domenica 19 maggio 2019

Se la Lega vuole diventare veramente un movimento nazionale




Consapevole di essere ripetitivo, farò un ulteriore tentativo per spiegare il mio punto di vista.  Un movimento politico che si vuole populista non cerca di modificare gli assetti sociali esistenti, ma piuttosto, come peraltro bene ha spiegato Salvini, si mette in ascolto e tende a riprodurre la domanda sociale proveniente da tali assetti, dandoli in una certa misura per consolidati.
Ora, una analisi approfondita dei flussi di voto svolta da Ipsos alle politiche del 2018 ed in base ai sondaggi a dicembre del medesimo anno consegnano, per la Lega, un quadro per certi versi sorprendente. La categoria sociale in cui la Lega è più rappresentata non è la piccola borghesia classica, ma il ceto operaio: il partito di Salvini prende circa il 40% del voto operaio, soprattutto nelle aree manifatturiere di tipo distrettuale del Nord che per prime sono ripartite dopo la crisi, sfruttando la combinazione fra flessibilità e economie di scala tipiche delle imprese di medie dimensioni leader di distretto, l’immagine di eccellenza del “made in Italy” e una capacità innovativa, nonostante tutto, ancora radicata: il distretto della calzatura sportiva di Montebelluna, l’occhialeria del Veneto, il distretto dell’automazione della Motor Valley emiliana, le piastrelle di Sassuolo, i mobilieri della Brianza, e così via.
Perché gli operai di tali realtà, sicuramente più dinamiche della media e più rapide a riprendere dopo la crisi, votano Lega? Per due motivi fondamentali. Il primo è che, operando in piccole e medie realtà a gestione padronale, sono meno sindacalizzati, hanno un rapporto osmotico con la proprietà che li ha condotti a ragionare, spesso, più come “piccoli imprenditori” che come proletari nel senso marxiano. Il secondo è che il modello distrettuale italiano, grazie a Monti, Bersani, Renzi e l’allegra combriccola, ed a causa della scarsità della italica borghesia, senza capitali e con poco coraggio, nel momento in cui le tradizionali dinastie di industrialotti sono entrate in declino per motivi anagrafici, è diventato oggetto di shopping industriale da parte di cinesi, francesi, tedeschi, statunitensi. La proprietà straniera dell’azienda è il primo passo per una sua successiva chiusura con un fax non appena la casa-madre individui un Paese dove la produzione è più conveniente, e questo i lavoratori lo sanno benissimo. Ad esempio, la Brianza è una colonia franco-tedesco-cinese[1]. Senza contare i casi, come il distretto di Prato, nei quali il distretto italiano è stato divorato letteralmente da un distretto cinese che lo ha fatto praticamente sparire, sostituendo cinesi ad italiani[2], usando prevalentemente come fattore di competitività l’illegalità, il nero, l’evasione fiscale, il disprezzo delle regole dei CCNL e delle leggi sulla sicurezza del lavoro, e poi ci si stupisce se l’operaio un tempo comunista ed internazionalista oggi è ostile all’immigrazione e punta su un tema tradizionalmente di destra come la sicurezza e la legalità! In altri termini, la globalizzazione stende il suo manto di paura e di regole feroci della competizione sull’operaio dei distretti industriali del Centro-Nord, il cuore del nostro sviluppo. Creando problemi nuovi: non più solidarietà internazionalistica operaia, ma difesa del lavoro italiano. Non più “sbirro maledetto” ma richiesta di sicurezza e legalità.
Questo è il punto su cui un movimento politico come la Lega, che aspira a divenire destra nazionale, deve poter incidere per garantirsi la crescita futura. La crisi economica produce una domanda trasversale ai diversi gruppi sociali, fatta sì da sicurezza e legalità (e su questo la Lega ha avuto successo con il suo messaggio programmatico) ma anche da lavoro e welfare. Ulteriore dimostrazione della centralità del tema lavoristico: le percentuali di consenso più importanti alla Lega si registrano fra le classi di età lavorativa: fra chi ha un’età compresa fra i 35 ed i 64 anni. Non fra gli studenti, che in larga misura si illudono di poter trovare una collocazione vincente sul mercato del lavoro grazie ai loro studi, e quindi non rivolgono una domanda “lavorista” alla politica, né fra i pensionati, specie di fascia medio-alta, che costituiscono il serbatoio di voto del Pd.
E poi, l’altra faccia della crescita della Lega oltre i confini primigeni di movimento rappresentativo della rivolta fiscale della piccola borghesia settentrionale è costituita dalla percentuale di penetrazione nel sottoproletariato urbano: il voto leghista assorbe più del 28% del consenso dei disoccupati e degli inoccupati, il 38% delle casalinghe, il 37% fra chi ha al più la licenza elementare. E’ il grande popolo degli sconfitti, di chi è rimasto strutturalmente indietro e nella maggior parte dei casi non è più recuperabile per un reingresso nel mercato del lavoro, perché il gap di skill lavorativi e di curriculum ed età è troppo ampio.
Tutto questo significa che il mantenimento di questi gruppi elettorali, che sono fondamentali per il successo finale della Lega e pesano di più rispetto alla medio-piccola borghesia di tradizionale insediamento della destra italiana (i liberi professionisti e dirigenti e i commercianti, artigiani ed autonomi che votano Lega sono meno del 30% del totale) dipende dalla capacità di parlare di politiche economiche, del lavoro e sociali. Non è più sufficiente la sola proposta fiscale incentrata sulla flat tax: essa ha impatto soprattutto su quel ceto medio moderato sul quale la proposta politica di Berlusconi ha fatto successo per un ventennio. Ma era un’altra Italia: quel ceto medio moderato è in larga misura sprofondato nella crisi, o ha mutato strutturalmente modo di produzione, subendo fenomeni di precarizzazione, e di conseguenza ha una diversa visione politica. Secondo l’Istat (Rapporto Annuale 2017) tale gruppo sociale è pari ad appena il 20% del totale delle famiglie nel 2015, ed è certamente molto meno stabile e sereno di quello pre-crisi.

I risultati dell'indagine Ipsos


In aggiunta alla flat tax, serve una proposta di politica industriale anche innervata di elementi di protezionismo, che sfidi i Trattati Europei sul divieto di fare politiche settoriali e di erogare aiuti di Stato, che recuperi il recuperabile di Industria 4.0 ritarandolo sulle esigenze tecnologiche più attualizzate delle imprese, e che si sposti verso un incentivo al brevetto, cioè all’innovazione di prodotto, anziché al processo, ovvero all’acquisto di macchinari innovativi per la produzione.
E serve una politica sociale che, oltre al giusto e sacrosanto principio per cui l’accesso ad ogni prestazione socio-sanitaria sia riservato prioritariamente agli italiani, investa per creare più alloggi popolari, più ambulatori, più servizi contro le dipendenze, smantellando quel sistema di corruttele pubblico-private costituito dalle cooperative sociali e case-famiglia rosse e bianche, recuperando al pubblico anche un ruolo gestionale, oltre che meramente programmatorio, finanziario e di controllo.
Più in generale, serve un nuovo Patto sociale che rimetta lo Stato al centro della sovranità delle politiche, e ciò necessariamente implica il coinvolgimento generale della società dentro tale Patto. Le risorse si prenderanno aumentando il deficit oltre il mantra assurdo del 3% e recuperando risorse dall’evasione fiscale con metodi civili (fra i quali certamente la flat tax, che disincentiva l’evasione) e non con metodi deduttivi come gli studi di settore.

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