Confesso che, per la stanchezza
di un lunghissimo giorno di lavoro, avevo scelto di scrivere quest’articolo domattina,
ma la sensazione che, con il compromesso raggiunto a Bruxelles, sia successo
qualcosa di storico, è stata troppo forte per chi, come me, sebbene operando a
lungo dalla parte sbagliata della barricata (ovvero nell’inutile e moribonda
sinistra), per tanti anni ha lottato e sognato che qualcosa si incrinasse nella
rigida austerità europea.
Allora, il risultato politico ed
amministrativo è che, da un rapporto disavanzo/PIL del 2,4% fissato nella Nota
di Aggiornamento al DEF, con tanto di improvvide e troppo anticipate balconate
pentastellate, l’obiettivo della legge di bilancio va al 2% (2,04%, ci tiene a
dire Conte, illudendosi di giocare sulla scarsa confidenza con l’aritmetica di
molti italiani per quello 0,04 in più).
Ora, io ho sempre sostenuto che
in politica ci sono due livelli, entrambi ugualmente importanti: c’è il livello
dell’amministrazione concreta, perché la politica detta la via da seguire all’amministrazione
di un Paese, e c’è il livello dei simboli e delle suggestioni di prospettiva. E
questo livello è fondamentale. E’ sul piano dei simboli che la storia cambia
radicalmente. Non è promettendo un miglioramento della circolazione attorno
alla Bastiglia che si fece la Rivoluzione francese. Non è con promesse di
miglioramenti del budget dello Stato che i bolscevichi fecero la Rivoluzione di
ottobre, ma su grandi simboli, sul cui sfondo si muoveva, appena percepibile,
una suggestione di un mondo migliore, un sogno se vogliamo. Ma i sogni fanno
muovere milioni di persone e cambiano la storia. L’epopea dell’operaio
sovietico, più fantasticata che reale in un Paese ancora agricolo, l’idea di
uguaglianza sostanziale nascosta dietro la parola “cittadino”, in una Francia
divisa in caste impenetrabili, hanno fornito l’energia per cambiare il mondo.
Io credo che anche il risultato,
aridamente economico-contabile, del compromesso raggiunto sul saldo della
manovra per il 2019, debba essere letto sotto i due profili: quello amministrativo
concreto, e quello simbolico. Sotto il primo profilo, è inutile dire che l’esito
finale è catastrofico. Conte può menarcela per settimane con la cazzata delle “risorse
recuperate”, ma in realtà non c’è nessuna risorsa recuperabile: né dalla
spending review, con Amministrazioni pubbliche ridotte a non poter comprare
nemmeno la carta per le stampanti, né dalle privatizzazioni di beni immobiliari
pubblici in degrado, che nessuno vuole, né da una seria e ragionevolmente
fondata previsione di rimodulazione delle platee di beneficiari del reddito di
cittadinanza o della quota 100.
La verità nuda e cruda è che, fra
crescita minore delle previsioni, riduzione di 4 decimali del rapporto
disavanzo/PIL e maggiori oneri per il servizio del debito dovuti al rialzo dei
tassi, occorrerà tirare fuori dai 10 ai 12 miliardi di maggiori entrate o
minori spese. Una cifra simile fa sballare qualsiasi previsione finanziaria per
i programmi-cardine della compagine gialloverde, che siano il reddito di
cittadinanza (che verrà avviato molto in là nel corso dell’anno, per ridurne l’impatto
contabile sul 2019, e con una platea ridotta) o quota 100 (per la quale il
gioco delle “finestre” per l’accesso alla pensione consentirà di ritardare la
percezione del beneficio e quindi genererà risparmi per quest’anno).
Ma c’è un ma. Un ma grosso come
una casa. Ed è il contenuto simbolico, per certi versi “educativo”, che tale
compromesso consente di avere: per la prima volta dal 2014 il rapporto fra
indebitamento netto e PIL risale, ma non, come nel 2014, per motivi “forzati”
ed esogeni, ovvero a causa della recessione, ma per una precisa scelta di
politica di bilancio. Una scelta dichiaratamente espansiva per la quale occorre
risalire a 27-28 anni fa, a prima del 1992, alla Prima Repubblica. Una scelta
che spazza via gli “obiettivi” concordati con il Governo Gentiloni, per cui al
2019 il rapporto disavanzo/PIL sarebbe dovuto scendere addirittura all’1,2%, dall’1,8%
del 2018, raggiungendo un saldo primario mostruoso, pari al 2,4% del PIL, che
avrebbe semplicemente smantellato tutti i servizi pubblici e ciò che resta del
welfare.
La Commissione, facendo passare quest’inversione
di tendenza, e quando, prevedibilmente, concederà un regalone ben più grande
alla Francia, per salvare il suo pupazzo Macron dalla furia popolare, ha
implicitamente ammesso che la strada sin qui percorsa, quella dell’austerità, è
sbagliata o comunque non può più essere riproposta “tel quel”. Si tratta di un
grosso segnale di debolezza e di cedimento, che si allargherà quando, con le
elezioni europee di maggio, arriverà dai popoli europei un grosso segnale di
stanchezza e di voglia di cambiamento.
Si tratta, a ben vedere, dell’unico
risultato concreto possibile, stante l’enorme debolezza politica e diplomatica
dell’Italia, dopo vent’anni di Governi di traditori del Paese. E’ l’unico margine
di manovra che la scelleratezza del Pd e della pseudo-sinistra di governo hanno
lasciato ai gialloverdi. E’ il massimo possibile, e io personalmente un’asticella
attorno al 2% l’avevo prevista e scritta sui social da settimane, se non da
mesi. E peraltro, alcuni benefici del maggiore disavanzo rispetto al PIL, a
cominciare dall’esaurirsi della spremitura del sistema pubblico e dei servizi
di pubblico interesse, e forse dal rilancio di qualche investimento pubblico,
inizieremo a vederli già nel 2019.
Un economista keynesiano, nel
2012, scriveva che per distruggere l’austerità occorre vincere la battaglia
delle idee. La battaglia delle idee si vince mostrando alle masse lo scalpo
sanguinante delle idee passate e sconfitte, per l’appunto il simbolo, la testa
del nobile ghigliottinata che cade nella cesta, il proprietario terriero
espropriato, una legge di bilancio (seppur moderatamente) espansiva, dopo anni
di strette. Con il risultato conseguito oggi, non abbiamo lo scalpo, ma stiamo
iniziando a tagliare i capelli alla Trojka. La vita è così, è fatta di
compromessi e piccoli passi in avanti, non si può sperare di uscire con Belen
Rodriguez se non si riesce ad uscire nemmeno con la figlia del panettiere sotto
casa.
P.S. So benissimo che adesso
pioveranno i dileggi dell’area berluscon-piddina sulle “promesse tradite dei
populisti”. E’ comprensibile, loro sono i funzionari della Trojka, sono pagati
per demolire il Paese fabbricando fake news. Quello che invece non sarà
accettabile sarà la prevedibilissima presa di distanze della sinistra c.d. “sovranista”
e “radicale”, vuoi per sciocche illusioni su impossibili “Italexit”, vuoi, nel
caso di Fassina, per altrettanto sciocche illusioni di “incursione da sinistra”
sull’elettorato populista. Ai sovranisti senza se e senza ma non dico niente, si
devono disintossicare, ci sono i SERT. A Fassina, in nome del tempo sprecato in
cui sono stato dei suoi, vorrei dire che dileggiare chi si è battuto come un
leone per raddrizzare la curva verso il baratro del Paese, parlando a vanvera
di “fallimenti”, non solo non porterà voti (quand’anche qualche ingenuo
elettore gialloverde abboccasse alla retorica del fallimento, perché dovrebbe
poi mettersi con chi non ha nemmeno la cifra elettorale per andare in Parlamento,
come SI, che oggi come oggi veleggia attorno al 2%?) ma anche perché non è
onorevole, non è da uomini e non è da lottatori sociali. Gli uomini guardano in
faccia la distanza fra le proprie ambizioni e le proprie realizzazioni, e
quelle altrui. E sanno farsene una ragione. Casomai a quel punto aiutano a migliorare gli esiti, perché così facendo rispondono ai loro sogni, anziché rispondere a pochi cialtroni che vivacchiano nei resti di un edificio in polvere.
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