lunedì 16 marzo 2020

Qualche riflessione di prospettiva post-virus

 
 
Il decreto "Cura Italia" è, stante la distruzione economica prodotta dalle misure di contenimento sanitario del virus, una gocciolina d'acqua in un mare. Servirebbero misure strutturali e molto potenti per far ripartire il motore dell'economia, un sostegno mirato ai redditi, iniziando da quelli più bassi a più alta propensione marginale al consumo, per riattivare i consumi, giganteschi programmi pluriennali di investimenti pubblici, attuati da agenzie pubbliche sganciate dal rispetto delle regole degli appalti, scalati su priorità precise di rendimento sociale (in termini di attivazione occupazionale di cantiere nell'immediato, ma anche di sostegno alla produttività totale dei fattori nel medio periodo) concentrando gli sforzi su quelle opere (circa 100 miliardi) che hanno già uno stanziamento di bilancio ma non sono mai partite e su una riprogrammazione complessiva delle risorse residue del Fsc e del cofinanziamento nazionale dei Fondi SIE 2014-2020, su una riconcentrazione della programmazione nazionale della ricerca e dell'innovazione su poche piattaforme tecnologiche fattibili e realistiche rispetto alle nostre vocazioni industriali, un gigantesco utilizzo delle risorse della Cdp su prestiti assistiti da garanzie pubbliche a favore delle PMI che rischiano la chiusura, suddiviso in due sezioni (sostegno alla liquidità e sostegno agli investimenti). 
 
Niente di questo si ritrova nel piano del governo, che somiglia al classico contentino per salvaguardare il consenso delle varie categorie con tante micro-concessioni di scarso impatto specifico e disperse in mille rivoli. Dice il nostro premier che il vero piano di rilancio arriverà dopo, forse ad aprile-maggio, per essere concertato con le risorse promesse dalla Commissione Europea. E qui, come si dice, casca il lepre. La nostra classe dirigente sta fingendo che l'Unione europea esista ancora. 
 
Ed invece, questa costruzione ha preso fuoco sulle spiagge del Peloponneso durante la gestione infame della crisi greca del 2014, dove c'è la stata la prova provata dell'incapacità delle élite europeiste di costruire una solidarietà europea reale, e la resa dell'idea europeista agli interessi nazionali dei circuiti creditizi e finanziari tedeschi, francesi e britannici, con la stolta e controproducente complicità del nostro governo. Poi la gestione di Draghi della Bce ha messo una pezza a colori a questo strappo esiziale, inondando di denaro a costo zero (anzi, negativo) un circuito che non funzionava più per una divaricazione storica non colmabile. 
 
La Brexit prima, e il coronavirus poi, hanno lacerato la pezza a colori che Draghi aveva faticosamente messo sopra l'abisso. La prima ha, di fatto, mandato in tilt i negoziati sul bilancio europeo 2021-2027, per incapacità degli Stati membri di accordarsi sui sacrifici da fare per coprire i mancati introiti netti provenienti dalla Gran Bretagna. 
 
Il secondo ha portato la Germania a rinunciare ad ogni residua velleità di esercitare le responsabilità connesse al suo ruolo naturale di potenza regionale. L'incapacità, oserei dire psicologica, una tara della psiche di massa tedesca, di condividere i rischi, qualunque essi siano, questo ottuso vacuum culturale di stampo calvinista che ha impedito a questo Paese di svolgere il ruolo che la sua potenza economica e tecnica, oltre che il suo posizionamento geopolitico, gli avrebbero consentito, ha fatto sì che, in pochi giorni, una Cancelliera terrorizzata dalle spinte isolazionistiche provenienti dai suoi alleati bavaresi della Csu (una specie di Lega tedesca) e dalla crescente destra nazionalista di Afd, abbia cancellato, nell'ordine, il Six Pack (con il maxi piano di prestiti da 550 miliardi preso senza alcun negoziato con la Commissione) ed i Trattati di Dublino e Schengen (sigillando, ancora una volta a capa sua, frontiere interne ed esterne). 
 
D'altro canto, una Bce caduta di nuovo in mani francesi, con una sciocca ed incompetente cortigiana passata più da esclusivi boudoirs che da esperienze professionali di spessore ha, di fatto, nella percezione dei mercati, al di là delle imbarazzanti veline di stampa di rettifica, cancellato la gestione Draghi e bloccato l’unica misura ragionevole per una devastazione economica di così grande portata: trasformare la Bce in prestatore di ultima istanza che assorbe le quote delle aste di titoli pubblici invendute, sostenendo i rendimenti e cancellando strutturalmente gli spread. Si tratta, anche in questo caso, di una posizione ideologica, legata al liberismo macroniano, ma che di fatto rende impotente la politica moentaria, chiusa in una trappola della liquidità, quindi incapace di riattivare l’economia tramite un tasso di interesse oramai negativo. 
 
Oramai tutto questo apparato tecnico-amministrativo e monetario, che è la Ue, è un cadavere che cammina. Ma qui si annida il più grande pericolo per un Paese come il nostro: la nostra classe dirigente, ha legato le sue sorti e la sua ragion d’essere ad un europeismo fanatico, più realista del re. Lo ha fatto anche per motivi di buona fede, per così dire, nella convinzione che un Paese individualista e senza regole potesse migliorare con una governance slegata dai tradizionali meccanismi consociativi e clientelari della Prima Repubblica. Ma di fatto adesso non può smentire tale articolo di fede, senza delegittimarsi. E quindi perdere il potere ed i privilegi di cui ancora gode. Conte, e forse Draghi dopo di lui sono, di fatto, le ultime bandierine cui si aggrappa questa classe dirigente screditata e senza coraggio, oramai non più in grado di avere la credibilità per proporsi al Paese. 
 
Questa classe dirigente difenderà il posizionamento europeista del Paese a tutti i costi, negando anche l’evidenza e sarà disponibile a portare il Paese ad un inevitabile default, pur di non sganciarsi da regole europee alle quali sarà l’ultima a rimanere fedele. Perché è del tutto ovvio che andiamo verso un default: una economia senza prospettive strutturali di crescita, già stagnante prima del coronavirus, ha oramai i suoi motori completamente spenti, posizionamenti nelle filiere industriali globali compromessi dal lungo stopo cui il governo l’ha sottoposta, a differenza di altri Paesi europei che stanno proteggendo maggiormente l’economia, ed un Paese vecchio, stanco e diviso in tifoserie, che non ha mai veramente concluso la guerra civile fra fascisti ed antifascisti di 75 anni fa. 
 
La recessione da coronavirus, associata a livelli altisismi di debito pubblico, produrrà una isteresi del debito, endogeno al ciclo, a fronte della quale la Bce non verrà in soccorso con i predetti strumenti straordinari menzionati prima. Alla fine, si arriverà a quella condizione di “fiscal fatigue” nella quale gli avanzi primari necessari per contrastare l’isteresi del debito e lo snowball del suo servizio diventano insostenibili socialmente e i mercati non rinnoveranno più le quote di debito pubblico in scadenza, per effetto di un rollover risk troppo alto. Sarà la classica situazione sudamericana di default, con il debito pubblico che uscirà dal mercato e il Paese aggrappato all’assistenza finanziaria estera (cioè al cadavere dell'Unione Europea, che esisterà ancora solo formalmente, opportunamente imbalsamato per recitare gli ultimi atti della commedia), che richiederà, in primis, di bruciare il risparmio privato a copertura dei prestiti concessi (quindi perderemo le case, i risparmi bancari e quant’altro). 
 
Evidentemente, se la Germania vorrà ancora essere una micro-potenza regionale, dovrà stringere i bulloni dell'euro ordoliberista con i pochi Paesi ancora in grado di seguirla: l'area del Beneluxl dell'Europa centrale e del Baltico. Economie fallite come quella italiana e quella greca (probabilmente anche quella spagnola e, io credo, anche la Francia, seppur in un lasso di tempo più lungo) dovranno essere accompagnate gradualmente fuori dall'euro, con accordi valutari che impediscano loro di svalutare (come il vecchio Sme).
 
Solo a quel punto, con il Paese in ginocchio e la scommessa europea persa, questa classe dirigente, oramai inutile anche ai suoi referenti stranieri, sarà rimossa, lasciando, forse, spazio a forme di peronismo di sinistra all’argentina. Cosa occorrerebbe fare, a mio parere? Considerando che non si ha laforza per impedire la catastrofe, occorrerebbe prepararsi al dopo. Iniziando a costruirlo, questo populismo di sinistra. Sapendo che, nelle fasi in cui l’orizzonte politico è allo zero ed il campo è ingombro di macerie, non si può costruire il Partito, occorre ricominciare ad occupare spazi semantici lasciti vuoti dalla narrazione dominante (e fallita) ed a ricostituire elementi primari di collegamento fra massa e leadership, cioè ricostruire un populismo che sia la fase zero di un Paese distrutto da rimettere in piedi. Senza nessuno degli attori attuali, né di destra né di sinistra, che sono del tutto inadeguati e sputtanati. Ricominciando dall’inizio, con le pochissime forze ancora fresche a disposizione di un Paese anziano e distrutto. Un compito ciclopico, ma non evitabile.

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