sabato 27 ottobre 2018

I limiti del blocco sovranista e la necessità storica di una sinistra dialogante

 
Noi italiani facciamo fatica ad analizzare le questioni, e spesso ricorriamo a semplificazioni o a posizioni puntuali del momento, in base alle convenienze specifiche. Questo vale anche per le (apparenti) contraddizioni in seno ai sovranismi europei. Che da un lato candidano Salvini alla Presidenza della Commissione o lo considerano, come Orban, una sorta di compagno di destino, e poi lo randellano sulla manovra economica. 

Ora, evidentemente, per definizione, un sovranismo guarda essenzialmente agli interessi propri. L'Afd guidato dalla Weidel non è più, ed in una certa misura non è mai stato, un partito dell'uscita dall'euro, quanto piuttosto un partito di creazione di un'euro-area iper-liberista di satelliti della Germania, dove la posizione tedesca di rifiuto di condivisione del rischio sia spinta verso l'estremo, espellendo i Paesi mediterranei ad alto debito, evidentemente per poi confinarli in accordi doganali penalizzanti. L'Austria di Kurz, che è legata alla Germania da forme di Anschluss economico, segue la stessa linea e, credo, quando la tempesta passerà, anche Orban si allineerà all'Afd, ancora una volta a causa delle forti relazioni esistenti fra economia ungherese e tedesca, con la seconda che è di fatto una appendice della delocalizzazione del manifatturiero germanico. 

Né la Weidel né Kurz sono culturalmente dei popolari di destra, come invece lo è la Le Pen e lo è Salvini (e lo è diventato Orban con il tempo), ed il programma politico di questi due partiti è fortemente neoliberista nell'impostazione. Cose come le proposte di reddito di cittadinanza o di tetti per i pensionamenti, che Salvini porta avanti, sono da loro considerate inaccettabili. La Weidel, che ha un passato da consulente nelle più importanti istituzioni finanziarie globali, ha esplicitamente criticato gli accordi politici della Lega con il M5S, considerandole troppo progressiste. Le sue posizioni in politica economica sono paradossalmente più vicine a quelle di Berlusconi che di Salvini.
Di fatto, l'unica posizione comune fra i sovranismi europei è quella della chiusura delle frontiere, del securitarismo e della creazione di un modello culturale di tipo assimilatorio e non integrativo dei migranti regolari. Su quello, ovvero su una Italia che accetti di essere prima linea in un blocco navale che arresti le ondate migratorie da Sud, prevedendo di spostare nei Paesi di transito e di partenza le fasi dell'identificazione e respingimento dei migranti, insieme a politiche europee di espulsione dei clandestini e di irrigidimento dei criteri di protezione internazionale, Salvini può essere l'alleato, e persino il candidato Presidente, di un blocco sovranista. 

Ma sul fronte delle politiche economiche non vi può essere un fronte sovranista comune, se non nella misura in cui si accettino forme di uscita dall'euro con accordi penalizzanti per l'economia italiana. 

In questo senso, occorrerà giocare di sponda con la parte più intelligente delle sinistre europee che, pur non accettando l'impostazione delle scelte di bilancio, appare disposta a difendere l'autonomia di scelta nazionale, ed a combattere la battaglia della demolizione dei parametri di Maastricht e dei meccanismi del Six Pack. 

Questa sfida verso una convergenza fra destra popolare e sinistra patriottica è difficile per ambedue le parti, perché da un lato una simile sinistra, se non vuole rimanere isolata e farsi fagocitare dalla ben più consistente (numericamente) sinistra globalista e diritto-civilista, dovrà necessariamente farsi promotrice di un certo allentamento della severità di giudizio su determinati aspetti, in particolari quelli riferiti al programma fiscale della Lega. Per la Lega, soprattutto quella della sua pancia più profonda che è ancora legata alle origini, l'idea di associarsi alla sinistra appare molto indigesta. Evidentemente, però, la convergenza è necessaria per entrambi. Salvini non potrà contare su una solidarietà sovranista nella battaglia economica con la Troika, che poi è la madre di tutte le battaglie. 

Ma, a prescindere dagli interessi immediati, tale convergenza fra destra popolare e sinistra patriottica è strutturalmente necessaria, e si realizzerà nei fatti. Per il semplice motivo che, adesso e per ancora diversi anni, la linea del conflitto politico si giocherà fra globalismo e sovranità nazionale. O si sta di qua o si sta di là, ed in termini di classe un simile conflitto si gioca tutto all'interno delle contraddizioni del capitale, perché i riferimenti di fondo, sia il liberismo estremo delle élite globaliste, sia il sovranismo del piccolo e medio capitale a basso livello di internazionalizzazione, sono tutti interni al capitale. 

Il mondo del lavoro si spacca lungo la stessa faglia, fra élite proletarie legate alla componente più internazionalizzata dell'economia, interessate a rimanere dentro un'area valutaria e commerciale comune, e lavoratori della piccola e media impresa nei settori più tradizionali dell'economia (nel senso della definizione di settori tradizionali data da Pavitt) che dipende dal mercato interno. 

Ed il lumpenproletariat urbano, quello che Fassina chiama il popolo delle periferie, è chiaramente schierato con le destre popolari, per ovvi motivi di deideologizzazione di tale classe sociale (ampiamente descritta già da Marx) ed interesse concreto alla sopravvivenza materiale. 

Così come le classi emergenti della new economy, troppo spesso derubricate a segmenti sociali irrilevanti numericamente, ma che invece esercitano una grande influenza su stili di vita e modi di produzione del nuovo capitalismo smaterializzato e precarizzato, rifuggono dalle sinistre tradizionali, per dare consenso a movimenti ideologicamente trasversali e fondati su un mito di partecipazione diretta, come i pentastellati.

In fondo, nel partecipare ad un rapporto dialettico con la destra popolare non si fa peccato rispetto alle grandi direttrici culturali della sinistra. Fu lo stesso Lenin, nello stigmatizzare il massimalismo rigido, ad affermare che i compromessi sono necessari, perché la teoria non è dogma inflessibile, ma linea di azione. Ostinarsi nell'idea di un ipotetico terzo polo dove ricostruire l'autonomia della sinistra significa votarsi ad un isolamento permanente rispetto al proprio elettorato potenziale, e condannarsi all'inazione politica ed all'emarginazione. Un polo richiede voti. I voti si prendono andando ad immergersi dentro le ragioni di chi un tempo ti votava e poi oggi non ti vota più, non farneticando di ipotetici compiti educativi di un altrettanto ipotetico partito. L'elettorato non è più costituito da masse di contadini ed operai generici analfabeti. Il rapporto fra alto e basso tende a rovesciarsi, o quantomeno a riequilibrarsi, rispetto alla tradizionale visione verticalistica del partito-massa. 

Ovviamente, tale riavvicinamento non sarà né rapido né facile, e richiederà figure politiche di mediazione, intermedie, che si assumano il compito di traghettare le due parti verso una terra comune, elaborando uno sforzo in primis culturale e programmatico per riavvicinare i poli dei dissensi più aspri, come quelli riferiti alle politiche fiscali.

Ma attenzione: la ricostruzione di una sovranità nazionale, che sta a cuore a Salvini come a Fassina, richiede la ricostruzione di un popolo, altrimenti ciò non è possibile. Ed un popolo si ricostruisce mettendo insieme gli interessi di classe strutturalmente diversi ma assimilabili al fondo in funzione dell'interesse a riavere un Paese forte ed autorevole, sintetizzandoli nell’interesse superiore del Paese, non segmentandosi dentro un antagonismo inutile e di bandiera.

domenica 21 ottobre 2018

Federalismo differenziato: falsi timori e questioni reali





Lunedì 22 ottobre arriverà in Consiglio dei Ministri il disegno di legge sul cosiddetto “federalismo differenziato”, ovvero la richiesta, ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione, di concessione di maggiore autonomia alle Regioni Veneto e Lombardia, a seguiti di un referendum tenutosi in tali regioni.
Su tale iniziativa, si è scatenato un coro di protesta di un meridionalismo erede più del versante di Menichella e del meridionalismo cattolico, fondato sui trasferimenti statali perequativi, che su quello di Salvemini, di impronta socialista riformista, e favorevole anche a forme di federalismo. La protesta contro il provvedimento verte sul principio per il quale, se si lasciano alle due regioni più sviluppate del Paese maggiori quote di gettito fiscale prodotto sul loro territorio, ciò avrà un effetto in termini di minore perequazione finanziaria per il Mezzogiorno.
L’argomento è però fallace non soltanto perché già oggi, a legislazione vigente, la spesa per lo sviluppo è squilibrata: i Conti Pubblici Territoriali ci dicono che la spesa pubblica totale netta pro capite nel Mezzogiorno è il 29% del totale nazionale, pur avendo tale ripartizione più del 34% della popolazione italiana. La spesa in conto capitale, più direttamente connessa con lo sviluppo, è stata, negli ultimi sedici anni, più alta al Centro Nord, in termini pro capite. Quindi non serve un cambiamento di assetto istituzionale per riorientare a svantaggio del Sud il flusso di risorse pubbliche. Tale riorientamento è già in atto da molti anni.
La lamentela è errata soprattutto perché occorre vedere come sarà attuato il federalismo differenziato. Se, come sembra dalle indiscrezioni relative al ddl, la maggiore quota di compartecipazione fiscale alle due regioni in esame sarà esattamente commisurata al costo storico di quota regionale dei servizi e delle competenze per i quali si richiede la totale devoluzione, allora, in linea di principio, non vi sarà nessuno squilibrio sperequativo: lo Stato lascerà come gettito fiscale ciò che oggi spende, in quelle stesse regioni, per gestire i servizi. La massa di risorse da redistribuire, anche in chiave perequativa, rimarrà inalterata. Certo, diverso sarebbe se il parametro fosse quello dei costi standard, ovvero dei costi più efficienti per gestire servizi o acquistare beni. In presenza di strutturali differenze di efficienza amministrativa fra regioni del Nord e del Sud, il criterio dei costi standard per la determinazione della compartecipazione fiscale regionale sarebbe oggettivamente penalizzante. Ma non è questo il caso.
Quindi, lasciando perdere assurde polemiche sulle questioni finanziarie e perequative, il vero tema su cui interrogarsi è quello del modello di Stato che vogliamo, e che riteniamo più utile per il nostro Paese. Cosa è meglio per l’Italia? Un modello centralistico che redistribuisce le risorse sulla base di una programmazione generale ed astratta, o un modello federalistico, in cui le singole Regioni programmano su scala territoriale e delegano alle Città Metropolitane, ai Comuni ed alle loro forme associazionistiche pianificazione e gestione?
Il punto di partenza è quello di superare l’attuale regionalismo, una scelta intermedia fra i due poli, che ne accumula i difetti reciproci, esaurendosi, da un lato, in una interminabile polemica sui limiti delle reciproche competenze rispetto alle materie del secondo comma dell’articolo 117, ed in una istituzione regionale che non è né carne né pesce, ente programmatore ed al contempo gestore, finendo quindi per creare eccessiva accumulazione di poteri (sia programmatori che di gestione) e per produrre piccole baronie localistiche e consociative.
Detto questo, e reso l’onore delle armi al modello centralistico, che nel secondo dopoguerra, prima che fossero istituite le Regioni, è stato protagonista della fase più dinamica dello sviluppo economico e sociale italiano e della riduzione del gap di sviluppo del Mezzogiorno, non vi è dubbio che il modello federalistico si attagli meglio alle differenze culturali e di stile di vita che caratterizzano un Paese il cui processo di unità nazionale non si è mai compiuto integralmente. Come premesso, lo stesso Salvemini, insieme a Colajanni e Ciccotti, riteneva che il federalismo fosse preferibile per lo stesso Mezzogiorno, al fine di ridurre gli effetti nefasti del centralismo, in termini di asservimento del notabilato locale agli interessi politici ed alla bulimia amministrativa di Roma.
Un sano federalismo, ad esempio alla tedesca, in cui il principio della concorrenzialità sulle materie sia circoscritto dalla primazia della legislazione federale e dal principio della garanzia di “eguali condizioni di vita”, come recita la Costituzione tedesca, servirebbe, forse, per ridare senso alle Regioni come istituzioni di programmazione dello sviluppo locale, per ricostruire capitale sociale di prossimità, nella difficoltà di giungere alfine alla costruzione di una identità nazionale, per rendere più responsabile il rapporto fra amministratore ed amministrato.
Per questo, forse, un tema così importante avrebbe meritato di essere trattato unitariamente, con tutte le regioni, e non solo con le due più veloci e più forti. Si rischia di far decadere un tema fondamentale per il futuro del Paese in una speculazione di interessi locali ed elettoralistici. Chi vuole essere destra nazionale questo tema se lo deve porre.


venerdì 5 ottobre 2018

Reddito di cittadinanza - alcune riflessioni

Risultati immagini per reddito cittadinanza


Il programma di reddito di cittadinanza promosso dai 5 Stelle ed accolto intelligentemente da Salvini va finalmente a colmare un ritardo che il nostro sistema di welfare aveva rispetto agli altri Stati membri dell’Ue, atteso che il programma messo in piedi dal Governo Gentiloni e dal prode Poletti era poco più che una sperimentazione, viste le cifre modeste messe a disposizione dalla destra economica rappresentata dal PD.
Dietro questa storia della “moralità” della spesa del reddito di cittadinanza si sta consumando una polemica senza senso, poiché essa ha un solo fine: parare il provvedimento sul reddito di cittadinanza dalle critiche, miopi ed ingenerose, di un Paese incarognito dalla crisi, che non è solo economica, ma anche morale e culturale. Tutti questi che si preoccupano del presunto “parassitismo” di questo provvedimento non capiscono che nei prossimi 10-20 anni sarà lo stesso concetto di lavoro ad essere rimesso in discussione. Senza ripercorrere veteroluddismi, non si è verificato mai nella storia che una ondata schumpeteriana di innovazione tecnologica oramai alle porte, data dalla combinazione fra tecnologie energetiche, micromeccatroniche, robotiche e di intelligenza artificiale, si associasse allo spostamento strutturale della ricchezza e dell’occupazione fuori dalle economie tradizionali dell’Occidente.
Le altre grandi rivoluzioni tecnologiche si sono verificate o in epoche in cui i due terzi della popolazione mondiale erano esterni al capitalismo, e non potevano esercitare pressioni competitive sul mercato del lavoro dei Paesi occidentali che introducevano le innovazioni, oppure, come nel caso dell’ultima ondata, quella informatica/microelettronica, quando il primato economico dei capitalismi maturi occidentali era ancora solido.
In questo caso, l’inevitabile disoccupazione tecnologica che si produrrà sarà, nei nostri Paesi occidentali, enormemente aggravata dallo spostamento della catena del valore capitalistico fuori dalle nostre economie, verso quelle emergenti. Già oggi, il 23,5% del PIL globale è prodotto da economie emergenti, ed il trend a medio termine parla di un ulteriore incremento di tale quota negli anni a venire. Ciò produce un fattore autonomo di pressione al ribasso sui mercati del lavoro delle economie occidentali che rischia di associarsi alla imminente crescita della disoccupazione tecnologica da ondata innovativa, aggravandone le dimensioni, e richiedendo molti più anni, e molta più creazione di nuova ricchezza grazie ai nuovi paradigmi produttivi, per essere riassorbita. Nel frattempo, la coesione sociale dovrà essere garantita con strumenti che consentano ai disoccupati di domani di sopravvivere dignitosamente, conservando anche la speranza di poter essere reintrodotti nel mercato del lavoro tramite le politiche attive che accompagnano l’erogazione monetaria.
Ignorare queste considerazioni banali in nome di chiacchiericci stupidi, astratti e fuori dalla realtà, come il primato dell’investimento sulla creazione di lavoro piuttosto che sull’assistenzialismo, è indice di grettezza culturale nonché pericolosissimo ossequio alla retorica neoliberista della competitività e della responsabilizzazione individuale. Rischia di contribuire ad un futuro distopico in cui i pochissimi sopravvissuti di una civiltà lavoristica si trincereranno dietro i muri della loro cittadella, dove ancora c’è lavoro, per difendersi dalle masse di disperati espulsi dal ciclo produttivo ed immiseriti fino all’inverosimile. Che anche a sinistra si odano, qui e lì, vocine che assecondano la critica al reddito di cittadinanza in nome di una astratta maggiore dignità del lavoro, è solo uno dei sottoprodotti tossici che la decomposizione culturale della sinistra italiana genera nella sua troppo lenta agonia.
Non parlo nemmeno della grettezza di cuore di chi protesta perché con il suo lavoro dovrebbe mantenere dei “fannulloni”. Costui meriterebbe semplicemente di essere ridotto in schiavitù e messo a lavorare in una miniera a pane ed acqua.
Tornando alla polemica sulla moralità dei consumi che saranno garantiti dal reddito di cittadinanza, quindi, le frasi di Di Maio vanno interpretate come l’ennesima necessità di proteggere il nascituro provvedimento dal perbenismo peloso degli esegeti della morale del mercato libero e concorrenziale.
Nella pratica, in effetti, ai tempi in cui progettammo, in Regione Basilicata, il prototipo dell’attuale reddito di cittadinanza (era il lontano 2003) ci ponemmo anche noi il problema di vincolare l’erogazione monetaria a spese effettivamente essenziali e non superflue (lasciamo perdere la questione della moralità della spesa, troppo scivolosa). Abbandonammo subito la questione, non soltanto perché era impossibile evitare la trasgressione delle regole di spesa (con il reddito di cittadinanza posso anche dover comprare il prosciutto per sfamare le bocche avide dei miei figli, piuttosto che un litro di vino per ubriacarmi come un bastardo qualsiasi, ma niente mi impedisce di barattare il prosciutto acquistato con il vino successivamente).
Ma soprattutto perché non dava soluzione alla “trappola della povertà”. L’orientamento consapevole ed utile della spesa verso beni di prima necessità dipende una capacità razionale di valutare i propri bisogni e quelli della propria cerchia familiare e di metterli a confronto con il reddito disponibile. E questa operazione intellettuale deriva da una qualche forma di maturazione culturale, che spesso, nelle situazioni di emarginazione e povertà più estreme, viene a mancare del tutto.
Niente, nessun programma di sostegno alla povertà può costruire un percorso di autoconsapevolezza e di razionalità nella scelta delle priorità vitali, senza la collaborazione intenzionale dei suoi beneficiari. Senza contare che c’è uno zoccolo duro di povertà che non può fuoriuscirne per motivi oggettivi: il pensionato, l’inabile al lavoro, la vedova anziana e sola, chi è privo di qualsiasi competenza anche minima, non possono oggettivamente uscire dalla povertà, e dovranno essere assistiti per sempre, a prescindere dalla loro volontà di uscire dalla situazione in cui si trovano. Non è un caso se, nell’esperienza internazionale, programmi di questo genere hanno tassi di successo (ovvero di fuoriuscita dei beneficiari per reperimento di una occupazione dignitosa) che si aggirano nell’intorno del 10-15%. Significa che, nel migliore dei casi, l’80-85% dei beneficiari di questi programmi vanno mantenuti perpetuamente dentro il circuito dell’assistenza pubblica, a meno di non volerli condannare alla morte per inedia e miseria estrema, il che è ovviamente una indegnità.
Quindi qui il problema vero non è la “moralità” della spesa garantita dalla card sociale, ma è quello di accettare un principio welfaristico di contrasto alla povertà che sappia accettare, come dati di fatto, almeno i due seguenti elementi:
-          Che dovremo combattere una disoccupazione tecnologica molto più ampia e perniciosa rispetto alle altre rivoluzioni tecnologiche del passato;
-          Che c’è una base molto ampia della povertà che, per problemi culturali (trappola della povertà) o oggettivi (condizioni personali di competitività) richiede una assistenza costante, a tempo indeterminato, senza porsi obiettivi irrealistici di empowerment personale.
Se accettiamo questi due elementi, la questione della moralità della spesa diventa secondaria e, sostanzialmente, molto difficilmente controllabile. Piuttosto, ci si concentri, nella stesura del programma, sui seguenti elementi, molto più concreti ed importanti:
-          Che i programmi di reinserimento lavorativo siano coerenti con la professionalità del beneficiario, onde evitare che l’ingegnere nucleare si ritrovi a fare lo sguattero;
-          Che la presa in carico del beneficiario sia “di filiera”, cioè sia basata su una valutazione completa dello stato di bisogno, sul versante materiale, ma anche su quello sanitario, socio assistenziale, lavorativo, formativo, in modo da predisporre piani personali di reinserimento ad hoc;
-          Che i servizi sociali sul territorio siano potenziati, professionalizzati e messi in rete, superando la situazione attuale, in cui essi sono perlopiù abbandonati e dequalificati;
-          Che il requisito dell’ISEE, essendo rilevato annualmente, non discrimini chi, nell’anno precedente, lavorava, poi ha perso il lavoro ma ha ancora un ISEE che lo collocherebbe fuori dalla platea dei beneficiari. Occorre istituire un sistema di rilevazione semi-permanente delle condizioni economiche dei richiedenti.
P.S. Benissimo che il programma sia riservato ai soli cittadini italiani. Deve passare il principio che non abbiamo le risorse per occuparci della povertà altrui, non potendo nemmeno coprire integralmente quella nostra. Chi non è italiano e si ritrova da noi senza soldi e senza casa, se non ha immediate prospettive di lavoro o di sostegno familiare, deve tornare al suo Paese a farsi sostenere. Altrimenti, i delicati animi che si oppongono a tutto ciò sborsassero di tasca loro quei 10-20 miliardi che servono per coprire la povertà anche dei variopinti personaggi che vengono dal mare per stabilirsi da noi.