venerdì 10 aprile 2020

IL BREVE TEMPO PRIMA DELLA FINE



QUATTRO SOLDI CHE NON BASTANO ALLA RIPRESA. Il punto di discussione fondamentale su quanto avvenuto nell'Eurogruppo non è negli strumenti (condizionalità, bond europei) quanto, piuttosto, nella pochezza delle risorse che saranno messe a disposizione dell'Italia, perché nell’immediato, ovvero nell’emergenza di arginare la recessione e contenere le perdite produttive ed occupazionali, parliamo, al massimo, di un pacchetto di soldi che, al netto di quanto l'Italia dovrà immobilizzare come garanzie per accedere ai vari fondi, vale 35,6 miliardi di Mes (condizionato all’utilizzo per spese sanitarie, di prevenzione e cura, che però libererà alcune risorse nazionali attribuite al Ssn per girarle all’economia) + circa 12 miliardi di prestiti Bei + 850 milioni di fondi SIE da non rimborsare + qualche centinaio di milioni di fondi Sure. In totale, circa 50 miliardi, forse 60, il 3-4% del Pil. Niente, assolutamente niente rispetto alla gravità della crisi incombente. Tutto il resto, le cifre pazzesche sparate a livello giornalistico (200 miliardi di prestiti Bei, 100 miliardi di Sure, un pacchetto complessivo da 750 miliardi di euro) sono cifre buttate lì, si basano sui moltiplicatori che, presuntivamente, le risorse appostate come garanzia dagli Stati membri su ogni strumento dovrebbero attivare, mobilitando soldi del settore privato. Moltiplicatori evidentemente sballati e sovrastimati, in una fase di pesantissima crisi economica, dove i privati avranno paura ad investire e manifesteranno preferenza per la liquidità, anche a fronte di ingenti garanzie pubbliche interstatali. Sono favole della comunicazione, non veri soldi disponibili.
E oltretutto questi pochi soldi sono tutti prestiti, che vanno restituiti,anche se a tasso agevolato e scadenze flessibili rispetto a quanto il mercato dei titoli di Stato offrirebbe. Poi forse ci sarà anche un Fondo di solidarietà, non si sa se finanziato con coronabond o altri strumenti necessariamente di mercato, stanti le ristrettezze del bilancio europeo (anche qui il dibattito è perlopiù ideologico), ma i tempi di attivazione saranno lunghi, legati a quel "piano di ricostruzione europea" che, con i vincoli del bilancio 2021-2027 resi più stretti dalla Brexit, appare più che altro chimerico e di piccolo cabotaggio, e comunque avente una tempistica di medio periodo inadeguata a fronteggiare l'impatto immediato e profondo della crisi.

UNA MERA TRANSIZIONE VERSO IL DEFAULT SOVRANO. Ci ridurremo a strisciare sulle ginocchia. E probabilmente il programma Pepp della Bce impedirà il default solo nel brevissimo periodo, perché, anche se contribuirà a moderare la curva dei rendimenti del debito pubblico, come tutti sanno, la condizione di sostenibilità, al netto di politiche di aumento dell'avanzo primario (austerity) che al momento non è possibile fare, è che il tasso di crescita dell'economia eguagli, se non superi, il tasso di rendimento dei titoli pubblici. Poiché nei prossimi due o tre anni il tasso di crescita sarà fortemente negativo, o al massimo stagnante, occorrerebbe avere rendimenti negativi o nulli sui titoli del debito pubblico, una condizione che solo una massiccia monetizzazione del debito potrebbe consentire, e che è fuori dallo Statuto della Bce e da qualsiasi ipotesi politica sul tavolo al momento. E' questo che, in modo molto goffo mediaticamente, la Lagarde ha cercato di spiegare con il suo intervento ad inizio crisi: la politica monetaria, limitata alle opzioni statutarie della Bce, non può sconfiggere lo spread. Semplicemente la politica monetaria non basta, senza politiche fiscali espansive molto massicce, che non si sostanzi nei quattro citti che la Ue pensa di mettere a disposizione. Il Pepp della Bce e i quattro soldi che la Ue mette a disposizione per il contrasto alla crisi servono solo per ritardare i tempi del big bang, non ad evitarlo. Quindi credo che, a mero di eventi congiunturali miracolosi, nel giro di 1 o 2 anni, l'Italia andrà in default. E che questi 1-2 anni di transizione verso il fallimento servano agli investitori esteri a recuperare quanto possibile dei loro investimenti nel Belpaese, isolandolo per quanto possibile dai circuiti finanziari globali, al fine di minimizzare l'impatto internazionale del fallimento del debito sovrano italiano (questo spiega il consiglio della Kommerzbank ai suoi clienti, di smobilitare gli investimenti sull'Italia nei prossimi mesi). Questa transizione fa anche comodo al ceto politico italiano attuale, che pensa di lasciare le conseguenze del default in mano a chi verrà dopo.

NESSUNA ALTERNATIVA. Anticipo anche chi, legittimamente, dirà “ma di fronte a questo scenario, allora tanto vale uscire dall’euro”. Purtroppo, non si fanno operazioni di sganciamento da una disciplina monetaria e valutaria comune quando si è in condizioni di pre-default. L’esperienza argentina dello sganciamento dalla ley de convertibilidad nel momento peggiore dell’economia nazionale lo dimostra. L’aumento del debito pubblico oltre la soglia del 150% del Pil è un effetto automatico, inevitabile, legato al crollo del gettito fiscale ed all’aumento degli stabilizzatori automatici. In queste condizioni, se shiftassimo verso una valuta sovrana, quale investitore internazionale sarebbe disposto ad investire in bond denominati in una moneta di uno Stato in fallimento? Voi lo fareste? Quindi nessuno sosterrebbe gli aumenti nelle emissioni di titoli pubblici in lire, necessari per coprire l’effetto della crisi. Uscire dalla lira in queste condizioni presupporrebbe di dover fare interventi di austerità selvaggi, di misura mai sperimentata prima, nel periodo peggiore, ovvero in piena recessione, per dimostrare ai mercati che c’è la volontà di rispettare gli impegni, nonostante l’uscita dall’area euro. E’ bene ricordare, inoltre, che, a differenza del debito pubblico giapponese, in larga misura detenuto da soggetti interni, il nostro debito pubblico è per circa un terzo del suo ammontare attestato su creditori esteri. Monetizzare completamente il debito pubblico ci ridurrebbe a scenari da Weimar o Zimbabwe, con iperinflazione e moneta totalmente svalutata, con il ritorno al baratto o al mercato nero delle “valute pregiate”.
Forse l’emissione di una valuta interna meramente limitata agli scambi commerciali domestici, sia essa sotto forma di moneta fiscale (i CCF) o altra, unitamente ad una sorta di “mobilizzazione” patriottica del risparmio nazionale, per convogliarlo verso il sostegno al debito sovrano, potrebbero attenuare gli effetti del disastro, rendere più facile la ripartenza successiva, ma non credo che da soli potrebbero evitare il crollo.

E ALLORA? E allora niente. Con i provvedimenti europei attuati o in discussione, stiamo comprando tempo per postergare il più possibile l’inevitabile resa dei conti, e per consentire agli altri Stati europei di costruire un minimo di cordone sanitario per ridurre gli impatti del crack italiano, quando esso avverrà. Ma non credo che l’area euro senza l’Italia (e, non molto tempo dopo, possiamo starne sicuri, senza la Spagna, il Portogallo, la Grecia, con qualche tempo in più anche senza la Francia) possa sopravvivere, cordoni sanitari o meno. Vengono meno mercati di sbocco, per quanto si cercherà di recuperare risorse verranno meno investimenti importanti fatti dalla Germania e dalla Francia, sia di tipo finanziario che industriale, inevitabilmente il sistema dei pagamenti europeo sarà colpito duramente, perché i circuiti bancari sono intercorrelati e perché, una volta uscita dall’euro per default, l’Italia si troverebbe con un saldo passivo rispetto alla Germania nel sistema di pagamento Target 2. Un saldo che, una volta usciti dall’euro, diverrebbe, da mero ed innocuo saldo contabile quale è oggi, un debito che la Banca d’Italia avrebbe nei confronti della Bundesbank e delle altre banche centrali dell’euro (e parliamo di una bomba di circa 380 miliardi), vengono meno i contributi netti dell’Italia al bilancio Ue, cioè al sostenimento del pesantissimo apparato europeo (con il risultato che gli altri paesi dovranno immediatamente sborsare i circa 2-3 miliardi di contributo netto annuo che versa l’Italia). Ed ovviamente ci saranno anche contraccolpi politici: una Italia fuori dall’euro sarebbe meno incentivata a svolgere il ruolo di “campo profughi” per l’assorbimento di migranti dal Nord Africa e rafforzerebbe enormemente le posizioni dei partiti sovranisti in tutti i Paesi ancora aderenti all’euro.

COSA VUOL FARE LA GERMANIA DA GRANDE? Germania, Olanda, Austria, i Paesi baltici, tutto questo lo sanno bene, ed allora la domanda da farsi è la seguente: si preparano a contenere, per quanto possibile, i danni della fine dell’area euro, con un mero ponticello di transizione verso una serie di default, primo di tutti quello italiano, oppure vorranno salvare la costruzione dell’euro (e sé stessi) rilanciando sul piatto delle politiche di sostegno alle economie dei Paesi membri più fragili, magari in un secondo momento, non troppo lontano, diciamo entro i prossimi 5-6 mesi? La differenza passa tra un calcolo meramente elettoralistico, che stanno facendo la Merkel e Schaeuble, dopo aver drogato il loro consenso interno con la retorica degli italiani spendaccioni e inaffidabili, che condurrà la Germania a perdere il proprio ruolo dominante ed a subire, essa stessa, danni economici pesanti, seppur dilazionati, e un calcolo imperiale, che consenta alla Germania di mantenere il suo ruolo di comando, imprescindibilmente legato alla difesa dell’area euro e dei suoi Stati membri. L’egemonia si esercita con la guerra, e quella economica la Germania l’ha vinta, e con la generosità nei confronti dei sottoposti, come gli USA che a fine guerra vararono un piano Marshall anche a favore dei Paesi sconfitti, generosità che la Germania deve ancora acquisire. E la può acquisire solo consentendo alla Bce di attivare il bazooka vero, ovvero un piano di acquisto incondizionato sul mercato primario dei titoli del debito pubblico dei Paesi più fragili, Italia in primis, usando una moneta di una entità istituzionale che non può fallire, perché legata ad economie solide finanziariamente. Le tante esternazioni di questi giorni, dallo Spiegel all’ex cancelliere Schroeder, passando dalla presa di posizione dei Verdi, partito che comunque rappresenta il 15% dell’elettorato tedesco, mostrano che una parte rilevante della società tedesca vuole rispondere alle sfide dei sovranismi con l’affermazione del ruolo imperiale della Germania, che implica la necessaria generosità. Chi vivrà vedrà.

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