lunedì 6 agosto 2018

Il caporalato: qualche spunto di riflessione

Il mercato del bracciantato agricolo, nonostante il fatto che vi sia un CCNL di settore, è ancora regolato dai meccanismi più sporchi e selvaggi del "libero mercato". In un settore primario in cui l'industria di trasformazione e la GDO lasciano le briciole, in termini di valore aggiunto, e le compensazioni della PAC sono insufficienti a dare redditività al prodotto, specie per le piccole superfici e considerando le condizionalità con cui sono erogate, il lavoro nero ed il caporalato sono da sempre i mezzi ordinari di negoziazione e utilizzo del lavoro.Un prodotto agroalimentare che, dopo essere transitato dall'industria di trasformazione, diventa un pregiato made in Italy, rende pochissimo ai produttori della materia prima agricola che lo costituisce.

In questa miseria, si inserisce, al Sud, la criminalità organizzata, che - tramite i caporali che negoziano le condizioni di lavoro, reclutano e disciplinano i braccianti sul campo - si impadronisce del controllo delle aziende agricole, impone loro i lavoratori in nero da utilizzare e le condizioni - atroci - con cui usarli e "pagarli", se così si può dire. Poi tali ecomafie faranno business imponenti nella commercializzazione di prodotti "made in Italy" genuini oppure "Italian sounding", cioè contraffatti, o nella ristorazione, o ancora nell'agriturismo. Parliamo di un giro d'affari illegale che, secondo stime di Coldiretti, si aggira attorno ai 17 miliardi di euro all'anno. E che offre alle mafie nostrane anche l'opportunità di riciclare il denaro sporco guadagnato in altre attività illecite, e costruire sistemi di truffa a danno della PAC. 
Ma c'è anche un caporalato gestito da immigrati, in particolare dalle Confraternite della mafia nigeriana (Black Axe, Eyie, ed altre) particolarmente feroce, che per imporsi in territori gestiti dalle mafie nostrane, offrono lavoratori a salari particolarmente bassi, resi docili dalla violenza e dalla capacità intimidatoria di tali organizzazioni, che si basa anche su rituali magico-religiosi. Tale mafia extracomunitaria sembra dirigersi soprattutto verso le imprese agricole non sottoposte a controllo da parte delle organizzazioni nostrane, intermediando manodopera in condizioni anche peggiori di quella dei caporali italiani.

Ci sono poi i caporali "fai da te", che si inseriscono negli spazi lasciati liberi dalle mafie, per organizzare circuiti di caporalato locali e di piccole dimensioni. Spesso sono imprenditori agricoli che organizzano il giro direttamente per la loro impresa (come avvenuto nel trapanese, dove due titolari di impresa agricola sono stati scoperti) e a volte sono stranieri che "vendono" i loro compagni per uscire dalla miseria. 
Non di rado, il caporalato passa per il tramite di canali apparentemente legali, come le agenzie di lavoro interinale, che stipulano contratti di lavoro regolari con le imprese agricole, e poi trattengono somme indebite al lavoratore, o gli chiedono prestazioni lavorative eccessive sotto minaccia di licenziamento, trasformandolo in uno schiavo. Fatti analoghi sono avvenuti tramite l'utilizzo di false cooperative, in cui i lavoratori sfruttati erano reclutati come soci, ovviamente in modo fittizio. 

Quale che sia la fonte, il business vale moltissimo: un caporale pentito ha dichiarato alle Forze dell'Ordine di guadagnare circa 3.000 euro al mese dalla sua attività di intermediazione, a fronte di un guadagno, per i lavoratori, di circa 90-100 euro netti al mese (al netto cioè di quanto pagano al loro stesso caporale, per servizi di trasporto o cure mediche, e persino per l'affitto di degradati casali in abbandono, dove vivono in condizioni disumane).Il trasporto su mezzi inidonei della manodopera, come vecchi furgoni insicuri stipati di braccianti nel piano di carico, non visibili all'esterno, è uno dei sintomi del caporalato.

Il caporalato, ovviamente, insiste sui segmenti più deboli della forza-lavoro, e quindi, principalmente, sui lavoratori immigrati, siano essi regolari o clandestini, perché le forme di ricatto possono essere differenziate per categoria. Ma la crisi economica, associata alla persistenza di forme di economia rurale primaria in molte zone del nostro Sud, fanno sì che la partecipazione di lavoratori italiani sia crescente, attestandosi, attualmente, attorno al 20% del totale. In particolare, si tratta di donne: le braccianti italiane vengono preferite spesso a quelle straniere perché più docili e manovrabili, vivendo negli stessi contesti in cui agiscono le organizzazioni criminali che stanno dietro tale business, a volte sono legate da rapporti di parentela con affiliati a tali gruppi, e quindi tendono ad accettare più supinamente quanto proposto loro. Si calcola che dei 100.000 lavoratori che annualmente subiscono tale forma di sfruttamento, il 40% siano donne, particolarmente apprezzate per attività come la raccolta dell'uva. E sottoposte a particolari condizioni di sfruttamento, come gli abusi sessuali sistematici e condizioni salariali persino peggiori degli uomini.

La legge del 2011 istituisce il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, che però è  di difficile applicazione, perché per essere integrato richiede, oltre alle condizioni di sfruttamento oggettive (stipendi e condizioni lavorative peggiori sistematicamente rispetto ai contratti di lavoro legali del settore ed alle norme di legge e gli usi) anche condizioni soggettive da dimostrare, quali la violenza, la minaccia, l'intimidazione, lo sfruttamento dello stato di bisogno.

Nel 2016, il Governo Renzi ha esteso il reato di caporalato anche all'imprenditore agricolo utilizzante, nei casi in cui assume o impiega manodopera in condizioni di sfruttamento, anche attraverso intermediari, approfittando del loro stato di bisogno. Diversi i nuovi strumenti a disposizione: dal rafforzamento dell'istituto della confisca e di altre misure cautelari per l'azienda in cui viene commesso il reato, alla concessione di attenuanti in caso di collaborazione con le autorità, sino all'arresto obbligatorio in flagranza di reato. Si prevede, solo sulla carta, un potenziamento della rete dei controlli sulle imprese, che infatti rimane il vero punto debole di tale normativa. E che si basa su una rete di imprese agricole "virtuose", che dovrebbero svolgere attività di monitoraggio e prevenzione del fenomeno, il che, ovviamente, è una assurda demagogia: il monitoraggio, il controllo e le politiche preventive dovrebbero spettare al soggetto pubblico, che dovrebbe potenziare gli ispettorati per il lavoro, anche in funzione di attività di contrasto al caporalato. Le imprese non hanno un interesse diretto a svolgere tale attività, tipicamente di pubblico interesse.

Quello che però serve, accanto ad una attività repressiva efficace, è la prevenzione, e la prevenzione non può che passare da una migliore distribuzione della catena del valore nelle filiere agroalimentari: rendere finalmente l'attività agricola redditizia è la precondizione per estirpare l'uso del lavoro nero e dei fenomeni più gravi ad esso associati, e ciò passa per una reale valorizzazione della qualità del prodotto, anche imponendo prezzi minimi controllati a livello amministrativo, superando la logica dell'elemosina che presiede ai contributi del PAC. Occorre puntare maggiormente su un reale associazionismo fra produttori per spuntare prezzi migliori negli approvvigionamenti e nel conferimento del prodotto alla GDO, rendere più convenienti il carburante e l'acqua per uso agricolo, e proteggere, con un sistema daziario, le nostre produzioni dalla concorrenza di Paesi terzi che non usano, per la loro manodopera, sistemi di tutele contrattuali analoghi ai nostri.

Ed evidentemente, il controllo più rigido dei flussi migratori serve per sottrarre ai caporali manodopera abbondante e disposta a tutto, che finisce, nel far west del mercato del lavoro agricolo, per fare concorrenza al ribasso anche ai braccianti italiani delle zone più povere ed infestate dalla criminalità organizzata.

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