quell'altro è l'uomo de.. invece de Mancini... Carlo te lo avevo prese.. guarda che lui è l'uomo dell'ente EUR ...che loro per dire ... gli danno i chilometri di sabbia.. questi qua quelli che arrivano a noi ...per il movimento terra.. fanno tutti capo a lui .. e' lui che se ne sta occupando capito? ..in maniera che questi vanno a fa il sopralluogo.. li conosci tu a pe'...eh...mo ti chiama...nun te preoccupà....stiamo a mette, stiamo a mette su' una bella squadra..piano piano...capito?”
In questo modo, flessibilità e relazionalità consentono di mettere in collegamento il mondo di sotto, cioè quello criminale, con il mondo di sopra dell’élite imprenditoriale e politica, attraverso la ben nota metafora del “mondo di mezzo” che Carminati, ex NAR, spiega a Brugia, altro ex NAR, in un linguaggio tolkeniano che ben si adatta ai miti delle destra neofascista: “è la teoria del mondo di mezzo compà. ....ci stanno… come si dice… i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo (…) e allora....e allora vuol dire che ci sta un mondo.. un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello…come è possibile che ne so che un domani io posso stare a cena con Berlusconi..cazzo è impossibile.. capito come idea?. . .è quella che il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra. . cioè.. hai capito?... allora le persone.. le persone di un certo tipo… di qualunque di qualunque cosa... .si incontrano tutti là. . .si incontrano tutti là no?.. tu stai lì...ma non per una questione di ceto… per una questione di merito, no? ...allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno. . questa è la cosa…e tutto si mischia.
Carminati, quindi, si posiziona al crocevia fra mondo legale e mondo illegale, fungendo da intermediatore che li mette in collegamento fra loro, in funzione di specifiche esigenze, ed operando quindi sia al livello dei vivi che a quello dei morti, senza sporcarsi le mani direttamente (“non siamo più gente che potemo fa una cosa del genere”) se non quando strettamente necessario per imporre timore e rispetto per le regole dell’organizzazione a chi sgarra, o non prende in considerazione il ruolo dell’organizzazione, e non intende passare per la sua intermediazione: (“Come posso guadagnare, che te serve il movimento terra? Che ti attacco i manifesti? Che ti pulisco il culo ..ecco, te lo faccio io perché se poi vengo a sapè che te lo fa un altro, capito? Allora è una cosa sgradevole…”). In questo modo, l’obiettivo è quello di entrare negli ingranaggi complessivi di funzionamento del sovra mondo, servendosi del sottomondo per fornirgli delle utilità (soldi a strozzo ad imprenditori o professionisti in difficoltà, imprese fornitrici colluse in particolari segmenti del ciclo edile, in particolare nel movimento terra, tradizionale settore di infiltrazione delle mafie, eventualmente voti a politici, o anche servizi di vario genere, ad esempio Carminati fornirà il suo esecutore Calvio all’imprenditore Manattini, come guardia del corpo).
La finalità non è quindi quella di agire nel sottomondo con i caratteristici affari criminali, come il traffico di droga (“la storia della droga è della stampa”) ma di creare una sorta di “agenzia di servizi” che operi in condizioni monopolistiche (non interferisco negli affari illegali degli altri gruppi criminali romani nel loro mondo di sotto, e loro mi lasciano l’esclusiva del mondo di mezzo) erogando servizi particolari, che solo dal sottomondo possono essere acquisiti. E che, però, per poter funzionare, deve mantenere un solido contatto con il sottomondo (da cui la rete di relazioni con la camorra dei Senese che opera nella capitale, così come con le ‘ndrine ed i clan di Cosa Nostra, o batterie italiane e extracomunitarie, come quelle di Santoni, “Diabolik Piscitelli”, che opeera su Ponte milvio, o Pavlovic).
Contatto che si estrinseca anche in interventi diretti di mediazione e di composizione di litigi interni al sottomondo, finalizzati a mantenere una “pax criminale” che faccia funzionare bene tutto il meccanismo. Il 17 aprile 2013, nell’area della stazione di servizio “ENI” di corso Francia, Carminati Massimo e Brugia discutevano dell’organizzazione di un incontro, non preceduto da appuntamenti telefonici - come da consuetudine di tutti i sodali - con soggetti descritti come “brutti forti”. In particolare, Brugia riferiva al Carminati: “a Mà…mò per ditte a quelli là gli ho detto ...fra quattro giorni penso di dargli appuntamento”, e quest’ultimo dettava le regole da seguire al fine di fissare appuntamenti sicuri, siti all’interno del quartiere di Vigna Stelluti, ove il sodalizio mantiene una maggiore influenza: “settimana prossima passano qua e lasciano soltanto il giorno a Roberto (Lacopo, titolare del benzinaio di corso Francia)… solo con Roberto gli dici guarda dì a Massimo giovedì per dirti ed io l'appuntamento poi glielo dò ad un'altra parte”. Brugia, nel confermare la circostanza, riferiva all’interlocutore che uno dei soggetti con i quali avrebbero dovuto incontrarsi “ha detto, lo sai come voleva la pistola…non l'hai visti, non l'hai visti come, come…come”, ottenendo conferma della pericolosità di tali personaggi dallo stesso Carminati, il quale riferiva all’interlocutore: “quelli so' brutti forti compà”, precisando “...sono andato da questi prima che prendono la pistola e sparano…”. Con quest’ultima affermazione, il Carminati sottolineava l’entità del proprio intervento di mediatore, espletato nei confronti di pericolosi soggetti del sottomondo, al fine di evitare una degenerazione violenta, che non conveniva alla buona gestione degli affari dell’”agenzia di servizi”. Si scoprirà poi che i soggetti con cui si sono incontrati sono effettivamente brutti: Roberto Santoni e Daniele Carlomosti, due pregiudicati romani, a capo di batterie di spacciatori e rapinatori, e lo slavo Tomislav Pavlovic, usuraio, attivo nel racket e nella ricettazione.

2) I connotati mafiosi
L’”agenzia di servizi” ha però i classici tratti dell’organizzazione mafiosa, ai sensi dell’articolo 416 bis del codice penale e della giurisprudenza in materia. Questi tratti si evidenziano sotto numerosi aspetti:
  • Il tipico potere intimidatorio del legame associativo;
  • Le modalità di infiltrazione nelle imprese e nel sistema degli appalti;
  • I legami fra gli associati, costruiti da reti di appartenenza, oltre che da meri interessi criminali comuni;
  • Il radicamento ed il controllo del proprio contesto territoriale e culturale di riferimento.
2.1) Il potere intimidatorio del vincolo associativo
Mafia Capitale presenta i tratti specificamente evolutivi delle mafie tradizionali che formano delle gemmazioni nel Centro Nord. La sua ambizione di agenzia di servizi la porta a ridurre al minimo indispensabile la violenza, perché il potere di intimidazione promana direttamente dalla percezione del vincolo associativo, che crea una minaccia generica di per sè stesso. Come per le mafie tradizionali, però, Mafia Capitale ha l’esigenza di mantenere stretti legami con il suo ambiente di provenienza, che ovviamente, a differenza delle mafie meridionali insediate al Nord, non è geografico, ma di contesto, ovvero il legame con il sottomondo, come detto in precedenza.
A pena di perdere il suo prestigio criminale e la sua forza di intimidazione, essenziali per porsi come intermediatrice fra mondo di sotto e di sopra, il sodalizio continua a operare nel sottomondo, non solo nelle funzioni di intermediazione e di risoluzione di conflitti sopra illustrati, ma anche attraverso la realizzazione dei delitti classici delle associazioni di stampo mafioso, quali l’usura e l’estorsione. Ciò è un ulteriore tratto classico delle mafie, comune a Mafia Capitale: anche se operano su livelli molto sofisticati di globalizzazione e finanziarizzazione, esse devono infatti “manutenere” il loro potere di intimidazione, e devono quindi continuare ad operare su reati da strada connotati da alti livelli di intimidazione delle vittime, come per l’appunto usura ed estorsione. L’omertà delle numerose vittime di estorsione di Mafia Capitale ne certifica il potere intimidatorio. Un esempio lampante è quello del debito contratto da tale Pirro Raimondo nei confronti del Brugia, peraltro per un fatto relativamente minore, di denaro per la vendita di due orologi di proprietà del Brugia stesso. Per Brugia e Carminati la riscossione del credito nei confronti del Pirro è principalmente una questione di reputazione criminale, ben più importante della cifra non particolarmente rilevante (Brugia dirà: “ormai, eh..se no..è diventata una questione principale, come no?” e Carminati risponde: “stavolta, stavolta se..se non è proprio la buca de notte, jè spaccamo proprio la faccia Riccardo: no, no jè do' una martellata in testa...come premessa..appena lo vedo l'ammazzo.. ormai è diventata una cosa...mica, mica può pensare deve passà, de esse passato così, questo che và a pija per culo la gente”). 

2.2) Protezione ed infiltrazione nelle imprese e nell’economia
Tipicamente mafiosa è poi, in ambito estorsivo, la “protezione” offerta, obtorto collo, agli imprenditori, che di fatto li trasforma in sodali del gruppo, utilizzabili ,ad esempio, per entrare nei subappalti dei cantieri edili, o nelle forniture. Una protezione, come avviene nei territori di alto insediamento mafioso, spesso cercata direttamente dall’imprenditore stesso, e nemmeno imposta dall’organizzazione, che attesta il suo livello di radicamento nel tessuto sociale e produttivo della capitale. La protezione è in realtà un mero strumento per inserirsi nell’attività imprenditoriale, dapprima fornendo tutta la serie di servizi strumentali senza partecipare al rischio d’impresa “noi lo sai perché andiamo bene?.. perché noi facciamo il movimento terra” oppure fornendo “tranquillità” (“tu lo devi mette seduto gli devi dì tu vuoi sta' tranquillo ? […] allora mettiamoci a… fermare il gioco… a come ti chiami?... comandiamo sempre noi....non comanderà mai uno come te nella strada... nella strada tu c’avrai sempre bisogno di noi”), sino a raggiungere il vero obiettivo della manovra, ovvero la caduta dell’impresa “protetta” integralmente nella rete del sodalizio. Gli imprenditori così avvicinati “devono essere nostri esecutori.. devono lavorare per noi”. Infatti, sempre seguendo Carminati, “deve essere un rapporto paritario, je devi dì…non ti pensare che tu... ecco… a me mi puoi anche …dire che mi dai un milione di euro… per guardarmi… tutte ste merde…non mi interessa, già che faccio una cortesia...è normale che dall'amicizia deve nascere un discorso che facciamo affari insieme”. E’ una modalità operativa totalmente ripresa, in modo fedele, dal modus operandi delle mafie meridionali.
Assolutamente esemplificativo è in tal senso l’avvicinamento della famiglia imprenditoriale Guarnera al sodalizio: avvicinamento cercato dagli stessi imprenditori. Guarnera entra in contatto, inizialmente, con Brugia, nel dicembre del 2012, per richiedere protezione. Brugia gli concede Matteo Calvio quale “guardaspalle”. Al contempo, Guarnera proponeva a Brugia la partecipazione a un affare immobiliare, riferibile a “novanta appartamenti a Monteverde”. L’ingresso di Mafia Capitale nell’affare produce per Guarnera tangibili benefici, quali lo sblocco amministrativo del cantiere di via Innocenzo X, da parte di Carminati, per stessa ammissione di Guarnera: “lui è stato in grado di una cosa che io in due anni non sono riuscito a fare, lui in tre giorni è riuscito a sbloccarla!”.
L’affiliazione crescente di Guarnera passerà anche, nell’oramai consueta stazione di servizio di corso Francia, da una vera e propria formazione da mafioso, impartita da Carminati, iniziando dall’omertà (“.. uno non deve parlà”, “mai risponde alle domande ... le domande sono lecite le risposte non sono mai obbligatorie ..”)
Così come è tipicamente mafioso il modo in cui il gruppo penetra nel sistema degli appalti pubblici. Un misto di corruzione (dirà Buzzi “Lo sai perché Massimo è intoccabile? Perché era lui che portava i soldi per Finmeccanica! Bustoni di soldi! A tutti li ha portati Massimo! … 4 milioni dentro le buste! 4 milioni! Alla fine mi ha detto Massimo “è sicuro che l’ho portati a tutti! Tutti! Pure a Rifondazione!”) e di intimidazione, che al limite, se strettamente necessario, può arrivare alla violenza (Carminati riferirà a Brugia di aver “menato” Riccardo Mancini, detto “er Ciccione”, e camerata di Carminati nei NAR, che, da amministratore delegato di EUR SpA, nominato dal sindaco Alemanno, svolge, in modo troppo recalcitrante secondo Carminati, il ruolo di procacciatore di appalti pubblici per il sodalizio) o, più spesso, alle minacce. 

2.3) I vincoli di gruppo
Manca invece, delle mafie tradizionali, il percorso di affiliazione formale, che passa attraverso un periodo di monitoraggio dell’aspirante affiliato, diversi gradi di affiliazione esterna (ad es. il passaggio dell’aspirante al grado intermedio di “contrasto onorato”, nel sistema ‘ndranghetista) ed una cerimonia formale di affiliazione, che serve perlopiù per cementare la fedeltà all’organizzazione, tramite una complessa simbologia religiosa ed esoterica che serve anche per suscitare emozioni e sentimenti di fratellanza con il gruppo da parte del neo-affiliato. Tuttavia, tale mancanza è più che compensata dal fatto che tutto il gruppo “interno” di Mafia Capitale, quelli cioè più vicini a Carminati, come Brugia, Gaudenzi, Grilli, o gli esponenti più importanti della raggiera esterna del gruppo, come Mancini o Mokbel, sono tutti componenti, a vario titolo e con diversi livelli, del mondo dell’eversione neofascista o dell’estrema destra extraparlamentare degli anni ’70 ed ’80, ed hanno quindi cementato, fra loro, un legame di solidarietà ed amicizia tale per cui, come confesserà lo stesso Grilli, “tra camerati non ci si tradisce”. Le intercettazioni telefoniche, infatti, testimoniano di un legame profondo, di amicizia e rispetto reciproco, fra Carminati e Brugia, che va al di là del mero rapporto utilitaristico ed affaristico, tanto che i due vivono a pochi metri di distanza, avendo Brugia preso casa nel villino di Sacrofano attiguo a quello di Carminati, e passando con lui intere giornate. Altri importanti esponenti di Mafia Capitale, come Buzzi, Calvio o Lacopo, pur non avendo un passato attestato nell’estremismo neofascista, sono amici personali di lunga data e quindi conosciuti e “fidati”. 

2.4) Il controllo del proprio contesto di riferimento
Lo stesso contesto in cui opera il sodalizio esprime un profondo radicamento dentro un circolo ristretto, facente capo agli ambienti “esclusivi” alla destra radicale, dentro il quale i protagonisti di questa storiaccia mostrano di sapersi muovere con la massima disinvoltura e confidenza, trovando alleanze, opportunità di business, manovalanza, ed anche, per così dire, “copertura” e rispettabilità sociale, e diventa quindi quel substrato “tradizionale” di radicamento primario di cui ogni mafia ha bisogno, anche quando entra nella fase dell’espansione in nuovi contesti. Quando parlo di contesto, mi riferisco ovviamente in primis a quello geografico: operano tutti nel quadrante di Roma Nord, fra i Parioli, Vigna Stelluti, il Fleming, il Flaminio e Sacrofano, un vero e proprio habitat elettorale e sociale della destra più radicale, che esprime quella piccola e media borghesia di “parvenus” e medi e grandi “commis” dell’Amministrazione Pubblica, dalla quale, peraltro, quasi tutti i protagonisti di Mafia Capitale sono stati allevati (nonostante l’estremo livello di degenerazione, anche nel modo di esprimersi, che Carminati manifesta, dopo tanti anni di frequentazioni criminali, egli stesso è, per unanime ammissione di tutti, un uomo intelligente, colto e perfettamente in grado di “stare” dentro contesti sociali altolocati). Il legame territoriale quasi simbiotico che, come ogni Mafia (organizzazione in primis territoriale, anche quando si espande) il gruppo esprime emerge dalle intercettazioni, dal richiamo costante che Carminati fa della sua appartenenza a Roma Nord (come quando Carminati contattava Santoni, dicendogli “ciao sono io, buongiorno…so’ quell’amico tuo di zona qui a Roma Nord…”). Tutti gli affari del gruppo si combinano quindi in “territorio amico”, dove Carminati e soci si sentono protetti e conosciuti, fra il benzinaio di corso Francia, l’Euclide di Vigna Stelluti, il bar Hungaria di piazza Ungheria, i ristoranti di Ponte Milvio e della Flaminia Nuova. Persino le telefonate “delicate” vengono fatte da una cabina di via Flaminia, o da una di viale Tiziano. Molto significativamente, perché è un altro connotato tipicamente mafioso, il territorio del boss, ovvero Sacrofano, si chiude in una perfetta omertà, se non in qualche tentativo di difesa dell’imprenditore edile sacrofanese Agostino Gaglianone, risultato, dalle emergenze investigative, colluso con il gruppo, e fortemente relazionato con Carminati1

Alcuni dei luoghi di Mafia Capitale. In alto  sinistra: corso Francia (con la stazione di servizio di Lacopo). In senso orario: piazza di Vigna Stelluti, Ponte Milvio, Sacrofano



Ma il contesto è anche culturale: non solo per nostalgia dei suoi vent’anni, ma anche per rinsaldare i legami affettivi con il gruppo, Carminati non di rado si lascia andare a rimembranze del suo passato di terrorista dei NAR, ricorda, persino divertito, di quando andò in Libano a fare il cecchino con i falangisti fascisti, nei primi anni Ottanta, tiene nella sua abitazione oggetti con una forte carica simbolica nell’immaginario neofascista, come una Katana giapponese, utilizza con i suoi uomini termini, come il “mondo di mezzo”, che evocano la paccottiglia pseudo-culturale delle letture tipiche dei neofascisti e degli ordinovisti, quando deve minacciare utilizza il linguaggio truculento dei picchiatori da strada dell’estrema destra (“lo famo strillà come un’aquila sgozzata”). Tutto questo non è casuale, serve per rinsaldare una sottocultura comune, nella quale i membri del gruppo possono riconoscersi e sentirsi a loro agio, quindi in ultima analisi sentirsi più legati al sodalizio. Anche questo è un comportamento mafioso: ad esempio, la ‘Ndrangheta ha elaborato un immaginario culturale, con tanto di mitologia delle origini (i famosi cavalieri Osso, Mastrosso e Scarcagnosso) e sincretismi cattolici, utile per rinsaldare la fedeltà dei propri affiliati. Lo stesso vale per Cosa Nostra, e per le elaborazioni politico/autonomistiche che Cutolo offrì alla NCO.

Conclusioni
In conclusione, Mafia Capitale appare come una organizzazione dai tipici tratti mafiosi, evolutasi dalla criminalità di strada verso una forma imprenditoriale di fornitura di servizi illeciti al “mondo di sopra” (l’agenzia di servizi) in condizioni di monopolio, quindi perfettamente inserita dentro le logiche di potere economico, amministrativo e politico di Roma, e per molti versi ad esse funzionale e servente. Una organizzazione che, accanto ai tipici caratteri intimidatori di una mafia (alimentati anche dal prestigio criminale di Carminati e dalla sua intelligenza organizzativa), ha accresciuto il suo potere grazie ad un notevole investimento in capitale sociale, capitale relazionale, che le consente di porsi al crocevia di una rete di rapporti, talvolta da essa stessa costruiti, talvolta ad essa preesistenti ma funzionali, con una capacità di estensione socio economica molto pervasiva e pericolosa, che dal centro di tutto, ovvero Carminati, si estende a raggiera, sia nel mondo criminale, in cui Carminati assume sempre più il ruolo di organizzatore e coordinatore (arrivando addirittura a pagare 20.000 euro ad un Casamonica, per tenersi buono il rapporto con il clan criminale) sia in quello imprenditoriale e politico/amministrativo. Il potere mafioso esercitato sul territorio si misura in termini di imprenditori collusi, che spesso vanno essi stessi a cercare protezione, amministratori coinvolti, comuni cittadini omertosi o impauriti.
Nell’ultimo capitolo di questa storia, si approfondiranno le biografie e i ruoli degli uomini coinvolti in Mafia Capitale.

1 Cfr. inchiesta del Fatto Quotidiano a Sacrofano del 04.12.2014

martedì 3 marzo 2015

I processi di riassetto della camorra casertana secondo le analisi della DIA




Il decesso recente di Carmine Schiavone, storico boss della camorra casertana, poi pentito di eccellenza, rimette in evidenza il tema degli assetti camorristici della provincia di Caserta, dopo i durissimi e ripetuti colpi che la giustizia ha assestato al clan dominante dei Casalesi, quello degli Schiavone-Bidognetti, sostanzialmente decimato ed estremamente indebolito nella sua capacità di azione.
La camorra casertana condivide alcuni tratti tipici di tutto il fenomeno camorristico campano, ovvero l’estrema instabilità degli assetti di controllo del territorio, resa ancor più acuta proprio dall’indebolimento del clan sinora dominante, ovvero i Casalesi, e quindi dagli spazi che si aprono per le ambizioni di personaggi di seconda fila, che cercano di farsi spazio per arrivare ai vertici. Secondo la relazione semestrale della DIA, da cui è tratta l’immagine in testa a questo articolo, sarebbero almeno 17 i clan che si dividono il territorio della provincia, fra i quali i due gruppi residui del clan dei Casalesi, ovvero il gruppo Bidognetti, che, nella diarchia di comando del clan, fa riferimento a Francesco Bidognetti, detto “Cicciotto ‘e Mezzanotte”, concentrato nella zona fra Castel Volturno e Villa Literno, ed il gruppo che fa riferimento ad Antonio “o Ninno” Iovine, attestato su San Cipriano e San Marcellino. 
Le evidenze investigative parlano di un gruppo che si sta nuovamente consolidando, dopo i durissimi colpi subiti in passato per l’arresto dell’intera linea di comando, facendo crescere nuove generazioni di boss, ed al tempo stesso riconducendo alla disciplina i gruppi federati che cercano di conquistare qualche margine di autonomia (in questo contesto, sempre secondo la DIA, va inquadrato l’omicidio di un pregiudicato affiliato al gruppo federato dei Papa, il 10 gennaio 2014). Tali gruppi stanno riaffermando la propri autorità sul territorio anche tramite la ricostruzione di una intensa attività di estorsione, che, oltre al provento, garantisce loro il rispetto e la paura da parte della popolazione locale. La fazione dei Casalesi che fa riferimento a “Sandokan” Schiavone è ancora quella che ha la maggiore potenza di fuoco. La forza del clan risiede anche nei numerosi rapporti esterni che alimenta, sia con Cosa Nostra siciliana, attraverso i Santapaola, sia con organizzazioni extracomunitarie, in particolare albanesi, macedoni, turche e colombiane, per il business dello spacci odi stupefacenti, divenuto sempre più importante per il gruppo, anche a causa delle crescenti difficoltà nell’operare nel riciclaggio, legate al controllo delle forze dell’ordine, al ciclo dell’edilizia fermo a causa della crisi economica, ed al maggiore controllo sul territorio che rende più difficile (anche se non certo impossibile) il lucroso business dello smaltimento illegale dei rifiuti tossici e pericolosi, la vera “vocazione” criminale del clan. Accessoriamente al traffico degli stupefacenti, permangono importanti l’estorsione (anche a fini intimidatori, come detto) ed il racket sui videopoker). 

Francesco Bidognetti


 Antonio Iovine


Francesco Schiavone




Rispetto agli altri clan, spicca l’attività dei Belforte, egemoni a Marcianise, anche loro operanti nel business dei rifiuti, che insieme al gruppo Piccolo, mantengono un rapporto di non belligeranza e divisione del territorio con i Casalesi. A febbraio di quest’anno, una vasta operazione dei carabinieri ha condotto all’arresto di 20 persone, ritenute affiliate ai clan federati dei Bifone e dei Petruolo, che, nei periodi “d’oro” della camorra casertana, ovvero nel 2004, erano arrivati addirittura a minacciare due sottufficiali dei carabinieri.
Nell’insieme, la camorra casertana sembra attraversata da una fase di cambiamento generazionale, ed anche di riposizionamento dei propri affari criminali (presi di mira anche gli ospedali, per il business della gestione dei bar interni, e per quello della manutenzione delle strutture) che però non sembra affatto averne indebolito la “presa” sul territorio, come dimostrano alcuni episodi, ad esempio quello emerso nel corso dell’arresto di alcuni affiliati al clan dei Muzzoni, che costringevano i  titolari di un locale a Cellole ad ospitare cerimonie e ricevimenti per i loro familiari, senza essere pagati e senza poter rifiutare. Oppure la clamorosa bomba-carta gettata contro l’abitazione del vicesindaco di Mondragone, poche ore dopo una manifestazione anti-camorra di tutto il paese. Una intimidazione evidentemente rivolta a chiarire “chi comanda”.

lunedì 2 marzo 2015

Operazione Tulipano: cade un altro pezzo del sistema-Roma

 
L'operazione anticamorra scattata il 9 febbraio scorso a Roma, che ha portato a 61 arresti, è l'ennesimo pezzo del sistema di potere di Mafia Capitale che viene intaccato. Fra le ordinanze di custodia, spicca il nome di Domenico Pagnozzi, meglio noto come "Mimi 'o professore", già al 41 bis per omicidio e associazione mafiosa. Si tratta di un pezzo grosso della camorra, di quel clan Pagnozzi che controlla la provincia di Benevento, uscito fra i vincitori della guerra fra la Nuova Famiglia di Alfieri e la NCO di Cutolo,e che dagli anni Novanta si è trapiantato a Roma, portandosi dietro l'alleanza, cementata durante la guerra di camorra stessa, con la cosca di Michele Senese "'o pazz". Impostosi con la violenza sull'area sud-est di Roma, a ridosso del territorio dei Casamonica, dopo aver prima collaborato, e poi eliminato Giuseppe Carlino, "Pinocchietto", capo della banda della Marranella (uno spin-off indigeno, oramai del tutto scomparso dopo la morte di Carlino e di Sbarra, e l'arresto di Sibio, della vecchia banda della Magliana) collaborava con Senese e, tramite questi, con Carminati, nella spartizione della città. aveva di fatto realizzato una organizzazione camorristica nel Tuscolano, uno spin off della cosca sannita di Mimì 'o professore, Camorra a Roma: clan Domenico Pagnozzi Napoletani del Tuscolano Operazione Tulipano
strutturata però secondo un modello tipico della malavita organizzata romana, cioè con una sufficiente dose di autonomia dei singoli aderenti, legati comunque dal vincolo associativo.
 
Mimì 'o professore
 
 
 
Con un ampio livello di alleanze operative con il gruppo di Carminati ed altre organizzazioni mafiose, calabresi e campane, operanti su Roma,  il gruppo era dedito, secondo i Carabinieri, ai seguenti reati: Camorra a Roma: clan Domenico Pagnozzi Napoletani del Tuscolano Operazione Tulipano
associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, estorsione, rapina, usura, riciclaggio, reimpiego di denaro di provenienza illecita, fittizia intestazione di beni, illecita concorrenza con violenza e minacce, illecita detenzione di armi, riciclaggio e altro, con l’aggravante delle modalità mafiose.
Camorra a Roma: clan Domenico Pagnozzi Napoletani del Tuscolano Operazione Tulipano
Borghesiana, Ponte di Nona, Tor Pignattara, il Pigneto, Centocelle, il Quarticciolo e naturalmente la zona della Tuscolana e di Cinecittà erano le zone elettive di spaccio di stupefacenti del gruppo, che evidentemente doeva aere anche accordi con i Casamonica, che operano più o meno in zone analoghe della capitale. 
Il sodalizio con il gruppo di Carminati, secondo gli inquirenti, li ha anche condotti a realizzare, per conto di quest'ultimo, operazioni di riciclaggio in bar, attività commerciali anche evolute (operanti nel settore dei new media), immobili di lusso, e non disdegnavano nemmeno l'attività più violenta e più da crimine da strada del recupero crediti.
Da questa storia si possono trarre due riflessioni: 
a) dal 41 bis,in un carcere del Nord, Pagnozzi continuava a gestire i suoi affari. Quindi sarebbe il caso di ripensare a questo regime carcerario poco umano ed anche inefficace;
b) la copertura politica che assisteva gli affari delle varie componenti di Mafia Capitale  è completamente saltata. Perchè? Perché, probabilmente, la priorità politica è quella di fare austerità sui bilanci del Comune, per cui occorre ridurre l'incidenza di chi, in termini criminali, ci mangiava sopra.

Pasquale Barra: vita di un camorrista


E' morto, a 72 anni, per arresto cardiaco in carcere a Ferrara, dove scontava più ergastoli, Pasquale Barra, detto "O animale". Nato ad Ottaviano, amico di infanzia di Raffaele Cutolo, figlio ribelle di una "buona famiglia", iniziò la sua carriera criminale a 17 anni, crivellando di colpi la serranda di un benzinaio. Non voleva pagare il pieno di benzina, e voleva dimostrare a tutti che con lui non si scherzava. Finì con 67 omicidi a suo carico. 
Scelto da Cutolo per la sua indole violenta e senza scrupoli, ne divenne uno dei principali luogotenenti, arrivando a ricoprire il ruolo di santista (una sorta di portavoce e coordinatore operativo dei vari capizona della cupola cutoliana). Arrestato relativamente presto, nei primi anni Settanta, mostrò la sua natura di mafioso autentico, che non tradisce mai il capo, e, da dentro il carcere, continuò la sua attività di killer su commissione di don Raffaele. Fu quindi coinvolto nella guerra fra NCO e Nuova Famiglia, uccidendo, dietro le sbarre, il capozona di Castellammare di Stabia, Antonino Cuomo, schieratosi con il nemico di Cutolo, ovvero Carmine Alfieri. Famoso per aver ucciso, sempre in carcere, ed in modo particolarmente efferato il malvivente milanese Francis Turatello, ancora su ordine di Cutolo, probabilmente per evitare che Turatello rivelasse i rapporti intrattenuti fra NCO e Banda della Magliana, tramite Nicolino Selis, arruolato da don Raffaele come suo plenipotenziario romano, e poi massacrato dai suoi compagni di banda, per essersi "allargato troppo". 
Lo massacrò a pugnalate, poi lo sventrò e mangiò una parte del suo fegato. Noto anche per aver eliminato, sempre in carcere, e sempre su ordine di Cutolo, uno dei capi storici della vecchia 'Ndrangheta, Domenico "Mico" Tripodo. Nell'ambito della guerra interna alla 'Ndrangheta, infatti, Tripodo, insieme agli altri due capi storici ("Mommo" Piromalli e Don Antonio Macrì) si opponeva ai clan emergenti, guidati dai De Stefano, che facevano affari nella droga con Cutolo. 
Quando venne tradito dal suo capo storico, Cutolo, che prese le distanze dall'omicidio Turatello, probabilmente per la sua eccessiva efferatezza, ritenne sciolto il suo vincolo d'onore con la camorra, e divenne il pentito di camorra più famoso d'Italia, perché, in un evidente tentativo di fare "carriera" nel pentitismo, ed assicurarsi maggiori benefici, coinvolse il presentatore televisivo Enzo Tortora in una storia rivelatasi completamente infondata, rovinandone la vita. Visse di tira e molla, con gli inquirenti, nel classico gioco dei pentiti: fra benefici, richieste di protezione della famiglia (il figlio venne gambizzato all'uscita dal suo ufficio per vendetta) e rivelazioni somministrat con il bilancino, ma comunque sufficientemente pesanti da determinare lo smantellamento dell'organizzazione cutoliana, Addirittura tragicomico il suo confronto in aula con l'ex capo Cutolo, in cui, alternando italiano e dialetto, rivolgendosi all'interlocutore a volte con il tu ed a volte con il lei, i due si lanciarono reciproche accuse e minacce, accompagnate da tentativi di imbonimento (Cutolo arrivò addirittura a inchinarsi e baciare la mano del suo ex sottoposto). Un autentico mafioso.