E’ stato nuovamente arrestato,
dopo sei mesi di latitanza dalla sua evasione da un carcere di massima
sicurezza teoricamente inespugnabile, el Chapo Guzmán. Ed è prevedibile che,
con il suo potere e la sua capacità di influenza su polizia e magistrati, la
sua vicenda non sia finita qui.
Figura oramai assurta a leggenda
del narcotraffico, un po’ come il colombiano Escobar qualche anno fa, El Chapo
ha costruito il suo sistema di potere dal nulla. Figlio di Emilio Guzmán
Bustillos e di Maria Consuelo Loera Perez, Joaquín Archivaldo Guzmán Loera nasce
forse il 25 Dicembre 1954, forse il 4 aprile 1957 (e l’incertezza sulla data di
nascita contribuisce all’alone di leggenda del personaggio) in un paesino
microscopico, Badiraguato, nello Stato di Sinaloa, nord-ovest del Messico. Il suo
destino è segnato sin da piccolo. Badiraguato è l’epicentro del traffico di
oppio sin dagli anni Quaranta. Impiantato
da un cinese e da alcuni statunitensi, e finanziato dal Governo Roosevelt che
abbisognava di grandi quantità di stupefacenti per le truppe impegnate in
guerra, e successivamente alla fine della guerra monopolizzato da Esercito e
Forze dell’Ordine per crearsi un business redditizio, il “cultivo” di oppio sfruttava
i contadini locali, chiamati “gomeros”, che da questo ricco traffico
guadagnavano solo pochi spiccioli per la sopravvivenza.
Lo stesso padre di Joaquín è un
gomero, ed il ragazzo cresce in condizioni di miseria ed emarginazione sociale,
in una famiglia di nove fratelli, dei quali tre muoiono di malattia in età
infantile. La scuola più vicina è a sessanta chilometri di distanza, la
famiglia ha bisogno di una mano sul lavoro, ed a 13 anni il giovane Joaquín lascia
i libri per lavorare nella raccolta di arance. Ma il ragazzo è intraprendente. Non
vuole restare per sempre uno straccione come il padre, ed a 15 anni, insieme
allo zio, Pedro Avilez Perez, inizia a coltivare marihuana, vendendola sul
mercato di Culiacán, la capitale dello Stato. I suoi clienti sono spesso
esponenti delle forze dell’ordine corrotti. Si conquista allora il soprannome di Chapo,
ovvero “tappo”, per la sua bassa statura. Lo zio Pedro, soprannominato “León de
la Sierra”, è uno dei precursori del narcotraffico messicano, il primo ad aver
intuito le opportunità di mercato della marihuana, il primo ad aver inventato
il sistema degli idrovolanti per trasportare i carichi negli USA. Ma viene
assassinato nel 1978 da un gruppo di militari corrotti, ed El Chapo si ritrova
solo.
Viene però notato dagli uomini di
Miguel Angel Felix Gallardo, detto El Padrino, il più grande narcotrafficante
messicano dei tempi, divenuto lo zar della cocaina grazie all’alleanza con il
cartello di Medellín di Pablo Escobar. Gli
propongono il reclutamento, il ragazzo è abbastanza intelligente da capire che
non può continuare a operare in proprio nel territorio del Padrino, se ci tiene
alla vita, ed entra nell’organizzazione dimostrando importanti qualità di
lealtà e di capacità organizzativa, ascendendo verso incarichi di sempre
maggiore responsabilità. Coordinando i carichi di droga oltre il confine con
gli USA, acquisisce esperienza operativa, capisce l’importanza di difendere i
sottoposti e di avere buone relazioni con le popolazioni locali, che forniscono
una copertura alle attività dell’organizzazione. Vede come opera il suo capo,
El Padrino, che gestisce buoni rapporti con le autorità politiche e giudiziarie,
e che manovra i matrimoni delle sue figlie per stabilire buone relazioni con le
altre organizzazioni.
Nel 1989, El Padrino Gallardo viene
arrestato, per il sequestro ed omicidio dell’agente infiltrato della DEA “Kiki”
Camarena[1],
ed il suo impero si disintegra, spartendosi fra i suoi colonnelli. I due
fratelli Arellano Felix si infiltrano nella Baja, creando il cartello di
Tijuana, mentre El Chapo fonda il cartello di Sinaloa, insieme ad altri ex
collaboratori del Padrino come Héctor Palma Salazar, detto “El Güero”, uno dei
più sanguinari sicari di Gallardo, inizialmente il primo capo del cartello, e
Adrián Gómez González. Inizia una sanguinosa guerra con i clan rivali, specie
con gli altri scissionisti del gruppo del Padrino, quelli di Tijuana. Il 24
Maggio 1993, i sicari del cartello di Tijuana organizzano un agguato contro di
lui all’aeroporto di Guadalajara. Ma scambiano la Ford Grand Marquis del
cardinale Juan Jesús Posadas Ocampo per quella del Chapo, ed ammazzano per
errore l’alto prelato, insieme ad altre sei persone.
Questo evento è eccessivamente
grave, e la Chiesa sollecita una riparazione alle Autorità messicane. Due settimane
dopo, quindi, El Chapo, lasciato senza protezione politica, viene catturato nel
Chiapas, nel Sud del Paese, alla frontiera con il Guatemala. Viene condannato a
venti anni e nove mesi e carcerato nell’istituto penale di Puente Grande, nello
Stato di Jalisco, non lontano dal suo feudo territoriale di Sinaloa. Corruzione
e influenza politica si fanno sentire: praticamente il periodo carcerario è una
sorta di vacanza. Può utilizzare un telefono cellulare per parlare con i suoi
complici, organizzando affari da dentro il carcere, può ricevere giornali in galera, gli viene riconosciuto
un diploma di maturità, nonostante sia semianalfabeta. Gli altri reclusi lo temono
e lo rispettano, viene chiamato El Jefe, oppure don Joaquín, ed amministra la
giustizia fra i detenuti, proteggendoli persino da maltrattamenti da parte
delle guardie. Il fratello Arturo, detto “El Pollo” fa da reggente dell’organizzazione
(e verrà poi egli stesso arrestato nel 2001 e ammazzato in carcere tre anni
dopo mentre parla con il suo avvocato). Il 18 Gennaio 2001, evade dal carcere
nascosto in un carrello di lavanderia pieno di panni sporchi. Dall’indagine
condotta, risulteranno coinvolte nella sua fuga 71 persone, fra le quali 15
funzionari del sistema penitenziario.
Nel frattempo, El Güero viene
arrestato nel 1995 dall’Esercito federale messicano, e quindi El Chapo, formalmente
latitante ma ben inserito nel suo territorio di Sinaloa, si ritrova a essere
capo incontrastato. Riorganizza, rafforzandola, l’organizzazione, associandosi
a Ignacio Coronel, detto “Nacho”, Juan José Esparragoza, “El Azul”, Ismael
Zambada, “El Mayo” e Arturo Beltrán Leyva, “el Barbas”. I quattro erano stati i
luogotenenti del capo del cartello di Juaréz, Amado Carrillo Fuentes, chiamato “El
señor de los Cielos”, fintanto che il vero signore dei cieli lo richiamò a sé,
nel 1997, a seguito di una sparatoria. In questo modo, il cartello di Sinaloa
assorbe ciò che resta di quello di Juaréz, ampliando il suo raggio di azione. El Chapo è un leader mafioso autentico:
intreccia relazioni intense con la comunità di Sinaloa, radicandosi dentro la
vita civile e politica, e circondandosi da una rete di rispetto e protezione.
Migliaia di persone lavorano nelle sue imprese, create con il riciclaggio del
denaro sporco, chi ha bisogno di un lavoro o di un favore può bussare alla sua
porta. Evita, però, di scadere in atteggiamenti troppo appariscenti, o di
mostrare troppo il suo potere, come invece fanno i colombiani. Rimane discreto,
non si candida ad elezioni locali, ma manovra da dietro le quinte i suoi
candidati, non organizza festini lussuriosi, non va in giro con automobili
troppo appariscenti, se ne sta perlopiù chiuso nella sua lussuosa villa. Unico vizio,
peraltro che gli costerà caro: le donne. Si sposa tre volte, ed ha una infinità
di relazioni, generalmente con fotomodelle ed ex reginette di bellezza locali. Tutte
donne che, dopo, testimonieranno contro di lui.
Ma gestisce il potere in modo
sanguinario: centinaia di persone vengono uccise e decapitate, oppure sciolte
nell’acido. La guerra con i cartelli rivali irrora di sangue tutto il Messico
settentrionale. Si muove nella sua città con la sicurezza di un intoccabile. Ci
sono diversi racconti in cui viene visto mangiare tranquillamente al
ristorante, scortato addirittura dai militari che avrebbero dovuto arrestarlo. Quando
entra in un locale, chiede a tutti, con gentilezza e voce bassa, di consegnare
ai suoi uomini i cellulari. E li restituisce quando se ne va. Si dice che a
Ciudad Juaréz entra in un ristorante scortato da un centinaio di guardie del
corpo, mangia e poi paga il conto per tutti i clienti. Nel 2008, un suo figlio,
Edgar, pubblica tranquillamente su You Tube un video nel quale afferma che a
Sinaloa tutti sanno dove è suo padre, persino i militari. Pochi giorni dopo,
viene crivellato di colpi nel parcheggio di un centro commerciale di Culiacán,
da esponenti del cartello rivale del Golfo. Secondo il cantautore Lupillo
Rivera, il giorno del suo funerale non si trovavano rose da nessuna parte, in
città. Tutti le avevano comprate per il funerale del ragazzo.
Innovatore geniale dei metodi di
trasferimento dello stupefacente negli USA, inventa una rete di gallerie
sotterranee che corrono sotto il confine, attraverso le quali portare la droga,
e riesce così ad eludere la DEA. Stipula alleanze strategiche con la malavita
delle gang di emigrati messicani e centroamericani negli Usa, fra cui “La Mafia
Mexicana”, utilizzandole come terminali per lo spaccio di strada nelle città
statunitensi. Una organizzazione chiamata Organización Herrera trasporta per
suo conto la droga dal Sudamerica alla frontiera fra Messico e Guatemala. Fra 1990
e 2008, introduce più di 200 tonnellate di cocaina negli Stati Uniti, e riporta
in Messico 5,8 miliardi di dollari in contanti.
Il vento comincia a cambiare nel
2008. Il nipote Alfonso viene arrestato con altre cinque persone dopo una
sparatoria di strada a Culiacán. A febbraio 2009, una maxi-operazione della DEA
porta all’arresto di 750 affiliati al cartello negli USA, con il sequestro di
una ingente quantità di denaro e veicoli. A marzo viene arrestato uno dei colonnelli,
“Vicentillo” Zambada. Ad agosto dello stesso anno, la DEA disarticola la rete
del cartello a Chicago. Nel giugno 2010, “Nacho” Coronel viene abbattuto dall’Esercito
durante una sparatoria. A giugno 2011, l’Esercito federale messicano scopre uno
dei più importanti laboratori di stupefacenti usato dal cartello, a Jalisco,
arrestando uno dei periti chimici del Chapo, Hector Villalobos, detto “El Ranger”.
Nel 2013, “El Azul” muore di infarto dopo un incidente stradale, e vengono
arrestati Jesús Salazar Ramirez, “El Muñeco”, che controllava per El Chapo la
produzione di droga nell’area di Sonora, nonché Rosalina Carrillo Ochoa, “La
Estrella”, a capo del cartello di Jalisco, considerato una emanazione di quello
di Sinaloa. Ad inizio 2014, José Arechiga Gamboa, detto “El Chino Antrax”, capo
del gruppo “Antrax”, essenzialmente un gruppo paramilitare di guardie del corpo
dei leader del cartello, viene arrestato all’aeroporto di Amsterdam
(probabilmente stava cercando di espandere l’attività del cartello in Europa).
E così, a febbraio 2014 tocca al
Chapo. Viene arrestato durante una operazione congiunta fra Marines messicani,
DEA e Marshalls statunitensi, in un edificio a Mazatlan, elegante città
turistica costiera appartenente al suo feudo di Sinaloa. Trasferito in un
carcere “di massima sicurezza”, finalmente lontano dal suo feudo territoriale,
vicino a Toluca, nel Sud, si fa notare per essere, per così dire, un carcerato
molto vivace. A Luglio, cerca di iniziare uno sciopero della fame, protestando
contro i maltrattamenti ricevuti. A Febbraio,
compare un manoscritto in cui si denunciano torture e condizioni di
insalubrità. Il dato interessante è che tale manoscritto è firmato sia da Guzmán
che da esponenti del cartello nemico di Tijuana, che in teoria dovrebbero
essere separati in luoghi diversi del carcere, e non avere contatti fra loro. Evidentemente,
la “massima sicurezza” non è proprio tale, e la comune condizione carceraria
induce ad alleanze inedite. D’altra parte, le coperture politiche e giudiziarie
continuano: al Chapo viene evitata l’umiliazione di doversi rasare a zero i
capelli, come gli altri detenuti, e riceve visite non previste dal regolamento
da parte della moglie, ma anche di alcuni esponenti politici locali.
Tra l’altro, El Chapo non è
affatto isolato. Nel giorno del suo secondo arresto, si verificano manifestazioni
popolari a suo sostegno nell’area di Sinaloa. Tanti messicani devono qualcosa
al Capo.
L’11 luglio 2015, dopo appena 17 mesi di
galera, El Chapo fugge per la seconda volta nella sua vita. Alle nove di sera,
le telecamere di sorveglianza lo vedono entrare in una cella non coperta dalle
telecamere stesse. Le guardie vanno a vedere, e trovano la cella vuota. El
Chapo è fuggito attraverso un tunnel sotterraneo scavato dai suoi uomini sotto
il carcere “di massima sicurezza”. Torna nel suo territorio di Sinaloa e
ricomincia a lavorare per riorganizzare il cartello. Stringe un tregua con gli
ex rivali del cartello del Golfo, e con altri gruppi, come Los Caballeros
Templarios, contro la fazione rivale composta dal cartello di Tijuana, Juárez e
gli ex alleati Beltran Leyva, oggi dissolti e sostituiti dai Guerreros Unidos (i presunti responsabili del recente omicidio del sindaco Gisela Mota). Ad ottobre, in un tentativo di cattura da parte
dei marines messicani, riesce a fuggire, seppur ferito ad una gamba ed al
volto. Oggi, viene ricatturato per la terza volta, dai “marinos”, nella città
di Los Mochis, nel territorio di Sinaloa, a seguito di una violenta sparatoria
nella quale perdono la vita cinque persone. L’impressione è che le coperture
politiche e sociali siano ancora tali da non mettere la parola “fine” alla sua
storia.
Il sostegno popolare per un
criminale violento e senza scrupoli come El Chapo, dovrebbe far riflettere.
Segnala un modello di sviluppo sbagliato, che ha inteso praticare un
outsourcing nel Messico settentrionale del modello industriale statunitense di
quaranta o cinquant’anni fa. Generando un miscuglio esplosivo in cui una
borghesia nazionale malformata e compradora, abituata più alla negoziazione ed
all'intermediazione politica che alla promozione dello sviluppo, è costretta,
per le sue carenze culturali, ad adottare forme di controllo politico poco
democratiche e clientelari. I terminali stranieri di questa borghesia corrotta
ed incapace sono interessati a mantenere uno sviluppo combinato e diseguale,
dove a fronte di investimenti di ammodernamento dell'industria e delle sue
infrastrutture si mantiene la popolazione in condizioni di relativa povertà,
replicando non di rado forme di stratificazione sociale pre-capitalistiche, al
fine di avere manodopera docile ed a basso costo.
Gli Stati del nord del Messico,
dove tuta questa tragedia del narcotraffico si svolge, sono fra le zone più
densamente industrializzate del Paese. Città di frontiera con gli USA come
Ciudad Juarez, Tijuana o Mexicali sono poli industriali di prim'ordine
nell'automotive, nella fabbricazione di camion, nell'elettronica di consumo,
nella chimica, nella metallurgia e siderurgia, nella produzione di macchinari
industriali. Senza contare un afflusso turistico enorme dagli USA limitrofi, ed
un ampio bacino di economia illegale, legato, oltre che al narcotraffico anche
all'industria (perché di questo si tratta) dell'emigrazione clandestina. Nonostante
ciò, gli indici di benessere e di distribuzione dei redditi non sono
particolarmente migliori rispetto a quelli del Sud del Paese, dove una
industrializzazione meno intensa ha preservato, spesso, modelli sociali e comunitari
più equilibrati. In cambio, il Nord risente di tutto il pattume del
capitalismo: sfruttamento, diseguaglianza, consumismo. La distruzione di
modelli socio-culturali endogeni, in cambio degli aspetti più predatori del
capitalismo, ha creato un enorme spazio per lo sviluppo della criminalità
legata al narcotraffico: gli ha fornito manodopera fra gli strati sociali più
alienati, ed anche una giustificazione culturale ("el narco" viene
spesso identificato come una sorta di reincarnazione degli eroi della
Rivoluzione, in un più che giustificato relativismo rispetto ad uno Stato che
ha la faccia violenta del "federal", o quella corrotta del
funzionario) ed un radicamento sociale, nella misura in cui El Chapo fornisce
lavoro e servizi essenziali ad una popolazione indigente, in assenza dello
Stato.
[1] Si
scoprirà poi che Camarena fu ucciso dalla CIA, perché aveva scoperto che parte
dei proventi della vendita di droga del cartello di Guadalajara venivano usati
per finanziare i Contras in Nicaragua.