sabato 21 dicembre 2019

Perchè in Francia si protesta e in Italia ci sono le sardine? Alcuni spunti di una riflessione possibile




Perché in Francia un intero popolo protesta da settimane in forma radicale e da noi è sorto un movimento filo-sistemico e narcotico come quello delle Sardine? Perché da loro ci sono i gilets jaunes e da noi no? Credo valga la pena di interrogarsi a fondo su tale dilemma, evitando posizioni facilone, del tipo “quanto sono ganzi i francesi e quanto siamo bischeri noi”.
Senza voler avere la pretesa di una spiegazione esaustiva, propongo alcuni spunti di possibile riflessione. Fondamentalmente, la Francia è diversa dall'Italia, per ragioni strutturali e sovrastrutturali. Dal primo punto di vista, va considerato che è un Paese più giovane: l'età media dei francesi è attorno ai 40 anni, la nostra sui 45. Una popolazione più giovane si ribella più facilmente perché coltiva una speranza di miglioramento, una più anziana si rifugia nella paura e nella rabbia livida, perché ha esaurito il tempo della speranza. I primi si ribellano scendendo in piazza, i secondi votando per partiti che coltivano le paure.
Un altro motivo strutturale risiede nelle caratteristiche delle diseguaglianze sociali dei due Paesi. Se è vero che la diseguaglianza distributiva francese è quantitativamente meno grave di quella italiana (i rispettivi valori dell'indice del Gini applicato al reddito disponibile sono di 28,5 per la Francia e di 33,4 per l'Italia) grazie ad una più diffusiva presenza dello stato sociale, è anche vero che le caratteristiche della diseguaglianza sociale sono, in Francia, particolarmente odiose, con una élite autoreplicantesi tramite la partecipazione ad accademie di eccellenza, come l'ENA o la Sorbona, ed il disagio sociale fisicamente allontanato dai centri delle città, e rinchiuso in banlieues, che più che quartieri popolari assumono una fisionomia di città satelliti, veri e propri ghetti urbani nei quali anche uscire fisicamente è difficile. La condizione urbana italiana è meno “escludente”, anche se, ovviamente, segue la stessa tendenza: in città come Roma, borgate in degrado si affiancano a quartieri residenziali, il quartiere olimpico di case popolari è stretto fra Parioli e Collina Fleming, la Magliana è fisicamente vicina a zone residenziali dell'Eur, e così via. Inoltre, l'amplissima diffusione di economia nera e sommersa, nel nostro Paese, garantisce redditi addizionali invisibili dal punto di vista statistico, e funge, seppur illegalmente, da ammortizzatore sociale.
Fuori dalle città, la differenza del tenore di vita urbano con quello di sistemi agricoli obsoleti, e totalmente mantenuti da un PAC concepita appositamente per il comparto primario francese e di pochi altri Paesi nordici, è evidente. Un sistema agricolo non competitivo come quello francese – a differenza delle aree agricole ad alta competitività di prodotto del Centro-Nord italiano, non a caso serbatoi di voti per la destra leghista - sopravvive a stento (il fenomeno dei suicidi di agricoltori è endemico) grazie alle quote della PAC e a politiche pseudoprotezionistiche, ed è proprio la protesta contadina guidata da figure come José Bové ad aver dato nascita, a fine anni Novanta, all'onda lunga delle contestazioni di piazza francesi. Al dramma delle campagne, si aggiunge quello dei sistemi industriali in declino, come il Nord Est carbonifero del Pas-De-Calais o l'Alsazia o, ancora, il declino delle zone di itticoltura della Bretagna (in Francia fu anche lanciato un gradevolissimo film comico, qualche anno fa, su un benestante e raffinato dirigente pubblico che, dalla sua solare Marsiglia, fu costretto a spostarsi nel grigio Nord in declino).
Sotto il profilo sovrastrutturale, ed in particolare sotto l'aspetto culturale, va preso in considerazione che, come per la storia individuale di ciascuno di noi, anche per gli Stati la storia pregressa, le origini dell'assetto istituzionale esistente, assumono una funzione di miti fondativi, sono le basi dalle quali un popolo tende a non discostarsi mai. La Repubblica francese è nata da una Rivoluzione, sebbene borghese (ma combattuta in piazza dai sanculotti) ed il mito rivoluzionario è fortissimo nella coscienza nazionale, viene riportato nell'inno nazionale, viene santificato nell'educazione scolastica. I francesi hanno la rivoluzione nel sangue, vengono tirati su con l'idea, idea sistemica, repubblicana, che ad uno stato di cose insoddisfacente ci si ribella in piazza. Non solo: ma essendo stata una Rivoluzione di popolo, che ha messo insieme il borghese con il contadino e l'operaio, ha creato un mito unificante dello Stato. Un patriottismo unico, nato da una rivoluzione sociale, per il quale sentirsi comandare a bacchetta da Berlino o Bruxelles è inaccettabile.
Noi italiani, poverini, abbiamo fondato la nostra Repubblica non sugli ideali mazziniani, ben presto dimenticati da una borghesia nazionale tetragona ed ottusa, ma su una guerra civile fra fascisti ed antifascisti che ha abbattuto una monarchia ridicola di montanari ignoranti, non grande come quella francese. Una guerra civile non è una Rivoluzione: divide anziché unire sotto i valori rivoluzionari che diventano di sistema. Una guerra civile che, quindi, anziché produrre un effetto unificante del nostro popolo dentro il riconoscimento di valori nazionali comuni, come avvenuto in Francia, ha prodotto una frattura insanabile. Il sardinismo è soltanto l'ultima manifestazione di un ottuso ed antistorico antifascismo in assenza di fascismo, che altro non è che il sintomo esteriore di una frattura insanabile interna al nostro popolo.
Questo ha avuto effetti politici enormi: in assenza di un riconoscimento mutuo, come avvenuto nel sistema politico francese, la sinistra italiana si è svuotata di contenuti, degradando, via via, verso uno stanco e inattuale mito del partigiano, e, per sfuggire ad un popolo che non sentiva “suo”, si è prima rifugiata nel moralismo berlingueriano, e poi nell'europeismo acritico, visto come cura per un popolo sostanzialmente odiato e disprezzato. La destra italiana, specularmente, anziché seguire le traiettorie di quella francese, che con il poujadismo ha sperimentato per la prima volta una unione di intenti, in ambito democratico, fra proletariato e piccola borghesia, e che con il lepenismo è rimasta fermamente dentro un solco repubblicano, ha assunto tatti difensivistici di fronte all'egemonia culturale dell'antifascismo, divenendo micro-corporativa, territoriale, biecamente e stupidamente anticomunista in assenza di comunismo. Anziché proporre una via nazionale, come il lepenismo, ha proposto una via individuale al godimento, nel berlusconismo, e nel salvinismo che vi si approssima.
La presenza pervasiva della Chiesa in Italia ha fatto il resto, imponendo una dottrina sociale in cui la protesta deve lasciare il posto alla composizione mediata, e per certi versi trasformistica, degli interessi sociali divergenti. Ciò ha inquinato i pozzi della sinistra dopo gli anni Ottanta, quando ne è iniziato il declino elettorale e di consenso, e la tentazione, che ha dato vita all'ulivismo ed al Pd, è stata quella di incorporare il cattolicesimo sociale e dossettiano non su un piano di sussidiarietà e di dialogo, ma di pari dignità rispetto alle cultura socialdemocratica preesistente. La babele dei linguaggi politici della sinistra, derivante da una fusione malriuscita nel Pd, come dice D'Alema, ha generato mostri come il renzismo, una forma bizzarra di populismo centrista che predica l'innovazione non come prospettiva, ma come rottamazione e distruzione del pregresso, in cui sfogare, ovviamente in modo sterile, le energie sociali contestatarie: anziché contestare il sistema, si contestano le Caste politiche precedenti, che assumono il ruolo di agnelli sacrificali. Due birbanti sociali come Casaleggio e Grillo hanno avuto la stessa intuizione, costruendo un movimento falsamente ribelle, che ha contribuito ad assorbire e poi annullare la protesta sociale.
Last but not least, la differenza enorme nel sindacalismo. Il sindacalismo francese è, geneticamente, sin dalla Charte d'Amiens, autonomo dalla politica, e la cinghia di trasmissione fra i sindacati confederali - soprattutto la CGT - e la politica, è stata meno forte e più episodica rispetto all'Italia. Mentre CGIL, CISL e UIL erano impegnate freneticamente a trovare spazi di concertazione politica e di copertura partitica, perdendo di vista la purezza dei loro obiettivi primari di difesa del lavoro, il sindacalismo francese ha avuto meno paura di scendere in piazza, anche contro governi teoricamente “amici” o prossimi, ed ha accettato meno compromessi sulla difesa del lavoro in vista della partecipazione alla concertazione generale del Paese. Ciò spiega perché la CGIL abbia fatto una quindicina di minuti di sciopero contro il Jobs Act e la CGT sia presente da settimane nelle piazze francesi, al cuore di proteste violente ed interminabili.
D'altro canto, la Francia è il Paese europeo con la più bassa adesione ai sindacati, molto meno che in Italia, mentre il sindacalismo di base è più pervasivo. Ciò, da un lato, indebolisce il sindacato, ma dall'altro, in presenza di tutte le condizioni strutturali e sovrastrutturali sopra ricordate, allarga gli spazi per la nascita di movimenti spontanei come i gilets jaunes. Il sindacalismo francese, in altri termini, vive dentro il paradosso fra una maggiore autonomia di movimento nel difendere le ragioni di lavoratori e pensionati, e minori spazi sociali di radicamento. Entrambi i corni di questo paradosso lo spingono ad assumere posizioni più radicali di quelle del sindacalismo italiano.
In conclusione, non pretendo di aver spiegato tutto, o di aver dato un quadro sufficiente, ma credo fortemente che le differenze che ho cercato di tratteggiare siano sufficienti a spiegare perché, in Italia, non nascerà niente di sia pur lontanamente simile a ciò che agita le strade della Francia.



sabato 7 dicembre 2019

Spunti per un possibile socialismo patriottico (che non andrebbe chiamato così)


La sinistra a guida piddina (il resto sono frange legate ad alleanze subalterne con il Pd o irrilevanti in termini di consenso) ha largamente fallito nel tentativo di gestire il Paese, e ne sta amministrando un lento ma inesorabile declino, non riuscendo a proporre una ricetta che gli restituisca prospettiva. Gli italiani scivolano lungo un declivio di disperazione, rassegnazione e rabbia. Un mix molto pericoloso. Il tentativo di rivoluzione giacobina del M5s sta implodendo per incompetenza, moralismo giacobino e governismo ad ogni costo, lasciando senza prospettive elettorali il rilevante consenso raccolto nella sua fase ascendente.
Gli strati popolari, perlopiù provenienti da sinistra, che ora appoggiano la Lega, saranno delusi dall'impostazione liberista che prevale in quel partito, e che sarà rafforzata dalla sua ascesa al governo nei prossimi mesi (perché un conto è abbaiare sovranisticamente all'opposizione, altro conto è stare al governo e gestire un Paese sul bordo del crollo e senza peso in politica estera). Il centrodestra a guida leghista proporrà poco più che un lafferismo fiscale coperto con una riduzione della spesa sociale, oltretutto compresso da vincoli europei che non vorrà, se non a parole, piegare, associato ad un contrasto all'immigrazione mediatico ed incapace di proporre rimedi strutturali, oltre l'infinita lotta nave Ong per nave Ong ed un securitarismo inefficace (è noto che i Paesi più securitari sono anche quelli a maggior incidenza di criminalità violenta). Il tutto condito da un autonomismo regionale strumentale alla perenne rivolta fiscale dei ceti produttivi del Nord, non ad una valorizzazione e responsabilizzazione dei territori. Non potrà fare altro perché questo è ciò che gli chiede la sua base di consenso storica, il suo nucleo vitale, che rimane ancorato ai territori lombardo-veneti, e questo gli consentiranno di fare i vincoli esistenti.
Tutto ciò non farà che allargare le diseguaglianze, ed i ceti popolari delusi non torneranno a votare per una sinistra geneticamente modificata, non avranno lo sfogatoio del M5s, che implodera', non voteranno per qualche proposta di Italexit, che istintivamente temono, ma rifluiranno verso un astensionismo rabbioso e pronto a farsi reclutare in qualche avventurismo sovversivo ed autoritario. Già oggi, ci dice il Censis, la maggior parte degli italiani vorrebbe un “uomo forte”.
Per evitare tale epilogo, servirebbe una proposta programmatica fortemente patriottica, mirata ad una regolazione civile ma rigorosa dell'immigrazione, euro-critica senza esagerazioni da Italexit della serie ci-stampiamo-i-soldi-da-soli-e-ci-autoripaghiamo-il-debito (e per favore posate il fiasco e ricordatevi di Weimar). Meglio pensare ad una battaglia di riconquista di margini di politica fiscale per fare deficit e a margini di politica industriale, sui quali occorre un piano di riconversione produttiva del Paese di medio periodo, basato anche sulle ppss. Tale proposta dovrebbe avere una impronta statalista e keynesiana, basata su un programma di investimenti pubblici nella scuola, nella ricerca, nelle infrastrutture e nella difesa del territorio, ed essere fortemente redistributiva nell'approccio sociale e nel recupero di una politica dei redditi. Si preveda un tasso di crescita dei salari legato alla crescita del Pil, come proponeva, ad esempio, la Uil.
Una simile proposta dovrebbe partire da un presupposto di fondo, ovvero quello che, anche strutturando opportune alleanze euromediterranee con altri Paesi, l'Asse franco-tedesco vada allentato, evidentemente non spezzato, perché ciò è impossibile, ma condotto a fare mediazioni. In primo luogo, nelle politiche industriali, dove il concetto di aiuto di Stato, tipico di una dottrina ordoliberista che pervade i Trattati, va allentato. Di fronte al declino industriale, occorre tornare a poter fare politiche industriali di settore. Inoltre, occorrono maggiori margini di politica fiscale, attraverso margini di maggiore condivisione del rischio, o, se ciò non sarà concesso, la disobbedienza ai Trattati, esattamente come fa la Germania, che viola sistematicamente le regole impunemente. Certo, il nostro peso e la nostra credibilità sui mercati finanziari sono ben diversi, ma sappiamo anche che a nessuno conviene il default sovrano di una economia così grande, con potenzialità sistemiche disastrose.
Detta proposta dovrebbe evitare come la peste ogni richiamo identitario. Niente socialismo, comunismo, socialdemocrazia nel nome e nel simbolo. Niente frasi di Marx, nemmeno di Groucho. L'identitarismo non attrae, se non i pochi nostalgici, ed è un ostacolo in termini di libertà di movimento. Chi si sente parte di quella storia la custodisca nel segreto del proprio cuore. Tale formazione non dovrebbe aver paura di fare specifiche battaglie con la destra, se sono coerenti con la sua proposta programmatica. Dovrebbe essere chiara sui suoi riferimenti sociali, non fare partigianerie fuori tempo massimo rispetto alla collocazione nell'arco partitico, rispetto alla quale dovrebbe muoversi con autonomia e spregiudicatezza, in base ai temi.
Dovrebbe avere una organizzazione radicata nei territori ma al tempo stesso snella, fatta di pochi referenti settoriali a supporto di un coordinatore eletto da una assemblea di rappresentanti dei territori, una leadership comunicativa e fortemente rappresentativa della linea politica, niente cazzate su guida collettiva o collegiale, molta attenzione a gestire la discussione interna senza dare la solita impressione di spaccature interne molto forti, tipica del tafazzismo di sinistra. La comunicazione è fondamentale, al leader serve anche quella empatia nel connettersi ai sentimenti popolari che spesso manca a chi viene da una formazione politica di sinistra. Evidentemente, nessun soggetto che abbia avuto qualsivoglia ruolo decisionale, di militanza o di elaborazione politica ed intellettuale nella sinistra attuale dovrebbe essere imbarcato.
Nessun settarismo né feticismo, l'intellettuale è al servizio del partito, non un idolo da venerare e sbandierare come in trofeo. Il lavoro intellettuale deve servire a dare profondità a quello politico, non confondersi con esso. Nessuno snobismo, si sta fisicamente nei luoghi della sofferenza sociale, si va nei quartieri difficili, si va fra gli operai che temono per il loro lavoro, ci si prendono gli schiaffoni se serve, ma ci si va portando soluzioni, non dicendo che non si hanno. Si tengono i rapporti con le frange combattive del sindacato, anche quelle di base, senza andare dai confederali solo perché sono confederali, ma ci si tiene aperto un canale di dialogo con tutto il mondo del lavoro, confederali compresi.
Si guarda ad un blocco sociale che integri il sottoproletariato urbano, il proletariato industriale meno rappresentato, racchiuso nei circuiti della subfornitura e della monocommittenza, i nuovi lavori ad alto tasso di sfruttamento, dai rider al precariato cognitivo alle finte partite Iva, senza offrire stupide stabilizzazioni a chi non le vuole, ma modelli fiscali e di welfare su misura delle esigenze di queste figure, ivi compreso un salario minimo di dignità per chi è fuori dalla contrattazione collettiva, la piccola borghesia a mercato interno, anche il salumiere.
Si difende la famiglia, cari miei, perché la famiglia non è quel luogo pruriginoso di vizi borghesi e di depravazioni conformiste che la sinistra immagina, è l'ultimo baluardo di una società che vuole difendere le sue radici e la sua solidarietà, prima che la distopia libertaria dei sinistri cultori di un relativismo grottesco spazzi via tutto. E allora si difende la prima casa, nessuno la può pignorare, e si torna a costruire nuove case popolari, per dare una casa a tutti. Si difendono i bambini dagli orchi travestiti da operatori sociali. Si afferma la centralità anche spirituale della famiglia. Si difende la natalità, si dà piena attuazione alla legge sull'aborto, anche laddove prevede interventi di prevenzione. Si opti per un modello che non uccida il nascituro, che gli consenta di nascere ed essere adottato con opportuni incentivi.
Si difendono i rifugiati veri e si offrono percorsi di cittadinanza ai minori abbandonati già residenti da noi, si fanno entrare immigrati dotati di quella professionalità e rettitudine civile e lavorativa che siano utili per la nostra economia, e si combatte ogni forma di sfruttamento lavoristico nei loro confronti, inquadrandoli nei CCNL e nel sistema delle tutele legali: il caporalato e lo sfruttamento degli immigrati preludono allo stesso trattamento che sarà fatto ai lavoratori italiani. Ma si chiudono le frontiere a chi non ha diritto, salvo piccoli flussi aventi professionalità rare e pregiate. Si attuano politiche di respingimento e di rimpatrio rigorose, veloci, massive, umane per quanto possibile. Chi resta da noi va assimilato, l'obiettivo è quello di farne un italiano nel giro di una generazione. Niente multiculturalismo patchwork. Ti accogliamo, sei tu che ti devi adeguare a noi.

Si difendono le caratteristiche garantiste, democratiche, volte al recupero sociale e rispettose della persona e della sua libertà del nostro ordinamento giuridico, senza tentazioni forcaiole, senza giustizialismo. Si garantisca vera indipendenza alla magistratura, proibendone le correnti interne e prevedendo la decadenza in caso di candidatura politica, si ragioni su un divisione delle carriere funzionale a un maggior garantismo, non ad ipotesi punitive. E, mi sia consentito, qualcosa andrebbe fatto, in termini di riforma, sulla giustizia minorile, caratterizzata da un procedimento privo di contraddittorio e di equilibrio fra diritti della difesa e dell'accusa, affidata, in sede di istruttoria dei casi, a servizi sociali sprofessionalizzati o formati su teorie psicosociali e pedagogiche sbagliate, affetta da molteplici conflitti di interesse. 



domenica 24 novembre 2019

Lettera aperta alle sardine


Ho ricevuto su un mio post anti-sardine una critica da parte di uno degli organizzatori dei diversi eventi sardinistici che si stanno sviluppando. Presenta il profilo tipico di molti giovani attuali, costretti a dividersi fra un pluralità di lavori precari per sopravvivere, evidentemente a stento.
Non conoscendo la persona, non ho motivo di mettere in dubbio quanto afferma, e sicuramente fra quanti riempiono le piazze con questi simboli ce ne sono molti come lui, sarebbe assurdo affermare che le migliaia di partecipanti alle piazze sardiniste siano tutti iscritti al Pd, come è altrettanto assurdo tacciare di fascisti tutti i partecipanti ai comizi di Salvini. E' quindi necessario cercare di trarre spunto da tale critica per ragionare un po' di più.
Mentre fuori dal nostro Paese, anche se generalmente con risultati fallimentari, la sinistra si è interrogata, o ha finto di farlo, sui legami fra globalizzazione, diritti economici negati e non difesi e derive populiste di destra, da noi tale riflessione non è pervenuta. Quando persino i liberisti più avveduti, come Calenda o Cottarelli, iniziano ad avanzare timori sugli eccessi raggiunti da una adesione acritica al liberismo attuale, il pensiero non va oltre quanto proposto da Barca a Bologna, oltretutto in condizioni di isolamento rispetto alla dirigenza del Pd: un blando riconoscimento dei danni sociali dell'apertura eccessiva dei movimenti di capitali e della concentrazione delle conoscenze e dei saperi su una minoranza oligarchica, con il conseguente abbattimento di ogni mobilità sociale. Blandi riconoscimenti di errori a fronte dei quali Barca propone rimedi modestissimi, e per certi versi inadeguati, perché ancora nel solco liberista: campioni imprenditoriali europei nell'high tech (una cosa alla quale riflettevo a metà anni Novanta, quando tutti, me compreso, eravamo in fase di ubriacatura europeista), salario minimo (che nella versione piddina altro non è che il rinvio ai CCNL), qualche controllo in più da parte degli Ispettorati del Lavoro per verificare la regolarità contributiva delle imprese, rafforzamento delle competenze dei governi nazionali in materia di promozione e selezione degli investimenti e ridisegno delle vocazioni produttive delle aree di crisi (si tratta di un modesto upgrading delle competenze tecniche dello Stato-arbitro esterno al mercato, cosa ben diversa da un penetrante ruolo interventista dello Stato in economia).
Persino questa blanda critica, e questa curetta modesta, che non rimette in discussione i fattori strutturali che hanno causato la sconfitta definitiva del lavoro rispetto al capitale, riescono a penetrare nel corpo del Pd, non solo nei suoi dirigenti, ma anche nei suoi militanti. I motivi di un degrado culturale e politico della sinistra italiana così drammaticamente grave, anche oltre il declino subito in tutto l'Occidente sviluppato, sono molteplici e non è questa la sede per approfondirli. Evidentemente, e l'inconsistenza politica e culturale del movimento delle sardine lo dimostra, una narrazione perversa è penetrata sin nei gangli più profondi di ciò che resta della sua militanza storica, che ancora persiste dentro il Pd, legata ad una obsoleta connessione sentimentale ad una storia che non esiste più, la cui agonia è iniziata con la Bolognina del 1989 ed il cui epilogo si consuma al Lingotto.
La narrazione è la seguente: il conflitto sociale non è desiderabile, perché ci riporta alle tragedie del Novecento, facendo risorgere comunismo e fascismo, ed è superabile con la retorica del merito: è sufficiente liberare la società da ogni vincolo etico e morale, quindi massimizzare le libertà civili, affinché il merito e la responsabilità individuale facciano la differenza. Se sei un laureato precario che fa tre lavori per sopravvivere, se sei un cinquantenne disoccupato, se non arrivi alla fine del mese pur lavorando, se sei un piccolo imprenditore affogato nel debito, beh, è colpa tua. In un mondo teorico completamente libero da qualsiasi vincolo e dove vige un principio di libertà individuale assoluta, avresti potuto gestire meglio le tue finanze, avresti potuto fare quel corso di formazione professionale che ti avrebbe aperto più porte, avresti potuto farti venire una idea imprenditoriale vincente e fartela finanziare con il fondo di microcredito della tua regione, avresti potuto emigrare in Germania, brutto pelandrone che sogna di radicarsi con una casa ed una famiglia dove c'è la tua identità personale e culturale, non hai capito che nel corso di Economia Politica I ti hanno spiegato che i fattori produttivi sono mobili e, in uno spazio omogeneo e a-identitario, vanno dove c'è domanda di lavoro?
Se protesti contro questo destino, sei automaticamente un fascista ed un populista di destra. Perché, sempre dentro questa visione del mondo, se, anziché utilizzare la tua libertà personale per cercarti una strada di miglioramento della tua condizione, osi protestare con l'unica protesta che è stata lasciata ai ceti popolari (strada sbagliatissima, come spiegherò a breve), precipiti dentro l'autocommiserazione e la rabbia contro gli altri, sei un “jerk”, come il thatcherismo sprezzantemente chiamava i falliti del suo modello senza società, e sei pericoloso, e vai represso (perché il “Manifesto” è pieno di frasi esplicitamente minacciose, al di là della melassa dei buoni sentimenti che lo pervade) perché con la tua rabbia disturbi il godimento delle libertà di chi è riuscito a farne qualcosa di utile per sé, e sei pericoloso, perché osi ripristinare una visione della società dove non c'è libertà assoluta, dove c'è uno Stato non solo arbitro, ma anche giocatore, che pone vincoli all'individuo nel nome di un bene superiore. Un concetto di rapporto fra libertà individuali e Stato che univa sia il comunismo che il fascismo. Tutt'al più, certo, se ti consideri di “sinistra” puoi sentire un dovere morale nel fare volontariato, sostituendoti ad un ruolo che dovrebbe essere perseguito istituzionalmente da uno Stato degno di questo nome, e non svuotato delle sue competenze, o al massimo proporre qualche rete di protezione minimale per chi non ce la fa, ma questa è solo una delle tante versioni del liberismo, si chiama socio-liberismo. Ed avremmo tutti, me compreso, dovuto far attenzione, perché questa visione era già il cardine del Manifesto ulivista prodiano del 1995.
Ebbene, ribadisco, questa narrazione perversa di cui è intriso il “Manifesto” delle sardine è borghese, è accucciata ai poteri forti, fa presa su chi, dentro questo mondo liberato da ogni vincolo e quindi ridotto a sanguinosa arena per la sopravvivenza, ce l'ha fatta e, purtroppo, come dimostra la critica di cui parlavo all'inizio, fa presa anche su chi ne esce con le ossa rotte, ma viene nutrito di speranze che il futuro sarà migliore a prescindere e catturato dal branco ittico. Le speranze, specie quando sono ben sostenute da un apparato di propaganda e da una ideologia rivenduta nei suoi aspetti superficiali più piacevoli, sono un carburante quando si ha 23 anni, le ho avute anche io. Alle soglie dei 50 anni, sono solo nostalgia e presa d'atto razionale. E' inutile dire al precario che si dà da fare fra le sardine che già Brecht ci ammoniva sul fatto che, spesso, alla testa dei cortei si colloca il nemico. D'altra parte, il Pd non starebbe al 20% se dovesse basarsi solo sul voto delle categorie sociali che usufruiscono delle sue politiche.
E, ribadisco, questa narrazione, di cui gronda il “Manifesto” delle sardine, è più psicoanalitica che politica, è anti-politica, perché sostituisce la politica, che è analisi delle condizioni oggettive delle masse, con una raccolta di sentimenti, illusioni, suggestioni, rêveries, buoni propositi natalizi. Diventa politica nel momento in cui viene chiaramente organizzata da ambienti prossimi al Pd, come strumento di campagna elettorale per un voto regionale strategico per l'agone della lotta di potere in corso. Perché nessuno è fesso, lo spontaneismo delle masse non raggiunge i risultati ottenuti dalle sardine, in termini di mobilitazione e visibilità mediatica, senza una regia occulta seria e strutturata.
Ed allora sarebbe il caso di esprimere un contro-Manifesto, se volete, il Manifesto delle balene. Le balene sono animali longevi e lenti, non hanno il giovanile guizzo colorato delle sardine. Sono piene di ferite e quando vanno a morire si separano dal loro branco e muoiono sole. Il Manifesto delle balene direbbe questo: che la libertà non esiste. Non esiste. E' una costruzione illusoria. Nemmeno nello stato di natura siamo liberi, perché siamo accompagnati da un'ombra sin dal primo vagito: l'ombra della morte, che ci spinge verso una vita non libera, ma soltanto fatta di reattività contro la morte. Ed è questo il motivo per il quale, noi, esattamente come le termiti o le formiche, costruiamo società complesse: sono strutture di sopravvivenza, modi di procrastinare l'incontro con la morte, o per collettivizzare la paura o, per meglio dire, per spostare quote di paura da un gruppo più forte verso altri gruppi più deboli, attraverso la lotta per la conquista delle risorse economiche che, come è ovvio, prolungano la vita a chi le ha, accorciandola a chi ne è privo. La società colloca le sue strutture, quindi, sulla paura e sul conflitto, non sull'armonia e l'amore universale.
Se la società è lotta dentro uno spazio di costrizioni e non di presunte libertà, la lotta non si esorcizza, come cerca capziosamente di suggerire il “Manifesto” sardinista, con la predicazione di una impossibile libertà universale (che è soltanto danno apportato ad altri) e di amore dentro una società distopica di armonia assoluta. La lotta si deve riconoscere, anche nella sua cattiveria e crudeltà, ed occorre orientarla dentro canali democratici e di confronto civile, altrimenti, se tali canali sono negati ed addirittura umiliati, perché “non abbiamo bisogno di essere liberati da niente”, come affermano gli autori del “Manifesto” (forse loro no, ma milioni di deprivati di questo Paese invece sì) essa, esattamente come l'Ombra personale quando viene negata, sorgerà in forme molto più aggressive.
Se è vero che il populismo leghista non è affatto la soluzione, ma parte, rilevante, del problema, e devo fare l'ennesima autocritica del mio percorso personale, costellato solo da errori e mai da soluzioni (attenzione, ho parlato del populismo leghista-salvinista, che del populismo vero ha soltanto la mistica del leader, non del populismo tout court, se è vero che, a mero titolo di esempio, dal peronismo è nata la figura di Kirchner) esso non si combatte con il pesce azzurro. Quello, al più, serve a controllare il colesterolo. Non si combatte pretendendo che sia stato Salvini a creare delle paure inesistenti nel corpo sociale. Si tratta di una madornale ed imperdonabile mistificazione. Salvini non ha creato paure, ha raccolto paure preesistenti e le ha amplificate. Ha scavato nelle fondamenta della società, che non sono di amore, ma di terrore. Non si combatte appellandosi alla generosità, perché la generosità serve solo per mondarci l'anima, in attesa che essa voli via.

Il populismo delle origini era di sinistra

La destra si combatte parlando alla paura, alla rabbia ed anche all'egoismo. Come facevano gli antichi socialisti e comunisti. Parlando di lavoro, di Stato assistenziale e non vessatorio, di protezione dagli aspetti più predatori della globalizzazione, di politica dei redditi, di identità nazionale, sì, cari miei, l'identità nazionale è una risposta al disperato bisogno di radici della condizione umana, che è quella di un fuscello esposto ai venti. Non lo volete chiamare socialismo? Detestate il rossobrunismo? Bene, allora chiamatelo sarchiapone, e come diavolo volete voi. Ma è di questo che dovete parlare. Ed è questo che manca completamente nel vostro “Manifesto” ittico. Che, in assenza di ciò, lo ribadisco, è per me soltanto una confabulazione intimistica e scollegata dalla realtà.
Con affetto verso i tanti pesci che sono vittime di questo Paese modellato da una sinistra deviante e da una destra pessima. Ma nessun affetto per chi ha organizzato questo movimento per finalità elettorali, per chi spera di trarne vantaggi personali di visibilità, per chi non vuole capire, perché non voler capire l'evidenza corrisponde ad esserne complice, oltre che vittima.

domenica 17 novembre 2019

Sostenibilità del debito pubblico ed il caso dell'Italia




La domanda delle domande che echeggia da sempre sui mercati finanziari, fra i policy maker ed il pubblico, è se il debito pubblico sovrano di un determinato Paese sia sostenibile o meno. Come mai il debito pubblico giapponese, che è al 200% del Pil, è sostenibile, e quello ucraino, che è al 30%, non lo è? Da cosa dipende il concetto di sostenibilità nel tempo del debito pubblico? Un recentissimo paper di Debrun, Ostry, Willems e Wyplosz[1] cerca non di dare risposte definitive, ma di sistematizzare i vari elementi che compongono il concetto di “sostenibilità” del debito pubblico. Essa, come appare evidente, non dipende dalla percentuale sul Pil, o, peggio ancora, dal suo valore assoluto, come indicano gli stupidi ed angosciosi cartelli messi nella stazione centrale di Milano, che ogni secondo fanno vedere la crescita dell’entità assoluta del debito pubblico italiano. Così come non è vero che il “debito pubblico non esiste”, come ritengono i sostenitori della sua monetizzazione totale.
Gli autori del paper in questione mettono in fila le seguenti questioni, per poter definire la sostenibilità del debito pubblico:
a- Solvibilità del governo e stabilità della traiettoria intertemporale del debito pubblico;
b- Credibilità del governo nell’imporre politiche fiscali restrittive;
c- Condizioni di liquidità del Governo, che però, fintanto che dura l’attuale fase di espansione monetaria della Bce, non è un problema per l’Italia.
Gli autori stessi evidenziano come tutta una serie di aspetti più specifici, come la composizione del debito pubblico rispetto alle valute in cui è denominato, o rispetto alle caratteristiche dei creditori (istituzionali o di mercato, interni o esteri) o la sua struttura per maturità sono fondamentali nel determinarne la sostenibilità. Tali aspetti, però, in qualche modo possono essere ricompresi nelle categorie a), b) e c) sopra citate. Vediamo di analizzarle con maggiore dettaglio.

Solvibilità del governo

L’evoluzione intertemporale del debito pubblico (d) fra i tempi t-1 e t dipende dalla seguente equazione
Dt – Dt-1 = (Rt-Yt/1+Yt)Dt-1 – PBt,
dove:
Rt è il tasso di interesse medio sul debito pubblico, Yt il tasso di crescita del Pil, PB il surplus primario (cioè la differenza fra entrate fiscali e spesa pubblica al netto del pagamento degli interessi sul debito).
Sostanzialmente, tale equazione ci dice che il debito pubblico cresce nel tempo se il tasso di interesse medio su tale debito cresce più rapidamente del tasso di crescita del Pil, che è correlato all’incremento degli introiti fiscali, e se la crescita del fardello da indebitamento è superiore a quella del surplus primario di bilancio.
Da tale semplice equazione, è possibile inferire la condizione di sostenibilità nel medio periodo del debito pubblico. Se parametrizziamo la risposta di politica fiscale al tempo t rispetto ad un dato livello del debito pubblico nel tempo precedente, allora avremo che PBt = βDt-1, dove 0<β<1, abbiamo che la risposta in termini di politica fiscale, cioè di avanzo primario, è un moltiplicatore del debito pubblico al tempo precedente.
Da tale espressione, ricaviamo che se β> (Rt-Yt/1+Yt), cioè se la risposta di politica fiscale è più ampia del coefficiente che, nell’equazione precedente, produce accumulazione intertemporale di debito, allora il debito pubblico è sostenibile nel tempo.
Ciò significa che, se la risposta di politica fiscale in termini di aggiustamento verso l’alto dell’avanzo primario supera il differenziale (supposto positivo) fra tasso di interesse medio del debito pubblico e tasso di crescita, allora il debito pubblico sarà sostenibile, perché tenderà, nel tempo, ad aggiustarsi verso un trend decrescente.
Naturalmente, le previsioni su tasso di crescita, tasso di interesse e avanzo primario devono essere non solo realistiche, ma basate su dati di fatto, e la crisi del debito pubblico greco è esplosa anche per previsioni realistiche basate su dati di bilancio truccati.

Credibilità delle politiche fiscali e fiscal fatigue

Altrettanto naturalmente, le previsioni di politica fiscale devono essere credibili, nella misura in cui i mercati non crederanno mai ad ipotesi di avanzo primario troppo alte, che sarebbero politicamente indigeribili e non fattibili. E qui veniamo alla questione della credibilità del governo nel momento in cui impone politiche fiscali restrittive per rendere sostenibile il debito pubblico, con i parametri sopra definiti. Il tema è quello della “fiscal fatigue”, cioè dell’affaticamento dell’opinione pubblica nell’accettare prolungati periodi di politiche fiscali restrittive. In un grafico in cui le ascisse rappresentano i livelli di debito pubblico e le ordinate i livelli di avanzo primario, la linea continua rappresenta la funzione di reazione fiscale, ovvero i livelli di avanzo pubblico stabiliti dal governo come reazione ad un determinato livello di debito pubblico. La linea tratteggiata rappresenta il servizio totale per interessi sul debito pubblico, ovviamente crescente al crescere del debito.
Il punto di intersezione A fra le due curve rappresenta il punto di debito di equilibrio intertemporale, d*, verso il quale si può far convergere l’economia: in tale punto, i livelli di avanzo primario sono sufficienti a ripagare il servizio del debito, ed esso, quindi, tenderà a non crescere ulteriormente. A sinistra del punto A, i livelli di debito pubblico saranno così bassi da non stimolare una forte reazione di politica fiscale. A destra del punto A, per livelli di debito più alti di d*, il governo tenderà a fare politiche fiscali particolarmente restrittive, per non farsi sfuggire la situazione di mano.
Tuttavia, se, nonostante tali politiche fiscali restrittive, per shock macroeconomici sulla crescita o sul tasso di interesse il debito arriva fino al punto d**, cioè all’intersezione marcata con il punto B, la “fiscal fatigue” impedirà di esercitare interventi fiscali ulteriormente restrittivi, e la curva di reazione fiscale tenderà ad appiattirsi e divenire una retta orizzontale. A quel punto, ulteriori aumenti del debito pubblico non potranno più essere contenuti dalla politica fiscale, ed il tasso di interesse sul debito pubblico tenderà a schizzare verso l’infinito, perché i premi per il rischio di investire in nuovi titoli del debito pubblico diverranno tendenzialmente di entità incontenibile. Siamo nel caso del default sovrano.






Debito pubblico di equilibrio e di default


Gli spazi fiscali disponibili

In realtà, tale situazione non si realizzerà mai: nessuno consentirà che il debito arrivi fino a d**, perché gli investitori sconteranno anticipatamente l’imminente default, e già al livello di debito più basso marcato come dls, cioè al punto di intersezione C, chiederanno un incremento del tasso di interesse sui nuovi titoli del debito pubblico insostenibile. Il default avverrà per decisione del mercato prima ancora di raggiungere il punto “automatico”.
Qui veniamo ad un ulteriore punto: quello dello spazio fiscale. Fino a quanto uno Stato può permettersi di ampliare il suo debito pubblico senza arrivare al fatidico punto dls, dove si precipita nel default pilotato dai mercati? Una elaborazione del FMI sugli spazi fiscali di un gruppo di Paesi, intesi come i margini disponibili per abbassare le tasse e/o aumentare la spesa pubblica prima di finire in default, prende in considerazione aspetti quali il livello medio di spead negli ultimi 12 mesi e negli ultimi 5 anni, la quota di debito pubblico detenuta dai non residenti, la struttura per maturità del debito, l’entità degli asset finanziari di proprietà pubblica.
La proiezione di tale modello per l’Italia la colloca in uno spazio fiscale limitato, insieme a Paesi quali l’Argentina, il Brasile, il Sudafrica e la Spagna, con un rischio moderato in termini di disponibilità di nuovi finanziamenti dai mercati, ma elevato in termini di sostenibilità futura del debito pubblico, cioè di suo incremento per non soddisfazione della già citata condizione di equilibrio β> (Rt-Yt/1+Yt) per via di una futura “fiscal fatigue” che allenterà le politiche fiscali.
 Messa in questi termini, l’Italia potrebbe, a bocce ferme, ed almeno per i prossimi anni, permettersi un allentamento delle politiche fiscali sapendo che il rischio di non essere più finanziata dai mercati in sede di rollover del suo debito sovrano è moderato. Ciò però inevitabilmente comporterà un avvicinamento a livello critico dls, dove tutto cambierà. A meno che il rilassamento delle politiche fiscali non comporti un incremento di Yt, cioè del tasso di crescita dell’economia, oltre il tasso di interesse sul debito sovrano. In effetti, sembra che un disavanzo pubblico integralmente costituito da investimenti pubblici sia considerato “credibile” dai mercati, comportando, ceteris paribus, un calo del tasso di interesse sul debito.
Gli stress test condotti sull’Italia dal Fmi evidenziano che il rischio più grande di esplosione del debito pubblico derivi da uno shock sull’economia reale, cioè da una recessione economica. L’esplosione del debito pubblico che ne deriverebbe sarebbe molto più significativa rispetto a quella derivante da un incremento dei tassi di interesse sul mercato del debito pubblico o da uno shock sul saldo primario. Il rischio potenzialmente più alto è però quello combinato: bassa o negativa crescita economica accompagnata da un aumento della spesa pubblica, evidentemente non in grado di invertire il ciclo negativo.
Stress test sul debito pubblico italiano per tipologia di shock

Fonte: Fmi

Conclusioni

La sostanza di tutto questo ragionamento è la seguente:
a a) Non sembrano esservi, nel breve periodo, rischi significativi di mancato rollover del debito pubblico. Se la Bce dovesse proseguire nel piano di acquisto di titoli del debito pubblico sul mercato secondario, tale rischio sarebbe anche più basso;
bb) Tuttavia, tali rischi potrebbero aggravarsi significativamente con l’attuale progetto di riforma dell’ESM (meccanismo europeo di stabilità) che sembra suggerire agli investitori l’intento, da parte di Francia e Germania, di creare un cordone protettivo contro il potenziale rischio di default italiano, inducendo sui mercati le classiche previsioni auto-realizzanti, aggravate dalla previsione di ristrutturazione automatica del debito con “private sector involvement” in caso di richiesta di accesso al nuovo Mes. Tale riforma è avvenuta lungo la vita del precedente governo gialloverde, perché la prima versione fu proposta nel dicembre 2018, e poi approvata dal Consiglio del giugno 2019, con Governo gialloverde già in carica. Non si capisce, quindi, come mai Bagnai e Borghi sbraitino oggi. Dovevano farlo prima, quando erano al governo e porre il veto. Evidentemente, l’attuale premier Conte non sembra in grado di affrontare la questione, ma è dubbio che lo possa fare anche un eventuale premier Salvini. Dov’era quando tali proposte furono avanzate? Era al Governo, ma non ha fatto granché;
  c) Il rischio grosso che corriamo è che la crescita del Pil prosegua lungo l’attuale fase di stagnazione o, peggio, decresca per via di una nuova recessione. In tal caso, il debito pubblico esploderebbe verso il punto di default, e la fiscal fatigue sarebbe ancora più rilevante (come imporre politiche fiscali restrittive ad un Paese in crisi economica?)
dd) Se si vuole fare politiche fiscali espansive, esse devono basarsi su spesa pubblica ad elevato moltiplicatore sulla crescita, tipicamente su spesa per investimento, riducendo il ricorso a spesa corrente ed a trasferimenti fiscali poco produttivi sotto il profilo dell’impatto sui consumi e sulla crescita (come ad esempio gli sgravi sui redditi medio-alti, tipici di sistemi come la flat tax);
ee) La spesa per investimenti va promossa rimuovendo i lacci e lacciuoli amministrativi che rendono i tempi di completamento dei cantieri biblici. Non basta più fare qualche ritocco al Codice degli Appalti, occorre una forte riduzione dei controlli amministrativi e giurisdizionali ex ante, salvo poi recuperarli ex post con particolare severità (non deve cioè essere consentito di pensare che i controlli si ammorbidiscano, ma solo che essi avverranno ad opera consegnata, e non in itinere. Se ad opera consegnata, in fase di collaudo, si riscontreranno difetti o inadeguatezze di fabbricazione, l’opera verrà demolita ed i suoi costruttori severamente puniti, ma perlomeno l’effetto di spesa sulla crescita sarà stato conseguito);
ff)  Un rischio moderato di default rimane sulla possibilità di shock sui tassi di interesse. Da questo punto di vista, c’è poco da fare, se non sperare che la Bce non abbandoni del tutto la politica dei tassi di interesse bassi sinora condotta, moderando molto la successiva ed inevitabile fase di aumento che si verificherà, anche in considerazione di un rischio inflazionistico inesistente. 
   Tutte queste considerazioni, ovviamente, valgono se non siamo già alla vigilia di una nuova recessione globale indotta proprio dai debiti sovrani. In quel caso, finiremo come la Grecie o giù di lì. 



[1] Public Debt Sustainability, in Cepr, Dp 14010, settembre 2019.