lunedì 27 maggio 2019

Una analisi del voto


Quando si analizzano le elezioni, occorre guardare più ai valori assoluti che alle percentuali, per capire come il voto ha girato. Il confronto con le Europee di cinque anni fa è del tutto inutile, nella misura in cui nel 2014 il quadro politico era completamente diverso da quello attuale (Salvini non era ancora sceso in campo e la Lega era fondamentalmente ancora un movimento federalista del Nord, esisteva ancora un centrodestra a trazione berlusconiana e moderata, mentre l’ipotesi di una alleanza populista gialloverde era del tutto impensabile, il centrosinistra era fortemente condizionato dalla variabile-Renzi, allora nella sua fase di piena ascesa, il M5S era ancora un partito non propenso ad alleanze e non si era ancora “affrancato” dalla tutela di Beppe Grillo, ed era ancora attivo con la sua carica leaderistica Casaleggio sr., ecc.).
Il confronto che ha senso fare, in termini di consultazioni elettorali di livello nazionale, è quello relativo alle elezioni politiche di un anno fa, il cui quadro di riferimento è ben più omogeneo di quello attuale. Quello che segue è uno schema semplificato del flusso dei voti, che non tiene conto di compensazioni intermedie, ma solo di flussi netti. E’ una rappresentazione più schematica della realtà, ma di fatto prende in considerazione i movimenti più rilevanti, che sono quindi verosimili.

Schema di flusso del voto europeo – differenze rispetto al voto di marzo 2018 e flussi di voto  (dati in milioni)


Come è possibile constatare, Lega e Fratelli d’Italia prendono, complessivamente, 3,8 milioni di voti in più rispetto al 2018. Essendo poco plausibile che vi siano significativi flussi in ingresso dal Pd, da + Europa o dai piccoli partiti di sinistra ed essendo cresciuto l’astensionismo rispetto alle politiche, tale guadagno non può che derivare in larga misura dai voti provenienti da Forza Italia (che rispetto al 2018 registra 2,3 milioni di voti in meno). Altri 0,1 milioni di voti possono provenire dalla contrazione elettorale dei partitini di estrema destra (Casa Pound, Forza Nuova) di equivalente entità. Per differenza, l’afflusso di voti provenienti dal M5S è, al massimo, pari a 1,4 milioni. I voti sottratti al M5S da Salvini (ed in misura minore dalla Meloni) sono, quindi, pari al 37% del guadagno elettorale complessivo. Il grosso del guadagno proviene, quindi, dal ricircolo di voti interni al circuito della destra.
Di riflesso, il M5S perde 6,2 milioni di voti. Se, di questi, 1,4 va alla Lega (o in piccola parte a FdI) e se tutti gli altri partiti perdono elettori, evidentemente i restanti 4,8 milioni di voti persi sono andati ad alimentare l’astensionismo che, infatti, è cresciuto soprattutto nelle regioni meridionali che costituiscono lo zoccolo duro elettorale del MoVimento. Detto in altri termini, soltanto il 22-23% dei consensi bruciati dal M5S è attribuibile ad un “furto” elettorale di  Salvini, mentre circa il 78% della perdita è dovuta alla disaffezione di un elettorato “swinging”, che oscilla fra astensione e partecipazione, un elettorato fondamentalmente poco politicizzato, che esprime posizioni di protesta ed anti-sistemiche di tipo radicale tanto quanto confuso, che a seconda dei casi si manifestano in un astensionismo di contestazione complessiva al sistema o in un voto, comunque scarsamente fidelizzato e molto “diffidente”, a partiti che di volta in volta si presentano come antisistemici. Tale elettorato, raccolto dal M5S nella fase in cui era all’opposizione e strillava “vaffa” nelle piazze, si è ovviamente volatilizzato nel momento in cui il MoVimento si è assunto una responsabilità di governo, ed ha quindi abbandonato la fase di contestazione al sistema per lavorare all’interno dello stesso, essendo quindi costretto a fare le necessarie mediazioni sui suoi cavalli di battaglia storici (TAV, TAP, Ilva di Taranto, posizioni rispetto all’euro-austerità, ecc.). E’ ovvio che, nel momento in cui diventi “istituzionale”, tale elettorato torna nella giungla.
Anche rispetto alla quota minoritaria sottratta dalla Lega, essa è stata sottratta essenzialmente perché detti elettori non hanno più trovato una sufficiente coerenza delle posizioni del M5S con i temi del contrasto all’immigrazione e all’austerity. E’ nelle posizioni di Fico e della sinistra interna al MoVimento che vanno ricercate le ragioni della perdita di voti verso Salvini. La sovrapponibilità degli elettori della Lega e del  M5S è solo parziale, l’attacco furibondo a Salvini non aveva alcun senso, dal punto di vista elettorale, non vi è nemmeno una maggioranza silenziosa giustizialista che avrebbe ricompensato Di Maio per lo scalpo fatto al povero Siri, perché l’elettorato italiano non è giustizialista. Nemmeno all’epoca di Tangentopoli la maggioranza silenziosa lo era. Tangentopoli fu un teatrino allestito da una minoranza rumorosa, mentre la maggioranza silenziosa, lentamente, si spostava sotto l’ala di Berlusconi.
Un Berlusconi che oramai è in evidente caduta libera, in un anno perde 2,25 milioni di voti, e non solo, e non tanto, perché l’inevitabile declino fisico ne offusca l’immagine di leader, o per l’assoluta inconsistenza politica dei colonnelli a cui si è dovuto affidare nel momento in cui la Severino lo ha allontanato dai palazzi del potere. Ma per un male molto più profondo: la lunga crisi economica ha polarizzato la società italiana, ampi settori di piccola borghesia, i mitici “moderati” di provenienza pentapartitica sui quali il Cavaliere ha costruito le sue fortune, si sono impoveriti, o hanno paura di impoverirsi, o si accorgono di non poter più garantire un futuro spianato ai propri figli, e non ne vogliono più sapere di una politica sostanzialmente accomodante, centrista ed europeista.
Il Pd, dal canto suo, sembra un allegro ragazzo morto. Canta a squarciagola di aver vinto le elezioni, ma non contabilizza gli 80.000 voti persi rispetto a marzo 2018 (finiti quasi sicuramente anch’essi nell’astensionismo), con un elettorato sceso a 6,084 milioni, il più basso di tutti i tempi. La percentuale risale al 22%, dal 19% del 2018, soltanto in ragione del maggiore astensionismo, che riduce la base di elettori. Non solo riduce la base elettorale, ma mostra evidenti segnali di non riuscire più a rappresentare un polo aggregante di coalizioni politiche ampie, come ai tempi del centrosinistra con o senza trattini: ciò che resta della sinistra lo ha abbandonato, ed il centro dello schieramento politico non esiste più. Nella deriva sociale del Paese, rimane un partito sempre più piccolo e settario, incapace di rispondere alla sua vocazione originaria di forza interclassista in grado di rappresentare un punto di riferimento generale per gli equilibri dell’intera società, ed abbarbicato ai pochi settori sociali che sono sopravvissuti alla crisi, ed a residui di nostalgia per un tempo che non esiste più.
Fra i naufraghi nel mare della nostalgia, poi, fluttua ciò che resta della sinistra italiana, suddivisa fra tante sigle che, messe insieme, non valgono più del 5-6%. Gente che si ostina a non capire che le masse che si illude di poter difendere sono oramai fuggite verso altri lidi, alla ricerca di protezione da minacce globali ingovernabili, che non sono gestibili con presunti solidarismi antirazzisti, né con internazionalismi di classe del tutto teorici, ma solo con un’alleanza trasversale con i ceti medi e la piccola borghesia a capitale endogeno nel nome della difesa dell’identità nazionale e della riscoperta del patriottismo e dello statalismo. Anche nelle poche isole felici di questa sinistra allo sbando, che vagamente si rendono conto di come stanno le cose, persistono un inopinato orgoglio identitario e un solipsismo aristocratico che impediscono di cercare un accordo politico con i populismi, continuando  rifugiarsi dietro la coperta di Linus di antichi stracci rossi e di un rifiuto identitario a mescolarsi con padane genti associate ai rozzi barbari. Sembrano gli ultimi patrizi romani che suonano l’arpa mentre i guerrieri di Odoacre bruciano la città, incapaci di rendersi conto che la nuova civiltà che nascerà dalle rovine di Roma e che farà rifiorire l’Europa viene portata sulle lance e sugli scudi di quei puzzolenti e truci barbari. Magra consolazione: il problema riguarda l’intera sinistra occidentale. La Linke vale anch’essa il 5-6%, Mélenchon poco di più, Corbyn è oramai un morto che cammina, nel momento in cui si è opposto alla Brexit per far contenti i settori reazionari del suo partito, Podemos sembra al capolinea.
Ed infine Salvini. Salvini che rappresenta il 34% dell’elettorato italiano. Salvini nel quale hanno riposto le loro speranze più di 9 milioni di italiani. Salvini che adesso non guida più un partitino prealpino di allevatori di mucche alle prese con le quote-latte, artigiani e commercianti in rivolta fiscale, romantici professori che sognano il Sole che spunta dalle montagne della Padania liberata dall’invasor. Guida un partito nazionale, dentro il quale ci sono impiegati e tecnici, precari, disoccupati, casalinghe, operai che temono di perdere il posto di lavoro, piccoli imprenditori e lavoratori autonomi, pensionati al minimo. Gente che non può essere accontentata soltanto con rimedi lafferiani sul versante fiscale, come ai bei tempi del Cavaliere. Gente che ha bisogno di ospedali e scuole pubbliche, di sostegni al reddito e politiche di reinserimento lavorativo, di case popolari, e, certo, anche di sicurezza e di identità nazionale, e di sconti fiscali, e di contrasto all’immigrazione, e di autonomia regionale, su questo non c’è dubbio e su questo siamo d’accordo. Ma il momento è venuto, caro Salvini, per ricordare che, un tempo, eri un ragazzo di sinistra. Come lo ero io, peraltro.

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