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sabato 16 febbraio 2019

Regionalismo rafforzato fra mito e realtà



Sull'autonomia differenziata stanno girando autentiche balle, messe in giro, purtroppo, oltre che dai soliti professionisti della controinformazione di sinistra, anche dai pentastellati, che stanno commettendo un errore politico grave, nel tentativo di cavalcare demagogicamente il loro elettorato nel Sud. Qui il tema non è quello della secessione dei ricchi, o della deprivazione di risorse del povero Sud. Queste sono solo fregnacce, e basta. Soltanto fregnacce, dal punto di vista finanziario.
La bozza approntata dal confronto fra Ministero e le tre Regioni del Lombardo-Veneto prevede che le funzioni trasferite siano finanziate tramite il cosiddetto residuo fiscale, ovvero la differenza fra gettito fiscale generato a valere sulle imposte nazionali e spesa pubblica per il finanziamento delle funzioni da trasferire, valutata al costo storico. Esemplificando: poniamo che, ad oggi, una Regione generi 100 di gettito fiscale sulle imposte nazionali, interamente incassato dallo Stato, e che riceva 20 dallo Stato sotto forma di trasferimenti per la gestione di una funzione per la quale c’è competenza concorrente ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione. Il residuo fiscale, pari a 80, è interamente incassato dallo Stato. Con il nuovo meccanismo, la Regione, che genera sempre 100 di gettito, non riceve più i 20 di trasferimento dello Stato, ma paga questi 20 direttamente di tasca sua, perché a quel punto sono divenuti costi di una funzione di competenza propria. Rimangono quindi ancora una volta gli 80 euro che, esattamente come avviene oggi, vengono incassati dallo Stato per finanziare le sue funzioni e fare perequazione territoriale.
Non è neanche vero che aumenteranno le risorse trattenute dalle tre Regioni autonomistiche all’aumentare del gettito, perchè se il gettito arriva, poniamo, a 110, la Regione continuerà a pagare la funzione trasferita per 20, poiché il criterio rimane quello del costo storico. Significa solo che il residuo che incassa lo Stato crescerà a 90.
Anche il rischio che, in futuro, il costo storico tenda a slittare verso l’alto per (presunte) inefficienze gestionali delle Regioni, sarà neutralizzato dalla progressiva entrata a regime del criterio del costo standard: il costo di funzioni identiche, auspicabilmente corretto per differenziali territoriali o locali che incidono sull’efficienza, sarà identico per tutte le Amministrazioni, statali o regionali, che dovranno attenervisi.
Personalmente, e qui concordo con i 5 Stelle, auspico che tale omogeneizzazione avvenga sui fabbisogni standard valutati sui Lep (livelli essenziali delle prestazioni) piuttosto che sui costi standard. Valutare il costo delle funzioni su parametri di servizio alle popolazioni piuttosto che meramente contabili fa una enorme differenza: è qui che risiede una diferenza di impostazione ideologica di fondo: riviene a chiedersi se la spesa pubblica debba finanziare i bisogni dei cittadini, o una esigenza di equilibrio del bilancio. Naturalmente, io sono per la prima risposta, e contrario alla seconda.

Il meccanismo è comunque neutrale dal punto di vista finanziario, e non penalizza nessuno. Non c’è nessuna ruberia dei ricchi sui poveri. Il punto vero è un altro, e verte su un ragionamento circa il regionalizzare completamente materie come la programmazione scolastica, la sanità, le infrastrutture o l’energia. Questo è il punto, perché tramite questo meccanismo, e il progressivo aumento delle Regioni che verranno a chiedere l’autonomia rafforzata, si realizzerà un cambiamento strutturale della forma dello Stato, superando un regionalismo confuso ed inefficiente, per realizzare uno Stato federale.
Anche su questo aspetto, però, si registrano posizioni confuse e piuttosto assurde, basate su una sorta di sovranismo aprioristico. La Germania è uno Stato federale, e non per questo i cittadini tedeschi ed i loro dirigenti politici non hanno un fortissimo senso della Patria e dell'interesse nazionale. Lo stesso può dirsi degli USA. Il patriottismo ed il senso dell'interesse nazionale superiore non dipende dagli assetti di governance, ma da fattori storici e culturali sedimentati in un popolo. L'Italia è stata, per quasi tutta la sua storia unitaria, e certamente per più di un secolo dall'unità fino alla attuazione del regionalismo negli anni Settanta, uno Stato fortemente centralista, e ciò non ha condotto ad una parallela crescita del sentimento nazionale degli italiani, che restano un popolo piuttosto esterofilo e non di rado innervato da sentimenti autorazzisti, o comunque di un ingiustificato disprezzo per sé stesso.
Il problema della crescita del sentimento nazionale non passa per le maggiori o minori autonomie regionali o locali, così come lo sviluppo del Mezzogiorno passa solo parzialmente dai trasferimenti di uno Stato centralizzato onnisciente, perché altrimenti, con il flusso di trasferimenti pervenuti dal Centro dall'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno ad oggi, il Sud Italia sarebbe la California. Se una maggiore programmazione centrale delle politiche di sviluppo del Mezzogiorno è auspicabile, anche una maggiore responsabilizzazione delle sue classi dirigenti locali, di fronte alle popolazioni, è fondamentale, perché sino ad oggi esse hanno potuto beneficiare di una condizione perversa di notabilato: spendere, per meccanismi di consenso, soldi di cui non erano, se non marginalmente, responsabili per la rendicontazione, in quanto provenienti da Bruxelles e da Roma.

Senza voler toccare il nervo delicato dei difetti storici del processo di unificazione nazionale, e delle grandi diversità interne al nostro Paese, che sono valori da preservare e non da distruggere, evidentemente né lo Stato centralista, così caro alle nostre élite liberiste (non ultimo Mario Monti) né lo Stato regionalista, sprofondato nel caos e nella lite fra livelli istituzionali, hanno fornito prestazioni convincenti.


lunedì 11 febbraio 2019

Abruzzo e oltre




L’analisi del voto in Abruzzo è abbastanza semplice e, insieme, molto importante, perché costituisce un rilevante passo in avanti verso il futuro del panorama politico. Per quanto non bisognerebbe mai paragonare elezioni politiche nazionali e regionali, perché mosse da leve e moventi diversi, non vi è dubbio che tale voto abbia risentito dell’andamento nazionale del governo attuale, e quindi in parte sia sovrapponibile con il voto politico del marzo scorso.
Il grosso dell’esplosione elettorale della Lega, almeno il 90-91%, proviene dall’elettorato di Forza Italia. La Lega guadagna infatti 60mila voti sulle politiche del 2018 e 165mila sulle regionali del 2014, mentre FI perde, in tali occasioni, rispettivamente, 55,6mila voti e 58mila voti. In particolare, la differenza fra i 165mila voti in più della Lega fra le due regionali e i 58mila voti in meno di FI ai due medesimi appuntamenti, ovvero 107mila voti, spiega in parte la crescita dei Fratelli d’Italia (+58 mila voti), il secondo beneficiario dopo la Lega del declino del partito di Berlusconi, ed in parte l’incremento di astensionismo fra le due tornate di elezioni regionali.
L’altro 9-10% di voto raccolto dalla Lega in più rispetto a marzo 2018 non può che provenire dal M5S. fra politiche e regionali, i pentastellati perdono una enormità di voti, quasi 185 mila. Di questi, circa 90-100 mila vanno a finire nella maggiore astensione, ed i restanti 85-95 mila, per una piccola quota (5mila all’incirca) vanno alla Lega, che così compone la sua crescita di 60mila voti con 55mila unità in arrivo da FI e 5mila dal M5S.
Ma gli altri voti persi dal M5S, al netto di qualcosa che potrebbe aver favorito il candidato di Cp, ma si tratta di frattaglie, vanno molto probabilmente a finire nel centrosinistra. Infatti, nel centrosinistra, il Pd perde, sempre rispetto alle politiche di marzo, 38mila voti, e LeU ne perde altri 3,7 mila. Ma il centrosinistra, come coalizione nel suo insieme, guadagna 50mila voti in più rispetto alle politiche. In termini algebrici, quindi, le liste civiche del centrosinistra hanno assorbito le perdite del Pd e di LeU, ovvero 42mila voti circa, e ne hanno aggiunti altri 50mila. In pratica, hanno preso 92mila voti all’incirca.
Guarda caso, questi 92mila voti in più sono molto prossimi ai 90mila voti in meno del M5S che non sono andati all’astensionismo ed alla Lega.
Che lezione trarne?
a)       Quello che sta succedendo non è che Salvini sta “cannibalizzando” il voto pentastellato. E’ una lettura semplicistica ed errata. Ciò che sta succedendo, in realtà, è che i 5 Stelle, incapaci di fare fronte alle contraddizioni che si sono aperte fra le basi programmatiche ed ideologiche del MoVimento nella sua fase di opposizione ed i necessari compromessi di governo, stanno implodendo da soli, e la parte più sinistrorsa di questa deriva si fa riassorbire dentro l’alveo del centrosinistra, attratta da movimenti e liste civiche percepiti ancora come “lontani” dalla politica e dai partiti tradizionali e presuntamente “vicini” ai territori. In questo senso, i danni enormi che si stanno aprendo dentro il MoVimento dipendono molto più dalle sirene sinistre di Fico e dei suoi disgraziati seguaci che dalla compartecipazione di governo con Salvini;
b)      E’ possibile che i centrosinistrati, nel tentativo di recuperare voto grillino, si affideranno, anche in chiave nazionale, a movimenti civici non targati da partiti tradizionali. Questo significa che per il Pd suona la campana, mentre movimenti trasversali come quello di Calenda, o come un ipotetico macronismo renziano, potrebbero insorgere per ruscolare voti in fuga dal M5S anche alle politiche;
c)       Il guadagno di quote di voto operaio e di ceto medio che Salvini rivendica di aver conquistato, e che sembra esserci stato, seppur in piccole dosi, se si analizzano i risultati elettorali di Comuni a maggiore tradizione industriale come Avezzano o Sulmona, proviene essenzialmente da quei 5mila elettori 5 Stelle in fuga verso la Lega. Comunque sia, la base politico-elettorale della Lega si sta sempre più allargando a settori sociali diversi dalla piccola borghesia e dal sottoproletariato urbano. La Lega ha le potenzialità per divenire un vero e proprio Fronte Ampio della società italiana, e su questo Salvini dovrà essere molto attento e sensibile: il suo messaggio programmatico dovrà abbracciare anche i segmenti di mondo del lavoro impoverito, e persino di lavoro pubblico, che entrano nella Lega, sapendo offrire loro un compromesso alto fra mercato e protezione, fra ragioni del piccolo e medio capitale e ragioni del lavoro salariato. Sinora, dentro il Governo, le ragioni del secondo vengono avanzate maggiormente dai pentastellati, ma adesso che elettori del 5 Stelle transumano verso la Lega, Salvini dovrà farsene carico. Una destra è popolare proprio perché si sforza di offrire un compromesso utile per tutti i segmenti sociali del popolo, e fornire così una soluzione di riunificazione di un Paese diviso ed inquieto;
d)      Il voto dei sinistri, invece, non si muove: circola dentro le varie coalizioncine, sempre più perdenti, che mettono in piedi, perché sono costituiti perlopiù dai privilegiati che temono l’avanzata populista sui loro vantaggi, e da utili idioti che vivono nel sogno di un mondo che non esiste più, e si muovono alla musica di questo mondo morto (ad esempio, ai richiami su un presunto ed assurdo fascismo di ritorno). Sembra che il circolo interno vada dal Pd, oramai alla frutta, verso nuove aggregazioni civiche trasversali, ma la sostanza della base e degli interessi sociali che questi rappresentano non cambia, se si passa da Renzi o Martina a Calenda.

sabato 9 febbraio 2019

I limiti del bismarckismo ed i pericoli per l'Europa


La Germania è entrata in recessione: l'indice di produzione del manifatturiero, su base congiunturale, è caduto a 92, da 113 di novembre, tornando sui livelli del 2011. L'indice degli ordinativi è caduto di 10 punti in un mese, ed è un indice con valore previsionale, nel senso che se cadono gli ordini è da aspettarsi un ulteriore calo della produzione nei mesi successivi.
La Germania, ovviamente, costituisce solo la punta di un iceberg, nel senso che l’intera economia globale sta entrando in una fase di forte rallentamento, ed i motivi sono molteplici, non dipendenti dalla volontà tedesca: ritorno di forme di protezionismo, rallentamento macroeconomico cinese, alle prese con le contraddizioni del suo processo di crescita, entrata in crisi di alcune economie emergenti, l’effetto della Brexit sulla fiducia degli investitori, ecc.
Non vi è però dubbio che l’Europa si trova in una condizione di particolare fragilità, all’ingresso in questa nuova fase di rallentamento macroeconomico, perché anni di austerità selvaggia hanno minato la tenuta dei mercati interni, hanno ridotto al minimo la capacità di intervento degli Stati nell’economia con funzione anticiclica, hanno fatto crescere, anziché diminuire, i debiti sovrani, hanno peggiorato la qualità dei sistemi scolastici, formativi e delle reti pubbliche di R&S ed innovazione tecnologica.
La crisi colpisce, quindi, un’Europa già strutturalmente malata, come una polmonite che infetta un malato già debilitato da un’altra malattia cronica. Questa situazione di particolare debolezza è, a tutti gli effetti, colpa della Germania. Come più volte detto, in un’area valutaria comune di tipo asimmetrico, in cui, cioè, le performance economiche e di finanza pubblica dei diversi Stati aderenti sono differenziate, la tenuta di tale area dipende dalla capacità dei membri “deboli” di fare politiche di allineamento dei parametri macroeconomici, inflazionistici e di finanza pubblica rispetto al Paese leader. Si tratta, cioè, di un gioco di tipo “follow the leader”, ed è chiaro che, se in tutti questi anni la Germania ha condotto politiche economiche interne di tipo deflazionistico, gli altri Stati membri, con finanze pubbliche più fragili, sono stati costretti a strangolare le loro economie con un’austerità raddoppiata. Di fatto, l’ordoliberismo tedesco ha innescato una spirale senza fine di austerità e liberismo, che ha indebolito l’intero continente, incrementando gli effetti deleteri dei cicli discendenti dell’economia globale, come quello in cui siamo entrati.
Il vero problema è politico, prima ancora che economico (alla faccia di quelli che considerano morta la politica). La Germania, da un lato, non ha voluto intaccare, nemmeno in minima parte, il suo modello produttivo basato su un basso costo dei fattori rispetto alla loro produttività, una inflazione marcata a uomo, investimenti esclusivamente mirati alla competitività dal lato dell’offerta, ed un modello basato sulla Hausbank che, per le evidenti e crescenti difficoltà finanziarie del sistema creditizio tedesco a tutti i livelli (dalla Db alle Sparkassen di proprietà dei Lander) è divenuto insostenibile. Tale modello produttivo indebolisce il mercato interno e si basa in modo essenziale su quello estero. L’enorme avanzo di bilancia commerciale registrato dalla Germania in questi anni, ed il sistematico rifiuto tedesco di abbassarlo, nonostante i criteri del MIP (macroeconomic imbalance procedure), approvati dai tedeschi stessi, sono la conseguenza naturale di questa scelta, una scelta politica, avallata anche dai socialdemocratici, peraltro.
D’altro lato, la Germania (in questo aiutata dalla Francia, che ha condotto la politica del cane che lecca la mano al padrone per avere una focaccia) ha rifiutato qualsiasi coinvolgimento in una governance realmente europea della crisi economica, ricacciando qualsiasi progetto comune, dal redemption fund agli eurobond, di mutualizzazione dei debiti pubblici nazionali, al fine di evitare religiosamente qualsiasi forma di condivisione del rischio che sarebbe stata, di fatto, necessaria per costruire la gamba mancante dell’Europa, ovvero una politica di bilancio comune. Pur di non rischiare nemmeno in futuro di cadere in qualche forma di condivisione del rischio, i tedeschi hanno consentito al loro ex Ministro delle Finanze in uscita, il tetro Shaeuble, di diffondere un “non paper” nel quale si proponeva addirittura un rating dei debiti sovrani dei singoli Stati membri, che avrebbe prodotto, se attuato, una crisi finanziaria mondiale, di tipo terminale.
Adesso che i nodi arrivano al pettine, e la combinazione fra ordoliberismo ostinato e rifiuto della condivisione del rischio sta trascinando l’intera area euro in un rallentamento che ha il sapore di una recessione, i tedeschi sfuggono di nuovo alle loro responsabilità di leadership: firmano con la Francia, ad Aquisgrana, un trattato che di fatto esautora le istituzioni della Ue, creando un asse privilegiato Berlino-Parigi che esclude il resto dell’Europa dalle decisioni importanti, e, con una disinvoltura impressionante, spedisce il suo Ministro dell’Interno, Altmaier, ad esplorare i territori a lungo abbandonati e tornati vergine delle partecipazioni statali, della politica industriale programmata e del capitalismo di stato. Con impressionante disinvoltura, Altmaier, alfiere dell’ordoliberismo ortodosso, oggi afferma che “i mercati, da soli, non possono risolvere tutti i problemi e non possono dare agli investimenti la direzione ideale verso i settori e le tecnologie emergenti, che però ad oggi non hanno ancora mercati di riferimento”. E, come al solito, propone un asse privilegiato con la Francia per sviluppare progetti industriali comuni, soprattutto nelle nuove tecnologie di Industria 4.0, tramite investimenti pubblici e/o privati, ma incanalati da forme di programmazione pubblica. E chiede a gran voce che l’Antitrust europea si incarichi di bloccare progetti di merger and acquisition di imprese tedesche da parte di investitori stranieri.
Una piccola postilla: quando pubblicai questo articolo http://www.linterferenza.info/contributi/la-battaglia-anti-euro-ancora-possibileauspicabile/ venni insultato e aggredito da una masnada di anti-euro fanatici. Ma in realtà questo articolo, posso dirlo, anticipava il piano Altmaier. Era basato su una semplice constatazione: non potendo sostenere i costi economici e sociali di una uscita dall’euro, era molto meglio ripristinare la capacità di fare politiche industriali nazionali, a guida pubblica, andando a colpire gli articoli del Trattato che impediscono tale facoltà, in nome di un approccio da economia sociale di mercato. E’ interessante vedere che chi ieri mi criticava perché proponevo il ritorno a politiche industriali nazionali, oggi si complimenta con il ministro tedesco. Mi conferma nella certezza che la stupidità e la malafede sono qualità dominanti negli esseri umani.
Fatto questo breve inciso, e tornando al discorso principale, sostanzialmente, il giochino è chiaro: dopo aver rovinato l’Europa per difendere la Vaterland e per evitare qualsiasi interferenza esterna, di fronte ai danni che questa politica ha creato, persino alla stessa economia domestica tedesca, i germanici scaricano ciò che resta dell’Europa, per rinchiudersi, difensivamente, nelle mura del loro Stato, mettendo il gendarme francese a custodire il “limes”.
Non c’è niente di nuovo. Culturalmente, la Germania, pur avendo da sempre avuto gli strumenti economici ed industriali, oltre che di forte senso patriottico, per esercitare un ruolo imperiale, ha sempre interpretato la funzione imperiale con l’ottica di Bismarck: rifiutando l’idea stessa di impero, che necessariamente comporta una fusione fra gli assetti sociali, culturali ed economici dei vincitori e dei vinti (tanto che, ad esempio, nell’impero romano, i veri vincitori, culturalmente, erano i greci) la logica bismarckiana del Deutschland Uber Alles vede nei partner soltanto delle aree di sfruttamento e scaricamento delle tensioni sociali ed economiche interne, una sorta di lebensraum economico a servizio del popolo eletto, che non può essere minimamente scalfito nei suoi interessi, figli di un Destino Superiore. La stessa adesione tedesca alla Ue è stata da sempre minata dalla dottrina Ehrard, che, pur di perseguire gli interessi nazionali tedeschi, privilegiava il rapporto autonomo con gli USA piuttosto che con gli altri Paesi europei. I tedeschi sono fatti così, non è possibile cambiarli, e purtroppo, alla lunga, diventa dannoso conviverci, senza far valere con forza i propri interessi, anche andando allo scontro.

giovedì 7 febbraio 2019

I motori (possibili) dello sviluppo di Livorno


Riccardo Achilli

Chi vincerà le elezioni a giugno avrà di fronte lo scenario di una città attraversata da una lunghissima crisi strutturale, una crisi di vocazione economica, che è iniziata ben prima della recessione globale del 2007, e che affonda le radici negli anni Settanta, con il progressivo declino del modello industriale basato sulla grande industria nei settori di base, a proprietà pubblica, sul quale si era costruita l’industrializzazione del triangolo Piombino-Livorno-Pisa.

Bisognerà evitare iniziative per le quali la città non è assolutamente vocata, e per i quali non dispone né di risorse endogene sufficienti a battere la concorrenza, né di appoggi politici o economici esterni, come l’idea di farne una candidata per la corsa a Capitale Italiana della Cultura per il 2021.

Bisognerà anche, ovviamente, essere consapevoli dei limitati margini di manovra di cui dispone un’amministrazione comunale, che non può più dotarsi, come in passato ai tempi della Spil, di agenzie pubbliche per promuovere interventi e progetti di reindustrializzazione.

Occorrerà quindi concentrare il ruolo dell’amministrazione in una funzione di polarizzatore di forze ed interessi di una pluralità di soggetti, pubblici e privati, massimizzando le risorse disponibili, concentrandole su un limitato set di motori di sviluppo in grado di esercitare un effetto di leva. Le tendenze più recenti dell’economia dello sviluppo territoriale non sono favorevoli a puntare sul cosiddetto “greenfield”, ovvero sulla progettazione ex novo di settori di attività che non hanno, nelle vocazioni e nel modello specifico di sviluppo del territorio, un qualche tipo di connessione, produttiva o cognitiva che essa sia. Ad esempio, Ron Boschma sostiene l’esigenza di scegliere i settori sui quali mirare le politiche di sviluppo con priorità sulle “filiere incomplete”, cioè su settori che rappresentino gli anelli di chiusura di filiere già parzialmente presenti sul territorio.

A giudizio di chi scrive, ed in base al sopracitato criterio, i motori sono sostanzialmente quattro: la riqualificazione urbana, un nuovo ruolo del porto, la nautica e lo sviluppo di PMI innovative nell’ambito di Industria 4.0.

La riqualificazione urbana significa far partire progetti sui quali si è consumato un grande scontro politico, senza però raggiungere risultati: la ristrutturazione dell’ospedale, la rivalorizzazione della periferia settentrionale, la rifunzionalizzazione energetica degli edifici pubblici, il progetto di Cittadella dello Sport ad Ardenza, fino a progetti più piccoli, ma di grande impatto sociale, come quelli miranti alla messa in sicurezza di un territorio che gli eventi alluvionali del Settembre 2017 hanno mostrato molto più fragile di quanto si pensasse. Si tratta, innanzitutto, di produrre un effetto di cantiere in termini di occupazione e redditi: Confartigianato, ad esempio, calcola che per ogni euro di investimento in edilizia o opere pubbliche, si crea un maggiore Pil per 0,75 euro. Ma l’effetto va oltre quello di cantiere: attorno a progetti di riqualificazione urbana possono coagularsi opportunità imprenditoriali: la Cittadella dello Sport può diventare un’area in cui concentrare servizi di leisure e servizi per il tempo libero, oltre che opportunità nel commercio. La riqualificazione delle periferie può attrarre progetti di Social Housing, per i quali, tra l’altro, la Cassa Depositi e Prestiti dispone di fondi specifici. La riqualificazione energetica degli edifici può costituire un bacino per far nascere imprese nell’edilizia dei nuovi materiali e/o nell’impiantistica.

Naturalmente, ciò presuppone il recupero di una capacità di progettazione complessa da parte pubblica, che decenni di austerità e di blocco del turn over hanno depauperato. Tale capacità, nel breve periodo, può anche essere recuperata dall'esterno, tramite concorsi di idee e gare di appalto integrato.

Il secondo motore è, in fondo, la riproposizione della vocazione storica, per così dire, della città. Senza nulla togliere ad un più che necessario avvio dei lavori per la Darsena Europa ed una migliore connessione fra porto e retroporto, valorizzando al massimo l’interporto, lo scalo livornese può ancora rappresentare l’asse centrale di produzione di ricchezza, purché si sappia diversificare le sue funzioni, non concentrandosi solo sul traffico container, che è affetto da una concorrenza feroce (sulle rotte occidentali verso le Americhe o l’Europa nord occidentale, il quadrante ovest del Mediterraneo è pieno di grandi porti già attrezzati, con i fondali giusti per attrarre le navi post-Panamax e spesso costi del lavoro in banchina molto bassi, sulle rotte della Nuova Via della Seta, i porti del quadrante orientale del Mediterraneo hanno un vantaggio, in termini di posizione geografica, difficilmente invertibile). Si può pensare ad un rilancio, stavolta fatto con serietà e non con operazioni di modesto livello come quella del Water Front, della crocieristica, valorizzando il porto come hub marittimo per i crocieristi diretti verso Pisa o Firenze, come Civitavecchia sta facendo efficacemente a servizio di Roma. Non si tratta, ovviamente, di immaginare un mero servizio di passaggio di flussi verso altre città d’arte toscane, ma di trattenere parte della spesa dei turisti sul territorio mediante la messa a disposizione di servizi (dai tour guidati sui Fossi ad un lungomare attrezzato allo shopping in centro).
Altro settore interessante è quello del commercio di autoveicoli, sul quale Livorno può competere con un minor numero di altri scali italiani, e che può ulteriormente crescere valorizzando meglio le rotte da/per le Americhe e gli altri mercati automotive mediterranei (Penisola Iberica e Francia in primis).

Per quanto riguarda la nautica, dopo la lunga fase di difficoltà nella quale si è dibattuto, cambiando anche radicalmente la sua configurazione di mercato, occorre puntare sul settore della produzione dei grandi yacht, ora che finalmente è tornata disponibile dopo la lunghissima fase di sequestro giudiziario una infrastruttura di grande importanza come il bacino galleggiante, per la quale l’auspicio è che la relativa gara di affidamento in concessione non segua le tradizionali lungaggini burocratiche italiane. Tale struttura è fondamentale, ovviamente, per il cantiere Benetti-Azimut, ma non solo, potendo, nel tempo, divenire un riferimento per un cluster della nautica più ricco ed articolato, che si avvarrebbe anche delle competenze specialistiche della manodopera locale.

Infine, la presenza, a venti chilometri di distanza, di un polo universitario di eccellenza, che integra anche la Normale e i laboratori di cibernetica del Sant’Anna, fanno di Livorno un’area ideale per sviluppare cluster di PMI innovative, anche derivanti da spin off accademici, in settori come la robotica, la sensoristica, l’intelligenza artificiale, i nuovi materiali, la micromeccatronica la genetica e microbiologia. Si tratta di attrarre iniziative imprenditoriali tramite la vicinanza fisica con il polo pisano, evidentemente non solo con iniziative come gli incubatori, che si limitano a fornire i sia pur necessari spazi fisici e connessioni alle utility, ma soprattutto con la messa a disposizione di un bacino di forza lavoro e capacità imprenditoriale ad altissimo livello di qualificazione, anche mediante incentivi specifici a portarla a vivere e lavorare in città, il che, peraltro, mette in gioco anche il tema della qualità della vita, non sempre particolarmente preso in considerazione a Livorno. Bisogna invece sapere che chi ha una elevata professionalità, che può spendere ovunque nel mondo, per lavorare o fare impresa in un luogo tiene conto anche della vivibilità del luogo stesso. Il costo delle abitazioni, relativamente basso rispetto ad altre realtà del centro nord, ha poco appeal, se non è accompagnato da servizi, infrastrutture, decoro urbano. E’ su questo che si può puntare per delocalizzare su Livorno almeno una parte delle conoscenze scientifiche e tecnologiche prodotte nel polo pisano.

Questi sono gli assi fondamentali che, a mio parere, la città è chiamata a valorizzare per tornare a crescere e togliersi di dosso quella tristezza da declino e quell’eterno presente di paralisi al quale è condannata da troppi anni. L’auspicio, al di là della scelta dei settori propulsivi, che può anche differire da quella proposta in questa sede, è che si resti concentrati su una strategia basata su poche vocazioni produttive prioritarie e collegate a vantaggi competitivi distintivi del territorio, senza disperdersi in troppe direzioni, e selezionando attività in grado di attivare ricadute produttive sia a monte che a valle, in una logica di filiera, evitando pericolose tentazioni verso più facili, ma meno impattanti, interventi puntiformi e scoordinati l’uno dall’altro.