sabato 2 marzo 2019

Guerre civili in Africa fra opportunità di guadagno e rivendicazioni per la giustizia



Capire meglio la radice delle guerre civili in Africa significa, per noi, impostare una politica di sviluppo verso il continente africano che sia effettivamente in grado di fermare i flussi migratori già alla loro origine.
Nella vasta letteratura sulle guerre civili spicca, per capacità di verifica empirica delle ipotesi, il modello proposto originariamente nel 1998, e poi rivisto nel 2004, da Collier e Hoeffler, dell'università di Oxford. Tale modello cerca di spiegare le guerre civili, non solo in Africa ma in generale, sulla base di due categorie concettuali: l'opportunità di un guadagno economico che superi il costo-opportunità della guerra civile (cioè il costo legato alla perdita di altre opportunità di crescita economica “pacifica”) e la rivendicazione di maggiore giustizia da parte di gruppi sociali o etnici isolati dal potere.
Tale modello si chiama infatti “greed and grievance”, ovvero “profitto e rivendicazione”. La verifica empirica di tali ipotesi si basa su un panel di 1.167 Paesi del mondo, fra i quali 79 hanno subito guerre civili di durata almeno quinquennale fra 1960 e 1999, tramite un modello econometrico di tipo “logit”, cioè la cui variabile dipendente è binaria (nel caso di specie, assume valore uno nei paesi in guerra, e zero in quelli in pace).
I risultati sono in parte ragionevoli, perché confermano analisi di senso comune, in parte stupefacenti. Emerge in generale che la componente di profitto economico è più rilevante, statisticamente, nello spiegare le guerre civili, rispetto a quella rivendicativa. In particolare, nell'area delle opportunità, un ruolo molto forte è da attribuirsi al grado di dipendenza delle esportazioni da materie prime. Quando tale dipendenza supera il 33%, la probabilità di guerra civile schizza verso l'alto, come effetto sia del lucro derivante, per le bande armate, dalla possibilità di acquisire il controllo di tali materie prime, sia per una peggiore governance del governo legittimo, spesso particolarmente corrotto in Paesi ad alto export di materie prime.
Una diaspora di popolazione a seguito di una guerra civile aumenta significativamente il rischio di un nuovo conflitto. L'interpretazione qui non è univoca: potrebbe aumentare tale rischio finanziando, dall'esterno, i gruppi ribelli rimasti nel Paese, oppure potrebbe essere una correlazione spuria: conflitti molto intensi, che per la loro intensità sono passibili di una ripresa dopo un breve periodo di pace, generano diaspore molto grandi. In questo caso la diaspora non sarebbe una causa del riavvio di un conflitto di per sé, quanto piuttosto una misura indiretta dell'intensità dello stesso, e quindi della probabilità che esso scoppi nuovamente.

D'altro canto, l'istruzione secondaria ed il tasso di crescita del Pil pro capite riducono il rischio di guerra civile, perché costituiscono proxy di redditi futuri conseguibili “pacificamente”, cui si deve rinunciare per andare in guerra, quindi sono costi-opportunità.
Passando all'area della “grievance”, si ottengono risultati sorprendenti: le variabili che misurano il grado di frazionamento sociale ed etnico sono pressoché insignificanti statisticamente, cioè non sembrano esercitare effetti particolari sull'avvio di una guerra civile. Soltanto il grado di democrazia interna ha un effetto significativo, e negativo, sulla probabilità di avvio di un conflitto, perché veicola il conflitto sociale dentro un quadro istituzionale e pacifico.
Un certo effetto proviene anche dalla variabile riferita alla dominanza etnica: i Paesi ad elevata dominanza di un'etnia sulle altre (dominanza da intendersi in termini numerici, cioè Paesi in cui un'etnia corrisponde ad una percentuale della popolazione molto alta) sono a maggior rischio di conflitto civile. Gli autori deducono che una crescente diversità sociale ed etnica costituisca un fattore di pacificazione, riducendo la dominanza di un gruppo etnico sugli altri e creando crescenti problemi di comando e controllo, e in ultima analisi di coesione interna dentro i gruppi ribelli, il che, per chi ricorda la ex Jugoslavia, è piuttosto sorprendente.
Delle variabili di contesto generale del Paese, solo la concentrazione della popolazione ha un effetto misurabile statisticamente, nel senso (anche in questo caso sorprendente) che una popolazione molto concentrata in poche aree riduce significativamente il rischio di guerra civile.
Molte critiche possono essere avanzate a tale modello, una delle quali è che esso prendere in considerazione, nel panel, Paesi di tutti i cinque continenti, quindi realtà politiche, sociali e culturali molto diverse fra loro, mediandole in forma artificiosa mediante un modello statistico.
Una risposta a tale critica è data da Anyanwu (2003) che riprende il modello di Collier e Hoeffler, stimandolo soltanto per le guerre civili dell'Africa. Come per questi ultimi, la dipendenza economica dall'esportazione di materie prime è il fattore che spiega maggiormente le guerre civili. Così come la crescita economica genera costi-opportunità, in termini di redditi futuri acquisibili pacificamente, che disincentivano la guerra civile. Anche il ruolo disincentivante della democrazia rispetto all'avvio di guerre è confermato, fornendo canali pacifici per il conflitto sociale.
A differenza del modello originario, però, emergono altre variabili significative: la durata della pace dopo un conflitto civile, in primis, che riduce la probabilità che un nuovo conflitto riemerga, sia perché ha un effetto “curante” sul rancore fra i diversi gruppi sociali o etnici, sia perché il tempo trascorso pacificamente consente di mettere in piedi meccanismi di democrazia e di crescita economica in grado di dissuadere da nuove avventure militari.
E poi riemerge il ruolo del frazionamento sociale, variabile che per Hoeffler e Collier era non significativa. Ma emerge in modo strano: ci si aspetterebbe che un alto frazionamento sociale o etnico possa indurre maggiori rischi di conflitto. Invece è il contrario: similmente all'ipotesi di Hoeffler e Collier riguardo alla diversità etnica come fattore di diluizione della dominanza etnica, un elevato frazionamento sociale riduce i rischi di guerra civile, perché ridurrebbe la capacità di comando e controllo dei gruppi armati e la possibilità che un'etnia diventi dominante numericamente, trasformando le altre in minoranze represse. Spiegazione invero molto poco convincente. Diversamente, da Collier e Hoeffler, non emerge un collegamento statistico con il livello di dominanza numerica di un'etnia, per il semplice motivo che la significatività di tale variabile viene assorbita da quelle riferita al frazionamento socio-etnico (sono cioè due variabili collineari, che interferiscono l'una con l'altra rappresentando, in realtà, lo stesso fenomeno misurato in modo diverso; è cioè un bug del modello).

Tali risultati darebbero, secondo Anyanwu, una giustificazione per un approccio liberale allo sviluppo dell'Africa, basato sulle famose “riforme” che tutti gli enti internazionali, da sempre, impongono in modo del tutto inutile in Africa: occorre, da un lato, promuovere maggiore democrazia, ovviamente importando il modello occidentale che poco si attaglia alle forme di democrazia diretta e di villaggio africane, implementare forme di trasparenza di bilancio per mostrare come vengono usati i proventi da esportazione di materie prime, e poi lavorare sulla diversificazione economica e produttiva, per ridurre la dipendenza dalle materie prime stesse, al contempo ricevendo maggiori aiuti economici dai Paesi ricchi, per incrementare la crescita economica potenziale. Si suggeriscono poi le consuete, ed assolutamente “uneffective”, sanzioni internazionali sui gruppi armati che esportano materie prime per finanziare l'acquisto di armi. Mentre, positivamente, si suggerisce una politica di controllo delle nascite di tipo cinese, che però in Paesi senza disciplina e senza governance è molto difficile da implementare.
La stranezza dei risultati dipende, in parte, da una non perfetta specificazione statistica dei modelli: ci si concentra sulle guerre civili, ovvero le situazioni in cui entrambe le parti accusano perdite non inferiori al 5% dei propri effettivi militari, trascurando quindi i numerosi episodi di massacro, in cui cioè un gruppo, quasi senza subire perdite, ne stermina un altro. Se anche tali fenomeni fossero inclusi nel panel, evidentemente il ruolo del frazionamento socio-etnico diverrebbe molto più importante. Si tornerebbe cioè all'immagine classica dell'Africa, continente in cui il conflitto etnico sostituisce, in un certo senso, quello di classe, perché le classi sociali hanno una forte base etnica.
Analogamente, il ruolo equivoco e non del tutto consolidato della dominanza etnica potrebbe risultare più significativo se, anziché usare la mera misura quantitativa costituita dal numero di appartenenti ad ogni etnia, si usasse una misura in grado di tenere in considerazione le relazioni fra le varie etnie, ad esempio il numero di volte che in un dato Paese le relative etnie hanno manifestato violenze reciproche, oppure la distribuzione dei mandati dei Capi di Stato di un dato Paese per etnia di appartenenza.

Ciò porterebbe ad una immagine più fedele, ed al contempo complessa, delle guerre civili africane, fuori da fattori meramente economicistici, oppure legati a modelli occidentali da esportare ed imporre a culture completamente diverse. Si potrebbe così capire meglio il ruolo necessario dell'esistenza di autocrazie, ovviamente illuminate, per tenere insieme Paesi con tante nazionalità diverse e tanti conflitti storici, etnici e religiose. Si accetterebbe anche l'idea di un ruolo positivo che un certo livello di corruzione attivati da investitori esterni, ovviamente controllato entro livelli accettabili e non estremizzato fino alla cleptocrazia di molti regimi africani, può avere nel movimentare opportunità di business in Paesi dove tali opportunità non esistono. E forse si accetterebbe anche l'idea di una maggiore presenza militare occidentale nei Paesi-chiave, per tutelare gli interessi economici e le frontiere dell'Europa.

La mappa di Murdoch sulle differenze etniche in Africa


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