giovedì 18 giugno 2020

La meridionalizzazione di una città del Centro-Nord

 


Il lungo, e per certi versi dimenticato, dibattito sulla questione meridionale si è intrecciato, negli anni, in misura più o meno pretestuosa, con quello di una questione settentrionale. Le due questioni hanno convissuto l’una con l’altra, in modo sostanzialmente occulto negli anni del boom economico (nel senso che in quegli anni le esigenze di sviluppo del Settentrione hanno largamente prevalso su quelle del Sud), per poi esplodere quando, già dalla fine degli anni Novanta, la crescita economica italiana è rallentata.
La questione settentrionale, una volta esplosa, ha dimostrato elementi di problematicità diversi da quelli del Mezzogiorno. Come afferma Castronovo, la questione settentrionale (cui si possono assimilare numerose situazioni di aree ad elevata industrializzazione del Centro Italia) si manifesta “ allorché, da un lato, si affievolì al Nord un trend economico espansivo su scala territoriale globale e, dall'altro, la classe politica locale cominciò a perdere quota in sede nazionale e non seppe formulare proposte adeguate di sviluppo e modernizzazione (…) oggi è venuta imponendosi alla ribalta una questione settentrionale che covava da tempo e che è divenuta man mano più acuta. E ciò sia per l'incapacità culturale, da parte della classe politica, di comprendere i mutamenti avvenuti nella fisionomia sociale delle comunità locali; sia per il crescente malessere di tante imprese costrette a competere nel mercato globale senza un adeguato retroterra di strutture logistiche, di trasporti e comunicazioni, di nuove fonti energetiche, di investimenti in capitale umano e in alta tecnologia”.
Di conseguenza, a differenza della questione meridionale, che è legata alle inerzie tipiche del sottosviluppo, quella settentrionale è legata ad una serie di freni posti sulla strada di un ulteriore sviluppo, necessario per tenere il passo con le aree più dinamiche del Centro e del Nord Europa. E’ la sensazione di “perdere terreno” rispetto ai primi, fra i quali si è appartenuti, che crea una crisi di identità.
Gran parte della questione settentrionale e dei suoi erronei rimedi, come il federalismo asimmetrico, nascono da questo problema, per così dire, di identità: la percezione, in larga parte giustificata, di non essere più gli stessi, di non avere più la forza economica e la competitività di un tempo, che costringe il Nord, un tempo orgogliosamente (ed anche, per molti versi, egoisticamente) auto-percepentesi come “altro” rispetto al Mezzogiorno, a specchiarsi in fenomeni di degrado tipici del ritardo di sviluppo, fino ad allora confinati nei territori a sud del Tevere: diffusione della criminalità organizzata di stampo mafioso, degrado abitativo ed urbano, deindustrializzazione di grandi complessi produttivi, disoccupazione intellettuale, fuga di cervelli.
La crisi, prima ancora che produttiva, diventa culturale, identitaria: perso il modello che ha consentito anni di crescita e benessere, molte aree del Nord vagano fra ribellismo rabbioso e cieco, angoscia da insicurezza, difficoltà a gestire una povertà dalla quale si credeva di essere usciti. E, come tutte le crisi culturali e di identità, si accompagna a fenomeni di devianza sociale, che sono gli amplificatori di una difficoltà a restituire senso al proprio modello di vita da parte di intere comunità improvvisamente impoverite.
A puro titolo di esempio, nel grafico riportato in fondo al presente articolo, per alcuni indicatori socio-economici di fonte Istat, ho calcolato la distanza assoluta fra i valori riferiti ad una città del Centro Nord un tempo fiorente, poi connotata da una lunga fase di declino industriale, urbano ed occupazionale, come Livorno, e i valori riferiti al Mezzogiorno, rispetto all’ultimo dato disponibile (“dato recente”) ed allo stesso indicatore preso nel valore di dieci anni prima (“baseline”). Come è possibile vedere, Livorno non si è affatto avvicinata al Mezzogiorno, negli ultimi dieci anni, rispetto alle variabili legate alla competitività economica e produttiva: rispetto agli indici di internazionalizzazione, infrastrutturazione, qualità del capitale umano, innovazione e di tenore di vita medio la distanza favorevole a Livorno rispetto al Mezzogiorno si è, in genere, ampliata.
Di converso, Livorno si è avvicinata ai dati medi del Mezzogiorno rispetto ad indicatori tipici della devianza sociale, ad esempio in quelli criminali: il tasso totale di delittuosità e l’indice di microcriminalità urbana (quest’ultimo più legato a fenomeni di disagio sociale metropolitano e di disgregazione dell’identità socio-lavorativa personale che si esprimono in piccoli reati individuali e non organizzati) hanno valori che assimilano sempre più Livorno ad aree urbane tipicamente meridionali. Inoltre, vale la pena di evidenziare come il tasso di suicidi diviene, negli anni, più alto a Livorno che non nella media meridionale.
Si tratta di fenomeni di devianza legati allo sbriciolamento di un modello in cui una comunità si riconosceva in passato, senza un modello alternativo. Significativo è anche che un indice di sperequazione distributiva dei redditi, come la percentuale di detentori di un reddito imponibile inferiore ai 10.000 euro annui, tenda ad avvicinarsi al dato meridionale: l’aumento delle sperequazioni distributive è la strada maestra per generare un incremento di segmenti sociali collocati fuori dal perimetro dell’inclusione sociale, condotti quindi a non riconoscere più il modello che precedentemente li tutelava ed a cadere in fenomeni di devianza da de-identificazione. L’impoverimento diseguale, che colpisce in misura più netta i segmenti sociali più fragili, si traduce in crisi di identità e di appartenenza, e tali crisi generano devianza sociale.
Il problema non è tanto e meccanicisticamente riferibile ai dati di mercato del lavoro: in termini di valori assoluti di occupati e disoccupati, il mercato del lavoro livornese non ha subito tracolli tali da portarlo verso le condizioni destrutturate del mercato del lavoro delle aree del Sud Italia: in un arco decennale, le distanze con il Mezzogiorno in termini di tassi di disoccupazione e di occupazione giovanile restano immutati, in termini di tasso di occupazione totale il vantaggio di Livorno tende addirittura a crescere.
Il problema è nella “meridionalizzazione” dei sistemi pubblici di redistribuzione, ed in particolare del welfare, che insieme all’abbassamento dei salari, contribuiscono ad ampliare le diseguaglianze distributive pur in presenza di un incremento dei tassi di occupazione e delle occasioni di lavoro. Come è possibile vedere, il vantaggio della provincia di Livorno rispetto al Mezzogiorno, in termini di quota di Comuni che offrono servizi socio-assistenziali contro la povertà, il disagio ed a vantaggio dei senza tetto, tende a dimezzarsi in pochi anni. La crisi abitativa, conseguente al declino delle politiche di edilizia popolare, continua a conservare per Livorno un inquietante svantaggio rispetto al Sud.
Concludendo: il cuore della questione settentrionale è il frutto di una crisi di identità legata all’esaurimento di un modello che offriva benessere ed inclusione. Tale sperequazione produce una difficoltà a ricostruire un modello collettivo in cui rispecchiarsi, che meridionalizza le aree di crisi del Centro Nord in termini di devianza sociale ed individuale. Un vecchio modello muore sotto i colpi della globalizzazione, dell’austerità, dell’assenza di progettualità, e non ce n’è uno nuovo dentro il quale sentirsi cittadini inclusi.


Distanze fra i valori socio economici di Livorno (provincia e, dove disponibile, Comune) e Mezzogiorno nel dato più recente e nel baseline riferito a dieci anni prima


giovedì 4 giugno 2020

Le lezioni per l'Italia della crisi argentina

La crisi argentina può insegnare diverse cose anche a noi italiani in questa fase storica. Nel 2001, in corrispondenza con un elemento congiunturale che fa da propellente (la rivalutazione del dollaro e la svalutazione del real brasiliano) l'Argentina entra in una pesantissima crisi. 
LA DISCESA ALL’INFERNO
Viene al pettine il nodo della c.d. "ley de convertibilidad", voluta dall'allora Ministro dell'Economia del governo Menem, Cavallo, che fissa un tasso di cambio rigido di 1 a 1 fra peso e dollaro. L'Argentina non fa parte, come noi, di un'area valutaria comune, ma la rigidità del tasso di cambio con il dollaro sortisce alcuni effetti tipici della partecipazione, in funzione subordinata, ad un'area valutaria comune. In particolare, pone dei vincoli rigidissimi alla politica monetaria e fiscale, di fatto "espropriando" il governo argentino dalla gestione delle leve di politica economia, esattamente come l'euro ci espropria. Nel caso argentino, quando il dollaro rivaluta, occorre fare una politica fiscale restrittiva e deflazionistica, per scoraggiare le importazioni, oltre che una politica monetaria di contrazione della massa monetaria in circolazione, di aumento dei tassi di interesse e di vendita delle riserve valutarie in dollari della Banca centrale per difendere il cambio del peso. Anche nel nostro caso, l'appartenenza all'euro impone politiche di bilancio restrittive mirate a convergere verso i parametri di finanza pubblica del Paese leader, al fine di evitare tensioni inflazionistiche asimmetriche o crisi di fiducia dei mercati nella sostenibilità dell'euro che, in fasi di crisi come quella attuale, costringono i leader a indesiderati bailout dei Paesi più fragili finanziariamente. Esattamente come il governo argentino del tempo, ci troviamo intrappolati in un "chicken game" in cui dobbiamo andare di un millimetro più in là, in direzione di una austerità distruttiva, rispetto alla Germania. Ad aumentare la somiglianza con la nostra situazione di dipendenza da una valuta estera, di fatto l'economia argentina del tempo è "dollarizzata": il grosso delle transazioni commerciali si fa in dollari, non in pesos. 
 Risparmiatori in attesa di prelevare con il corralito
A crisi conclamata, i fragilissimi governi peronisti di transizione (Duhalde, poi Rodriguez Saa e di nuovo Duhalde) fanno alcune cose: sequestrano il risparmio privato bancario tramite i corralitos, per evitare il tracollo delle banche di fronte alla corsa a svuotare i conti correnti, varano una moneta a circolazione interna (il patacon) per mantenere liquida l'economia, ma non si tocca il vincolo esterno, ovvero il cambio rigido 1 a 1 con il dollaro. La risposta dell’economia è disastrosa: per impossibilità di riaggiustare il cambio in maniera realistica e per sfiducia crescente dei mercati, che disinvestono sfruttando la possibilità ancora aperta di far defluire i capitali dal Paese, nel solo anno 2002, il Pil crolla dell’11%, tornando sui livelli del 1992, registrati dieci anni prima. Il tutto mentre l’inflazione, lungi dal calare, accelera disastrosamente. 
Un patacon
 
A quel punto, in una situazione oramai drammatica, Duhalde, assistito dal nuovo Ministro dell’Economia Lavagna, fa due cose: abolisce la legge di convertibilità, lasciando che il peso si svaluti liberamente, dichiara il default sovrano su circa il 70% del debito pubblico e vara una durissima legge di ri-pesificazione dell’economia: l’uso del dollaro viene proibito, i depositi bancari in dollari vengono forzosamente ridenominati in pesos, le inefficaci valute parallele come il patacon abolite. In pratica, con tali manovre il Paese riconquista la piena sovranità monetaria ed economica, al doloroso prezzo di un enorme prelievo di risparmio privato, destinato a ripagare il debito pubblico: con la ripesificazione che si accompagna alla svalutazione del 70% del peso rispetto al dollaro, circa un terzo del valore nominale dei depositi bancari viene spazzato via, case, terreni, esercizi commerciali e capannoni industriali vengono venduti per un tozzo di pane, la classe media argentina viene risucchiata nel gorgo della crisi. 
LA RINASCITA
Sembra la catastrofe, ed invece è l’inizio della risalita verso la luce. L’eliminazione del vincolo esterno con il ripristino della piena sovranità monetaria apre strade fino a quel momento impensabili. Nel successivo ciclo politico, il neo presidente Nestor Kirchner ha l’intelligenza di confermare il Ministro Lavagna. Un Paese in default ma indipendente inizia a nazionalizzare le aziende strategiche nazionali, anni prima privatizzate da Menem e finite in rovina. Nel 2005, viene rinegoziato il debito estero, con il 76% della sua quota capitale che viene sottoposto ad un haircut del 25-35% ed un prolungamento delle scadenze. Con le riserve della Banca centrale, nel 2006 viene liquidato il debito con il Fmi, che aveva un forte potere di condizionamento politico. Vengono posti rigidi paletti all’uscita di capitali. Con la riguadagnata libertà geopolitica, il Paese negozia con la Cina un vantaggioso accordo commerciale di fornitura pluriennale di soia transgenica, che riporta in attivo la sua bilancia commerciale. Vengono investite gigantesche somme in programmi di contrasto alla povertà, di potenziamento dell’educazione e della ricerca. La crescita torna su ritmi dell’8% medio annuo. Il debito pubblico scende al 50% del Pil nonostante un massiccio aumento della spesa pubblica. Nel 2008, la Banca Mondiale classifica l’Argentina, per la prima volta, fra i Paesi ad alto reddito pro capite. 
Certo, poi con la successiva presidenza di Cristina Fernandez tali progressi sono stati in parte compromessi, in parte per l’ostilità della grande finanza internazionale supportata dagli USA e dalla borghesia reazionaria interna, ma anche e soprattutto per errori evitabili: la rotta delle principali aziende nazionalizzate dovuta ai criteri di nomina nepotistici dei vertici, la dilagante corruzione della cerchia interna alla presidenta, insieme a pulsioni autoritarie ed eversive, che ha alienato i favori popolari ed ha messo il Paese in mano ad incapaci, il furore ideologico che ha portato ad un vicolo cieco (ad un certo momento, con i creditori internazionali andava fatto un negoziato più flessibile, il che avrebbe permesso di allentare i vincoli alla fuoriuscita dei capitali ed i controlli valutari forsennati, che si erano tradotti in un crollo delle importazioni di beni di primaria necessità, non prodotti internamente, la svalutazione del peso andava in qualche modo contenuta entro limiti ragionevoli, impedendo di importare nuova inflazione). Ma il peso principale del nuovo default è, tuttavia, sulle spalle di Macrì, che con il ripristino di politiche neoliberiste ha riportato il Paese agli anni bui. 
LEZIONI UTILI ALL’ITALIA
In conclusione, quali lezioni possiamo imparare da questa storia, utili per l’Italia? Secondo me le seguenti:
a) le valute parallele, a circolazione interna, fiscali o altro, servono a ben poco se si è in costanza di un vincolo esterno, nemmeno in una situazione, come quella argentina, di carenza effettiva di liquidità, figuriamoci per una situazione in cui la liquidità è potenzialmente enorme, come quella italiana. E’ il vincolo esterno a guidare le politiche economiche, non la valuta parallela. Se poi il vincolo esterno viene rimosso, con ritorno ad una politica monetaria sovrana, allora la valuta parallela diviene ancor più inutile. Nell’insieme, è un trucco inutile;
b) il risparmio non è del tutto una variabile neutrale, di risulta rispetto agli investimenti (come pensa la teoria classica). Se si va in default, esso viene, in qualche modo, ciucciato via, anche solo per via della susseguente svalutazione della moneta, in caso di moneta sovrana, oppure viene usato per pagare un pezzo del conto del debito pubblico, come nel caso greco. Di conseguenza, nel pre-default il risparmio può essere utilizzato per varie finalità che alleviano il default (o, nel caso dell’ingente risparmio italiano, potrebbero anche evitare il default): nel caso argentino, è stato usato, sostanzialmente, per salvare le banche dal crollo e poi usato come garanzia per facilitare il ritorno sul mercato del debito e pagarne una quota (il debito con il Fmi è stato pagato con le riserve in dollari della Banca centrale, a loro volta prelevate dai risparmi). Prima di farselo puppare via dal default, è utile utilizzarlo per ammortizzare la caduta;
c) non esistono pasti gratis. La rimozione del vincolo esterno, per un certo periodo, fa tanto ma tanto male. Fa cadere il saggio di investimento, produce fuga di capitali solo parzialmente frenabile con i controlli amministrativi (che, peraltro, se troppo stringenti portano ad una forma di autarchia decrescista, come avvenuto con la Fernandez), genera una recessione profonda, anche se temporanea. Per questo, è molto meglio rimuovere tale vincolo in una situazione di crescita, non certo farlo quando si è già in recessione, ampliandone l’effetto;
d) non esistono pasti gratis seconda puntata. Non si può, così, ripudiare il debito estero ad mentula canis, senza essere vittime di ritorsioni atroci. Il ripudio inevitabile del debito in una prima fase va poi ammorbidito nella fase successiva, possibilmente cercando di passare per accordi con istituzioni internazionali, come il club di Parigi, che in cambio di una qualche condizionalità sull’economia interna, garantiscono il percorso di ristrutturazione senza vendette sanguinose da parte dei mercati. Il furore ideologico non serve. Serve presentarsi al tavolo del negoziato per la ristrutturazione del debito forti della rimozione del vincolo esterno e del ritorno alla crescita economica, per guadagnare punti nel negoziato;
e) senza uscita dal vincolo esterno nulla salus. Il vincolo esterno, e non scempiaggini sulla produttività totale dei fattori o le riforme strutturali, è l’unico responsabile della mancata crescita. Persino una economia sgarrupata come quella argentina ha rivisto prospettive di crescita, insieme ad un miglioramento dell’equità sociale, nel momento in cui è uscita dal vincolo esterno. Figuriamoci cosa potremmo fare noi italiani;
f) la legge aurea della riduzione del debito non è l’avanzo primario o lo spread: è la crescita. E questa, come detto sopra, dipende dall’assenza di vincoli esterni;
g) i controlli dei flussi di capitale servono per un periodo limitato, legato soltanto alla fase più acuta della crisi. Prolungarli produce un incremento del costo del capitale tale da scoraggiare gli investimenti. Come si vede dal grafico sottoriportato, che illustra il differenziale fra il costo di un bond in dollari al NYSE (celeste chiaro) ed il costo del medesimo bond nella Borsa di Buenos Aires (blu scuro), tale costo è favorevole all'Argentina solo in una fase iniziale, grazie ai controlli sui capitali, che producono un costo extra di disintermediazione dal Paese che effettua i controlli ma, a lungo andare, la situazione si rovescia. 
Prezzo di una obbligazione in dollari al NYSE (celeste chiaro) e della medesima obbligazione alla Borsa di Buenos Aires (blu scuro)

Fonte: Kiguel e Levy Yeyati (2009)

martedì 2 giugno 2020

L'omicidio Floyd: alla radice del declino del sogno americano





Quello che sta succedendo negli USA rischia di non essere l’ennesimo episodio della lunghissima serie di sommosse legate a motivi razziali ed al comportamento illegale dei vari corpi di polizia o più generalmente al malessere sociale di un Paese fortemente diseguale (soltanto dal 2000 in poi se ne contano quasi 50). Certo, i motivi restano sempre gli stessi di quelli dell’uccisione di Michael Brown o di Eric Garner o di tanti altri. Per la rappresentazione mediatica, che ha bisogno di messaggi semplici ed immediati, si liquida tutto con il richiamo al razzismo. La questione è più complessa e, come cercherò di spiegare, passa per il tramite di un meccanismo perverso fatto di ghettizzazione-costruzione di sottoculture criminali come reazione alla polverizzazione dei legami sociali-etichettamento negativo di intere comunità-militarizzazione dei corpi di polizia-politicizzazione della magistratura. Si tratta dell’inesauribile spargimento di sangue imposto da una società fondata sulla segregazione urbana, lavorativa ed educativa, che impone alle sue minoranze una molto maggiore difficoltà nel raggiungere l’obiettivo ideologico fondante del suo patto sociale originario: ovvero l’assenza di tutele barattata in cambio della massima libertà formale di essere ciò che si sogna di essere.

L’American dream si ferma alle soglie dei ghetti urbani, rigorosamente costituiti su base etnica, dove la disperazione si trasforma in violenza continua, dove la mancanza delle capacitazioni educative di base rende impossibile essere ciò che si sogna, le droghe sono il sostegno per spegnere coscienze troppo dolorose da poter essere sopportate quotidianamente e la criminalità, facilitata dalla libertà di circolazione delle armi, diventa la via fin troppo facile per costruirsi occasioni di riscatto che le vie legali non offrono, o, come nel caso delle gang urbane, che si scelgono un loro logo ed un proprio territorio esclusivo, anche un fattore di identificazione “tribale”, di socializzazione primaria, come risposta esistenziale rispetto ad una società ipercompetitiva, che spezza ogni legame sociale, in nome di un individuo molecolare che deve affrontare in solitudine le sue responsabilità personali. Creando una subcultura fatta addirittura di un proprio linguaggio, di proprie regole, di propri meccanismi di selezione sociale, impermeabile alle influenze esterne e quindi potenzialmente autoriproducentesi nel tempo, in ultima analisi non più recuperabile alla vita civile, come osservava Cohen nella sua analisi delle gang giovanili degli anni cinquanta. 

Mappa dei livelli di segregazione urbana nelle aree metropolitane USA: Minneapolis è fra le aree ad alta segregazione



Questa situazione di segregazione fisica, sociale e reddituale, che evolve verso la segregazione culturale, come evidenzia la criminologia basata su fattori ambientali, stimola il comportamento violento, anche di tipo irrazionale, cioè non legato necessariamente ad un calcolo rischio/beneficio nella scelta di assumere un comportamento deviante. L’identificazione fra violenza e gruppi sociali e razziali ben precisi, addirittura delimitati fisicamente dal quartiere in cui vivono, per i ben noti meccanismi studiati dalla teoria dell’etichettamento di Becker, producono una assimilazione “ex ante”, a livello collettivo, fra appartenenza ad un determinato gruppo etnico, ad una determinata classe di reddito o ad una determinata residenza e probabilità di esperire comportamenti criminali e violenti. La stigmatizzazione sociale “ex ante”, a sua volta, produce effetti deleteri nell’autorappresentazione dell’individuo, indotto a “convincersi” di essere un criminale potenziale solo perché nero o povero. Tali fenomeni sono alimentati anche da una distorsione dell’informazione criminologica disponibile: per effetto dell’etichettamento, le forze dell’ordine sono indotte a sottoporre a controlli più frequenti ed approfonditi soltanto quelle categorie sociali o etniche che sono etichettate come più propense al crimine, aumentando in modo artificioso il tasso di criminalità di tali categorie (che cresce solo per i maggiori controlli ed indagini cui sono sottoposte rispetto ad altri strati etno-sociali) e rafforzando l’etichettamento negativo cui sono soggette. 

In questo circolo perverso, le forze dell’ordine ed il sistema giudiziario si autoconvincono, a loro volta, che essere nero o povero aumenta la probabilità di essere violenti, magari di essere strutturalmente renitenti all’arresto. Tale convinzione si salda con gli interessi concreti dei produttori di armi da fuoco, generando una militarizzazione dei corpi di polizia, che, per effetto di un addestramento para-militare e di un reclutamento che si indirizza proprio verso ex militari, tendono a diventare gruppi chiusi, legati da una disciplina e da una mistica della violenza dovuta, dell’onore e della solidarietà interna tipicamente militare, impermeabile a qualsiasi rapporto di dialogo con la cittadinanza. Il sistema giudiziario, composto perlopiù da procuratori eletti dalla cittadinanza, quindi in cerca di consenso facile, copre e favorisce la militarizzazione dei corpi di polizia, perché essa genera un falso sentimento di sicurezza, che ripaga in termini di voti. Poliziotti inadeguati, più volte sanzionati per comportamento violento, proprio come l’agente Chauvin, più volte sottoposto a provvedimenti disciplinari interni, vengono tenuti in servizio e coperti, fino a quando non scoppia la tragedia. L’assenza di rappresentanza politica dei gruppi più fragili ed esposti all’etichettamento, in un sistema elettorale basato sul finanziamento privato, quindi intimamente oligarchico, impedisce di spezzare questo circuito perverso tramite la mediazione ed il dialogo politico. 

Alla fine, la spirale fra segregazione, etichettamento, militarizzazione dei corpi di polizia accompagnata da insufficiente sanzione giudiziaria porta a un comportamento autoreferenziale da parte dei tutori dell'ordine: come è possibile vedere nel grafico sottoriportato, mentre i tassi di violenza poliziesca tendono, per le varie aree urbane degli USA, a disporsi lungo una relazione lineare, quindi ad essere correlati fra loro, essi appaiono indipendenti rispetto ai tassi di criminalità violenta. Corpi di polizia autoreferenziali e protetti tendono a comportarsi violentemente in qualsiasi situazione, anche quando i tassi di crimine violento non sono tali da giustificare tali atteggiamenti. 

I tassi di violenza delle polizie degli USA sono indipendenti dai tassi di criminalità violenta



Questa è la situazione strutturale, da sempre. Essa genera frustrazione ed episodiche esplosioni di rabbia, sedate tramite la Guardia Nazionale e qualche generica e disattesa promessa di intervenire per cambiare il sistema. Ma su questa situazione, in questo momento storico preciso, si innestano fattori specifici, non sperimentati prima: si innesta il coronavirus, con i suoi oltre 100.000 morti, misure di isolamento e quarantena mai sperimentate e assolutamente incomprensibili per la mentalità dell’uomo della strada, nutrito da una cultura di assoluta assenza di ingerenza dello Stato, i suoi 40 milioni di disoccupati, lasciati privi di qualsiasi meccanismo di sostegno sociale. Lo stesso Floyd era incappato in questo meccanismo micidiale, e, senza alcun aiuto pubblico, stava cercando di sopravvivere con una piccola truffa di denaro contraffatto. 

Quello che sta succedendo negli USA mina alla base ogni residua credibilità dell’American dream, quel residuo di sogno americano con il quale Trump era arrivato al potere, promettendo di rifare “America great again”. Da un lato, le Autorità pubbliche sono costrette a penetrare nella vita privata dei loro cittadini, imponendo limiti, vincoli, proibizioni, assolutamente incomprensibili ai più. Nessuno oggi dice che la sommossa per l’uccisione del povero Floyd è stata preceduta da grandi manifestazioni anti-lockdown. Dall’altro, spiattella davanti agli americani l’inadeguatezza della promessa trumpiana di riscatto di quel sogno, con una caduta dell’economia che non si registrava dai tempi della Grande Depressione. Le esitazioni iniziali, che hanno favorito la diffusione del virus, lo scaricabarile del lockdown sui governatori degli Stati, la minimizzazione della tragedia, la persistente unwillingness di adottare rimedi straordinari di tipo keynesiano per riportare al lavoro le decine di milioni di disoccupati, e poi, comunque, la necessità di adottare provvedimenti sanitari restrittivi, avversati dai più. 

Trump sta cercando di scaricare le responsabilità della sommossa su Antifa, una rete di tipo libertario ed anarchico, ma a nessuno sfugge la ben più pericolosa presenza degli estremisti di destre, in particolare i cosiddetti “boogaloo bois”, una rete destrutturata, gestita perlopiù on line, di fanatici della libertà di uso delle armi, che predicano lo scontro frontale con le Autorità e l’avvio di una seconda guerra civile. Tali gruppi, che solo parzialmente si intersecano con i suprematisti bianchi (e che, anzi, spesso non hanno nemmeno una matrice razzista, come nel caso dei Three-percenters, uno dei tanti gruppi di questa galassia) e che si autoidentificano con una bizzarra uniforme in cui spicca una sgargiante camicia hawaiana, sono stati visti e fotografati nei luoghi delle sommosse, dove probabilmente hanno lavorato per istigare la violenza. Trump li protegge e considera parte di quella visione distorta dell’America tipica della sua destra più reazionaria: il 2 maggio, quando un gruppo di “boogaloos” armati, in segno di protesta contro il lockdown, ha sequestrato il municipio di Lansing, in Michigan, il presidente ha suggerito di non prendere misure repressive contro di essi, parlando di “brave persone, che vogliono soltanto riavere indietro le loro vite”. Si tratta dello stesso Presidente che oggi svia l’attenzione parlando di sommosse promosse dagli Antifa e che tratta i governatori da “idioti” se non prendono misure dure contro i manifestanti. 

Un membro dei boogaloo boys ritratto durante le sommosse di questi giorni

Dal sito social dei Virginia Knights, uno dei gruppi affiliati ai boogaloos, l'invito a detenere armi contro i poliziotti e, indirettamente, a partecipare alle sommosse


Ora, tale atteggiamento, oltre che risultare, in pratica, inefficace nel frenare le sommosse, lancia un messaggio pericoloso: ci sono proteste e proteste. Quelle che difendono un libertarismo in ultima analisi responsabile delle diseguaglianze socio-etniche sono legittime. Quelle che da tali diseguaglianze promanano quasi fisiologicamente sono invece da reprimere. Evidentemente, la politica dei due pesi e delle due misure serve solo per tutelare il lato più malsano e pericoloso dell’American way, quello che ha portato gli USA alla drammatica crisi sociale che vivono, oramai, dagli anni Novanta, e che ne hanno determinato la progressiva decadenza. Non aiuterà certo a rifare “America great again”. 

Trump giustifica l'aggressione dei boogaloos in un municipio del Michigan contro il lockdown


Che tali contraddizioni esplodano proprio a Minneapolis, città che ha oscuri ricordi di bigotteria, di esperimenti di eugenetica e di gruppi antisemiti come la Silver Legion, è solo un elemento che aggiunge sconcerto al quadro complessivo.