venerdì 5 ottobre 2018

Reddito di cittadinanza - alcune riflessioni

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Il programma di reddito di cittadinanza promosso dai 5 Stelle ed accolto intelligentemente da Salvini va finalmente a colmare un ritardo che il nostro sistema di welfare aveva rispetto agli altri Stati membri dell’Ue, atteso che il programma messo in piedi dal Governo Gentiloni e dal prode Poletti era poco più che una sperimentazione, viste le cifre modeste messe a disposizione dalla destra economica rappresentata dal PD.
Dietro questa storia della “moralità” della spesa del reddito di cittadinanza si sta consumando una polemica senza senso, poiché essa ha un solo fine: parare il provvedimento sul reddito di cittadinanza dalle critiche, miopi ed ingenerose, di un Paese incarognito dalla crisi, che non è solo economica, ma anche morale e culturale. Tutti questi che si preoccupano del presunto “parassitismo” di questo provvedimento non capiscono che nei prossimi 10-20 anni sarà lo stesso concetto di lavoro ad essere rimesso in discussione. Senza ripercorrere veteroluddismi, non si è verificato mai nella storia che una ondata schumpeteriana di innovazione tecnologica oramai alle porte, data dalla combinazione fra tecnologie energetiche, micromeccatroniche, robotiche e di intelligenza artificiale, si associasse allo spostamento strutturale della ricchezza e dell’occupazione fuori dalle economie tradizionali dell’Occidente.
Le altre grandi rivoluzioni tecnologiche si sono verificate o in epoche in cui i due terzi della popolazione mondiale erano esterni al capitalismo, e non potevano esercitare pressioni competitive sul mercato del lavoro dei Paesi occidentali che introducevano le innovazioni, oppure, come nel caso dell’ultima ondata, quella informatica/microelettronica, quando il primato economico dei capitalismi maturi occidentali era ancora solido.
In questo caso, l’inevitabile disoccupazione tecnologica che si produrrà sarà, nei nostri Paesi occidentali, enormemente aggravata dallo spostamento della catena del valore capitalistico fuori dalle nostre economie, verso quelle emergenti. Già oggi, il 23,5% del PIL globale è prodotto da economie emergenti, ed il trend a medio termine parla di un ulteriore incremento di tale quota negli anni a venire. Ciò produce un fattore autonomo di pressione al ribasso sui mercati del lavoro delle economie occidentali che rischia di associarsi alla imminente crescita della disoccupazione tecnologica da ondata innovativa, aggravandone le dimensioni, e richiedendo molti più anni, e molta più creazione di nuova ricchezza grazie ai nuovi paradigmi produttivi, per essere riassorbita. Nel frattempo, la coesione sociale dovrà essere garantita con strumenti che consentano ai disoccupati di domani di sopravvivere dignitosamente, conservando anche la speranza di poter essere reintrodotti nel mercato del lavoro tramite le politiche attive che accompagnano l’erogazione monetaria.
Ignorare queste considerazioni banali in nome di chiacchiericci stupidi, astratti e fuori dalla realtà, come il primato dell’investimento sulla creazione di lavoro piuttosto che sull’assistenzialismo, è indice di grettezza culturale nonché pericolosissimo ossequio alla retorica neoliberista della competitività e della responsabilizzazione individuale. Rischia di contribuire ad un futuro distopico in cui i pochissimi sopravvissuti di una civiltà lavoristica si trincereranno dietro i muri della loro cittadella, dove ancora c’è lavoro, per difendersi dalle masse di disperati espulsi dal ciclo produttivo ed immiseriti fino all’inverosimile. Che anche a sinistra si odano, qui e lì, vocine che assecondano la critica al reddito di cittadinanza in nome di una astratta maggiore dignità del lavoro, è solo uno dei sottoprodotti tossici che la decomposizione culturale della sinistra italiana genera nella sua troppo lenta agonia.
Non parlo nemmeno della grettezza di cuore di chi protesta perché con il suo lavoro dovrebbe mantenere dei “fannulloni”. Costui meriterebbe semplicemente di essere ridotto in schiavitù e messo a lavorare in una miniera a pane ed acqua.
Tornando alla polemica sulla moralità dei consumi che saranno garantiti dal reddito di cittadinanza, quindi, le frasi di Di Maio vanno interpretate come l’ennesima necessità di proteggere il nascituro provvedimento dal perbenismo peloso degli esegeti della morale del mercato libero e concorrenziale.
Nella pratica, in effetti, ai tempi in cui progettammo, in Regione Basilicata, il prototipo dell’attuale reddito di cittadinanza (era il lontano 2003) ci ponemmo anche noi il problema di vincolare l’erogazione monetaria a spese effettivamente essenziali e non superflue (lasciamo perdere la questione della moralità della spesa, troppo scivolosa). Abbandonammo subito la questione, non soltanto perché era impossibile evitare la trasgressione delle regole di spesa (con il reddito di cittadinanza posso anche dover comprare il prosciutto per sfamare le bocche avide dei miei figli, piuttosto che un litro di vino per ubriacarmi come un bastardo qualsiasi, ma niente mi impedisce di barattare il prosciutto acquistato con il vino successivamente).
Ma soprattutto perché non dava soluzione alla “trappola della povertà”. L’orientamento consapevole ed utile della spesa verso beni di prima necessità dipende una capacità razionale di valutare i propri bisogni e quelli della propria cerchia familiare e di metterli a confronto con il reddito disponibile. E questa operazione intellettuale deriva da una qualche forma di maturazione culturale, che spesso, nelle situazioni di emarginazione e povertà più estreme, viene a mancare del tutto.
Niente, nessun programma di sostegno alla povertà può costruire un percorso di autoconsapevolezza e di razionalità nella scelta delle priorità vitali, senza la collaborazione intenzionale dei suoi beneficiari. Senza contare che c’è uno zoccolo duro di povertà che non può fuoriuscirne per motivi oggettivi: il pensionato, l’inabile al lavoro, la vedova anziana e sola, chi è privo di qualsiasi competenza anche minima, non possono oggettivamente uscire dalla povertà, e dovranno essere assistiti per sempre, a prescindere dalla loro volontà di uscire dalla situazione in cui si trovano. Non è un caso se, nell’esperienza internazionale, programmi di questo genere hanno tassi di successo (ovvero di fuoriuscita dei beneficiari per reperimento di una occupazione dignitosa) che si aggirano nell’intorno del 10-15%. Significa che, nel migliore dei casi, l’80-85% dei beneficiari di questi programmi vanno mantenuti perpetuamente dentro il circuito dell’assistenza pubblica, a meno di non volerli condannare alla morte per inedia e miseria estrema, il che è ovviamente una indegnità.
Quindi qui il problema vero non è la “moralità” della spesa garantita dalla card sociale, ma è quello di accettare un principio welfaristico di contrasto alla povertà che sappia accettare, come dati di fatto, almeno i due seguenti elementi:
-          Che dovremo combattere una disoccupazione tecnologica molto più ampia e perniciosa rispetto alle altre rivoluzioni tecnologiche del passato;
-          Che c’è una base molto ampia della povertà che, per problemi culturali (trappola della povertà) o oggettivi (condizioni personali di competitività) richiede una assistenza costante, a tempo indeterminato, senza porsi obiettivi irrealistici di empowerment personale.
Se accettiamo questi due elementi, la questione della moralità della spesa diventa secondaria e, sostanzialmente, molto difficilmente controllabile. Piuttosto, ci si concentri, nella stesura del programma, sui seguenti elementi, molto più concreti ed importanti:
-          Che i programmi di reinserimento lavorativo siano coerenti con la professionalità del beneficiario, onde evitare che l’ingegnere nucleare si ritrovi a fare lo sguattero;
-          Che la presa in carico del beneficiario sia “di filiera”, cioè sia basata su una valutazione completa dello stato di bisogno, sul versante materiale, ma anche su quello sanitario, socio assistenziale, lavorativo, formativo, in modo da predisporre piani personali di reinserimento ad hoc;
-          Che i servizi sociali sul territorio siano potenziati, professionalizzati e messi in rete, superando la situazione attuale, in cui essi sono perlopiù abbandonati e dequalificati;
-          Che il requisito dell’ISEE, essendo rilevato annualmente, non discrimini chi, nell’anno precedente, lavorava, poi ha perso il lavoro ma ha ancora un ISEE che lo collocherebbe fuori dalla platea dei beneficiari. Occorre istituire un sistema di rilevazione semi-permanente delle condizioni economiche dei richiedenti.
P.S. Benissimo che il programma sia riservato ai soli cittadini italiani. Deve passare il principio che non abbiamo le risorse per occuparci della povertà altrui, non potendo nemmeno coprire integralmente quella nostra. Chi non è italiano e si ritrova da noi senza soldi e senza casa, se non ha immediate prospettive di lavoro o di sostegno familiare, deve tornare al suo Paese a farsi sostenere. Altrimenti, i delicati animi che si oppongono a tutto ciò sborsassero di tasca loro quei 10-20 miliardi che servono per coprire la povertà anche dei variopinti personaggi che vengono dal mare per stabilirsi da noi.

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