Pagine

mercoledì 12 dicembre 2018

Saldi di legge di bilancio: fra amministrazione e simbolo il saldo netto è positivo






Confesso che, per la stanchezza di un lunghissimo giorno di lavoro, avevo scelto di scrivere quest’articolo domattina, ma la sensazione che, con il compromesso raggiunto a Bruxelles, sia successo qualcosa di storico, è stata troppo forte per chi, come me, sebbene operando a lungo dalla parte sbagliata della barricata (ovvero nell’inutile e moribonda sinistra), per tanti anni ha lottato e sognato che qualcosa si incrinasse nella rigida austerità europea.
Allora, il risultato politico ed amministrativo è che, da un rapporto disavanzo/PIL del 2,4% fissato nella Nota di Aggiornamento al DEF, con tanto di improvvide e troppo anticipate balconate pentastellate, l’obiettivo della legge di bilancio va al 2% (2,04%, ci tiene a dire Conte, illudendosi di giocare sulla scarsa confidenza con l’aritmetica di molti italiani per quello 0,04 in più).
Ora, io ho sempre sostenuto che in politica ci sono due livelli, entrambi ugualmente importanti: c’è il livello dell’amministrazione concreta, perché la politica detta la via da seguire all’amministrazione di un Paese, e c’è il livello dei simboli e delle suggestioni di prospettiva. E questo livello è fondamentale. E’ sul piano dei simboli che la storia cambia radicalmente. Non è promettendo un miglioramento della circolazione attorno alla Bastiglia che si fece la Rivoluzione francese. Non è con promesse di miglioramenti del budget dello Stato che i bolscevichi fecero la Rivoluzione di ottobre, ma su grandi simboli, sul cui sfondo si muoveva, appena percepibile, una suggestione di un mondo migliore, un sogno se vogliamo. Ma i sogni fanno muovere milioni di persone e cambiano la storia. L’epopea dell’operaio sovietico, più fantasticata che reale in un Paese ancora agricolo, l’idea di uguaglianza sostanziale nascosta dietro la parola “cittadino”, in una Francia divisa in caste impenetrabili, hanno fornito l’energia per cambiare il mondo.
Io credo che anche il risultato, aridamente economico-contabile, del compromesso raggiunto sul saldo della manovra per il 2019, debba essere letto sotto i due profili: quello amministrativo concreto, e quello simbolico. Sotto il primo profilo, è inutile dire che l’esito finale è catastrofico. Conte può menarcela per settimane con la cazzata delle “risorse recuperate”, ma in realtà non c’è nessuna risorsa recuperabile: né dalla spending review, con Amministrazioni pubbliche ridotte a non poter comprare nemmeno la carta per le stampanti, né dalle privatizzazioni di beni immobiliari pubblici in degrado, che nessuno vuole, né da una seria e ragionevolmente fondata previsione di rimodulazione delle platee di beneficiari del reddito di cittadinanza o della quota 100.
La verità nuda e cruda è che, fra crescita minore delle previsioni, riduzione di 4 decimali del rapporto disavanzo/PIL e maggiori oneri per il servizio del debito dovuti al rialzo dei tassi, occorrerà tirare fuori dai 10 ai 12 miliardi di maggiori entrate o minori spese. Una cifra simile fa sballare qualsiasi previsione finanziaria per i programmi-cardine della compagine gialloverde, che siano il reddito di cittadinanza (che verrà avviato molto in là nel corso dell’anno, per ridurne l’impatto contabile sul 2019, e con una platea ridotta) o quota 100 (per la quale il gioco delle “finestre” per l’accesso alla pensione consentirà di ritardare la percezione del beneficio e quindi genererà risparmi per quest’anno).
Ma c’è un ma. Un ma grosso come una casa. Ed è il contenuto simbolico, per certi versi “educativo”, che tale compromesso consente di avere: per la prima volta dal 2014 il rapporto fra indebitamento netto e PIL risale, ma non, come nel 2014, per motivi “forzati” ed esogeni, ovvero a causa della recessione, ma per una precisa scelta di politica di bilancio. Una scelta dichiaratamente espansiva per la quale occorre risalire a 27-28 anni fa, a prima del 1992, alla Prima Repubblica. Una scelta che spazza via gli “obiettivi” concordati con il Governo Gentiloni, per cui al 2019 il rapporto disavanzo/PIL sarebbe dovuto scendere addirittura all’1,2%, dall’1,8% del 2018, raggiungendo un saldo primario mostruoso, pari al 2,4% del PIL, che avrebbe semplicemente smantellato tutti i servizi pubblici e ciò che resta del welfare.
La Commissione, facendo passare quest’inversione di tendenza, e quando, prevedibilmente, concederà un regalone ben più grande alla Francia, per salvare il suo pupazzo Macron dalla furia popolare, ha implicitamente ammesso che la strada sin qui percorsa, quella dell’austerità, è sbagliata o comunque non può più essere riproposta “tel quel”. Si tratta di un grosso segnale di debolezza e di cedimento, che si allargherà quando, con le elezioni europee di maggio, arriverà dai popoli europei un grosso segnale di stanchezza e di voglia di cambiamento.
Si tratta, a ben vedere, dell’unico risultato concreto possibile, stante l’enorme debolezza politica e diplomatica dell’Italia, dopo vent’anni di Governi di traditori del Paese. E’ l’unico margine di manovra che la scelleratezza del Pd e della pseudo-sinistra di governo hanno lasciato ai gialloverdi. E’ il massimo possibile, e io personalmente un’asticella attorno al 2% l’avevo prevista e scritta sui social da settimane, se non da mesi. E peraltro, alcuni benefici del maggiore disavanzo rispetto al PIL, a cominciare dall’esaurirsi della spremitura del sistema pubblico e dei servizi di pubblico interesse, e forse dal rilancio di qualche investimento pubblico, inizieremo a vederli già nel 2019.
Un economista keynesiano, nel 2012, scriveva che per distruggere l’austerità occorre vincere la battaglia delle idee. La battaglia delle idee si vince mostrando alle masse lo scalpo sanguinante delle idee passate e sconfitte, per l’appunto il simbolo, la testa del nobile ghigliottinata che cade nella cesta, il proprietario terriero espropriato, una legge di bilancio (seppur moderatamente) espansiva, dopo anni di strette. Con il risultato conseguito oggi, non abbiamo lo scalpo, ma stiamo iniziando a tagliare i capelli alla Trojka. La vita è così, è fatta di compromessi e piccoli passi in avanti, non si può sperare di uscire con Belen Rodriguez se non si riesce ad uscire nemmeno con la figlia del panettiere sotto casa.
P.S. So benissimo che adesso pioveranno i dileggi dell’area berluscon-piddina sulle “promesse tradite dei populisti”. E’ comprensibile, loro sono i funzionari della Trojka, sono pagati per demolire il Paese fabbricando fake news. Quello che invece non sarà accettabile sarà la prevedibilissima presa di distanze della sinistra c.d. “sovranista” e “radicale”, vuoi per sciocche illusioni su impossibili “Italexit”, vuoi, nel caso di Fassina, per altrettanto sciocche illusioni di “incursione da sinistra” sull’elettorato populista. Ai sovranisti senza se e senza ma non dico niente, si devono disintossicare, ci sono i SERT. A Fassina, in nome del tempo sprecato in cui sono stato dei suoi, vorrei dire che dileggiare chi si è battuto come un leone per raddrizzare la curva verso il baratro del Paese, parlando a vanvera di “fallimenti”, non solo non porterà voti (quand’anche qualche ingenuo elettore gialloverde abboccasse alla retorica del fallimento, perché dovrebbe poi mettersi con chi non ha nemmeno la cifra elettorale per andare in Parlamento, come SI, che oggi come oggi veleggia attorno al 2%?) ma anche perché non è onorevole, non è da uomini e non è da lottatori sociali. Gli uomini guardano in faccia la distanza fra le proprie ambizioni e le proprie realizzazioni, e quelle altrui. E sanno farsene una ragione. Casomai a quel punto aiutano a migliorare gli esiti, perché così facendo rispondono ai loro sogni, anziché rispondere a pochi cialtroni che vivacchiano nei resti di un edificio in polvere.

Nessun commento:

Posta un commento